Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Quarta parte: Le dinamiche evolutive dei processi di internazionalizzazione
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Oltre alla nuova organizzazione della produzione in filiera
in questi ultimi anni si è assistito anche alla nascita dei distretti industriali
a carattere internazionale, ossia raggruppamenti di zona nazionali o trasnazionali
di aziende integrate tra loro in filiere produttive [1].
I distretti industriali a carattere internazionale non sono
da considerarsi sistemi locali nazionali indipendenti, fermi e stabili in quanto
attraversano molte tensioni interne; alcuni si sono esauriti, altri si sono
adattati. In questa modalità dell’internazionalizzazione produttiva vi possono
essere diverse soluzioni funzionali ed organizzative: l’apertura verso l’esterno
trasnazionale, la dissoluzione, la ricomposizione e ristrutturazione. Così come
per i distretti locali nazionali [2] vi possono essere
quindi diversi tipi di distretti a carattere internazionale a seconda del grado
di avanzamento tecnologico delle produzioni, dell’età del distretto, della natura
dei rapporti fra le imprese, ecc.. Vi è comunque una tendenza che sembra accomunare
i vari tipi di distretti, ossia quella della loro trasformazione attraverso
la collaborazione offerta da categorie di imprese che diventano un punto di
riferimenti e di coagulo di “reti” di imprese. Le imprese dei distretti sono
organizzate in modo verticale per operare attraverso economie esterne che permettano
di essere competitivi anche con la dimensione ridotta. In questo caso le relazioni
strategiche che riguardano l’area commerciale sono di solito al di fuori del
distretto e assumono sempre più carattere trasnazionale; l’impresa cerca comunque
di controllare le politiche di commercializzazione attraverso forme di gestione
associata tra filiali in paesi diversi.
Le relazioni del distretto prevalenti sono monosettoriali mentre
quelle necessarie per lo sviluppo delle piccole e medie imprese sono plurisettoriali.
Va rilevato che l’entrata di nuovi attori provenienti dall’esterno, specialmente
se provenienti da altri paesi, può determinare cambiamenti sulla forma e sul
funzionamento del distretto. Un esempio è dato dalle acquisizioni di imprese
localizzate nel distretto da parte di imprese esterne al distretto, attraverso
anche gli investimenti diretti esteri (IDE), soprattutto se queste imprese sono
di grandi dimensioni; in questo caso ci si può trovare davanti a un processo
di concentrazione.
Si tratta in sostanza di un processo, anche a carattere internazionale,
organizzato verticalmente che può creare non pochi problemi in fase di interdipendenza;
ad esempio è difficile capire quali siano i confini tra le varie filiere o tra
le subfiliere, speicalmente quando hanno carattere trasnazionale.
In questo caso, quindi, l’obiettivo delle imprese che costituiscono
la filiera non è quello di avere la parte maggiore del ciclo produttivo ma di
assicurarsi il controllo di una sua parte e nella filiera internazionale ciò
avviene attraverso i flussi in entrata e in uscita dei diversi dei paesi degli
investimenti diretti esteri (IDE). Ed allora il perno fondamentale delle filiera
sta nel suo centro di gravità che in chiave internazionale significa il paese
dove è la sede dell’impresa madre. Per arrivare al prodotto finito occorre passare
per una serie di operazioni che necessitano a loro volta di un numero sempre
maggiore di nuove produzioni (beni intermedi, approvvigionamenti materiali,
e sempre più di risorse immateriali imballaggi, ecc.); ognuna di queste fasi
richiede la creazione di una nuova filiera specifica con singole imprese riguardanti
singole fasi del ciclo produttivo localizzate in paesi diversi; si comprende
allora quanto sia importante il perno centrale della filiera che spesso significa
paese centrale che deve poter organizzare le filiere intermedie.
Il fenomeno dei distretti e delle filiere internazionali è interessante da
analizzare per seguire l’evoluzione e l’andamento del mercato negli ultimi decenni
e per interpretare e rappresentare le dinamiche della “delocalizzazione”
verso l’estero di attività produttive (maggiormente attività manifatturiere,
e di settori di nuove tecnologie, soprattutto informatica). [3]
Vi sono molte teorie su questo argomento: ad esempio
all’inizio dello scorso secolo, Von Thunen ha analizzato il problema
della localizzazione delle strutture agricole ed ha rilevato che
queste si posizionano in cerchi concentrici intorno ad una città,
in vari terreni posti a distanze diverse da questo centro; ogni agricoltore
avrà il massimo profitto producendo, sulla terra posta ad una
certa distanza dal centro, la coltura che gli dà il rendimento netto
più alto. [4]In seguito Achille
Loira [5]ha esplicitato
la tesi citata che presiede alla distribuzione delle colture razionale
e può essere applicata alle industrie manifatturiere fondando il
problema della localizzazione delle imprese nella logica della massimizzazione
del profitto. Weber [6]invece ritiene che il costo del prodotto finito, del lavoro,
del trasporto e delle materie prime sono i fattori fondamentali di
ordinamento delle attività produttive nello spazio e spingono le
imprese a localizzarsi vicino a uno o all’altro dei fattori produttivi.
Va ricordato che il modello weberiano è caratterizzato tra l’altro
dall’as-sunzione di alcune ipotesi semplificatrici quali costi
di trasporto proporzionali alla distanza, il costo del lavoro fisso
ed un’offerta illimitata di lavoro. Marshall A. invece impernia la
sua teoria sulle economie esterne delle quali usufruiscono i piccoli
produttori sufficientemente concentrati sul territorio. I vantaggi
della produzione su larga scala si possono ottenere sia raggruppando
molti piccoli produttori in uno spazio limitato e suddividendo il
processo di produzione in diverse fasi (ognuna delle quali può essere
attuata in diversi stabilimenti di piccoli dimensioni), sia costruendo
pochi grandi impianti con masse di lavoratori. Le economie esterne
stabiliscono dei processi di specializzazione spaziale favoriti dalla
diminuzione progressiva dei costi di trasporto; fra queste vi sono
lo sviluppo del commercio, dei trasporti, la diffusione di capacità
e di know-how, la continuità delle innovazioni e delle invenzioni,
ecc. In tempi a noi più vicini vanno ricordate le teorie di Wilson
e Harris [7] che evidenziano
l’importanza dei costi di trasporto, degli investimenti e della produzione
settoriale preesistente, mentre diventano meno fondamentali fattori
quali i costi delle aree e la densità demografica. |
In sostanza comunque, tra i fattori che influenzano il processo
di delocalizzazione vi sono fattori naturali quali la disponibilità del terreno,
la disponibilità dell’acqua, i caratteri geologici del terreno, il clima, ecc.;
vi sono ancora i fattori tecnici quali la fornitura di energia, l’organizzazione
de trasporti, ecc. Vi sono poi fattori demografici: è chiaro infatti che la
popolazione è fondamentale per l’impresa sia per la possibilità di reperire
manodopera sia per la vendita dei prodotti; è comunque evidente che i fattori
di localizzazione più importanti in questa fase dello sviluppo capitalistico
post-fordista dell’accumulazione flessibile sono quelli più direttamente di
natura economica ossia capitale libero di circolare là dove è più alto il profitto
atteso e minori le forme di tassazione, dove è più specializzato il lavoro,
meno pagato e meno normato, dove sono facilmente fruibili in termini produttivi
e di controllo l’informazione e le risorse del capitale intangibile. Il capitale
finanziario è portato a localizzarsi dove lo sviluppo è consolidato per ridurre
al minimo il rischio; anche il lavoro agisce come fattore di localizzazione
anche se in modo diverso a seconda del tipo di industria; da un lato infatti
per le industrie tradizionali e le produzioni standardizzate la necessità del
controllo spinge le localizzazioni in aree periferiche internazionali che si
caratterizzano per lavoro a basso costo e non regolamentato; dall’altro lato
invece le industrie innovative hanno bisogno di maggiore autonomia e di una
più alta qualificazione del lavoro, quindi le localizzazioni si indirizzano
verso aree a volte più centrali, ma che comunque offrono un mercato del lavoro
molto specializzato e ad alto contenuto di flessibilità.
Le imprese sono portate a delocalizzare la propria attività
produttiva sia per penetrare in nuovi mercati che hanno a disposizione manodopera
a basso costo, sia per acquisire nuove competenze tecniche sia per avere accesso
a materie prime a prezzi più bassi.
Negli ultimi anni comunque, dopo un periodo di alta concentrazione
delle attività produttive, è iniziato un processo di decentramento che partito
dagli Stati Uniti è arrivato in Europa e anche nel nostro Paese e che va ad
interessare paesi periferici ma molto più vicino al centro del processo, ad
esempio l’Italia e l’Europa che delocalizzano sempre più verso l’Europa Balcanica
e Centro-Orientale interessandosi fortemente ai mercati euroasiatici.
[1] Secondo la definizione
di Becattini (1989) il distretto industriale è “un’entità socio-territoriale
caratterizzata dalla copresenza attiva, in un’area territorialmente circoscritta,
naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e
di una popolazione di imprese industriali”.
[2] Il nostro Paese conta una rete molto forte
di distretti industriali (va considerato che in questi ultimi anni si contano
più di 100 distretti industriali con oltre 600.000 addetti).
[3] Va ricordato innanzitutto
che il termine “localizzazione” sta ad indicare il processo di scelta dei posti
per la collocazione delle attività economiche.
I primi modelli di localizzazione avevano evidenziato il ruolo
centrale dello spazio, nel senso di distanza fisica ed avevano affermato l’obiettivo
di minimizzare i costi di trasporto necessari per sfruttare le risorse naturali
disperse nel territorio e limitare quindi lo svantaggio dei rendimenti decrescenti.
[4] Von Thünen J.H., Der Isolier Staat in Beziehung auf Landwirtschaft
und Nationalökonomie, Puthes, Hambourg, 1875.
[5] Costa P., I fondamenti della teoria di localizzazione industriale:
il contributo di Achille Loira, in Cappellin R., L’evoluzione delle
strutture economiche regionali, Angeli, Milano, 1986.
[6] Weber A., Alfred Weber’s Theory of the
Location of Industries, University of Chicago Press, Chicago, 1929.
[7] Harris B. - Wilson A.G., Equilibrium value and Dynamics
Attractiveness Terms in Production-Constrained Spatial-interaction
Model, in Environment and Planning, n.10, 1978.