Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Quarta parte: Le dinamiche evolutive dei processi di internazionalizzazione
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Ma quanto incidono i processi di internazionalizzazione nell’occupazione?
I dati ufficiali della Banca d’Italia evidenziano un netto
calo dell’occupazione in Italia, cosa che si nota anche negli altri paesi; è
chiaro quindi che i costi degli attuali processi di internazionalizzazione della
competizione globale significano riduzione dei costi, in particolare del costo
del lavoro, riduzione dei salari, aumento della produttività del lavoro, quindi
dello sfruttamento, diminuzione dei posti di lavoro. Le tabelle seguenti evidenziano
quanto scritto; va ricordato che il lieve aumento degli occupati registrato
negli Stati Uniti va comunque interpretato, in quanto è diverso il modo di rilevamento;
in questo paese infatti essendo molto diffusa la flessibilità e la precarizzazione
del lavoro si reputano occupati anche coloro che lavorano pochi mesi l’anno;
lo stesso si può dire per il Canada; per altre osservazioni si veda la 1a e
la 2a parte di questa analisi-inchiesta.
Se si guarda al tasso di disoccupazione per il 1998 di alcuni
tra i principali paesi industrializzati ci si accorge subito che l’aumento riguarda
tutti con l’eccezione degli USA e del Regno Unito; da evidenziare il 12,3% dell’Italia
(vedi Tab. 10).
2. I nuovi processi di internazionalizzazione produttiva nella competizione
globale post-fordista
La globalizzazione dei mercati è un elemento caratterizzante
di questi ultimi decenni; le istituzioni politiche, economiche e culturali devono
confrontarsi ogni giorno con questo fenomeno che sta provocando una disgregazione
delle culture, dei confini e delle economie nazionali anche perché ha sempre
più assunto la forma di competizione globale post-fordista nell’era dell’accumulazione
flessibile.
Anche in un’ottica puramente di modalità di sviluppo capitalistico
vi sono diversi problemi giuridici , sociali e più direttamente economici legati
a questo fenomeno. In primo luogo non vi sono controlli efficaci nel funzionamento
dei mercati finanziari in quanto gli operatori possono decidere di spostare
ingenti somme di denaro da una parte all’altra del mondo, che in un contesto
di deregolamentazione significa agire esclusivamente secondo le proprie esigenze
di profitto senza avere nessun controllo politico nè tanto meno strumenti di
intervento delle autorità monetarie. Vi sono inoltre effetti devastanti sul
modello e sul ciclo produttivo, in quanto vi è sempre maggiore richiesta di
risorse specializzate e con un alto livello di immaterialità e flessibilità;
le fasi del ciclo più deboli, a basso contenuto di valore aggiunto, quindi,
sono escluse, esternalizzate, delocalizzate all’estero alla ricerca di lavoro
specializzato, non normato e a basso salario.
I nuovi metodi di comunicazione, veloci e dinamici hanno cambiato
le varie politiche di localizzazione e quindi il concetto di distretto ha perso
alcune delle sue specificità, prendendo forma di filiere produttive e
reti a carattere internazionale.
In questi ultimi anni si sta diffondendo un nuovo concetto
nella produzione delle imprese : quello di filiera produttiva. Questo termine
sta ad indicare una serie di operazioni di trasformazione che permettono di
produrre beni e prodotti in forma diversa rispetto all’epoca fordista-taylorista.
La Scuola Francese di Economia Industriale è stata la prima
ad introdurre questo termine per cercare di trovare affinità tra i diversi stadi
della produzione in modo da indicare i settori più soggetti alla concorrenza,
alla competizione globale e a maggiore contenuto di valore. In una prima visione
il concetto di filiera descriveva un ipotetico processo produttivo come diverse
operazioni tecniche che accadevano nel corso del tempo; nel passaggio dalle
fasi a monte a quelle a valle non deve esserci necessariamente la stessa tecnologia
in quanto l’elemento unificante è solo il prodotto trasformato, quindi più che
altro in questo modo si identifica una filiera a carattere temporale.
Questa visione semplicistica è stata mutata da alcuni industriali
francesi che considerano non soltanto la divisione del ciclo in fasi ma anche
l’organizzazione di ciascuna fase e i processi di trasferimento tra le fasi
successive. In questo modo si evidenzia il grado di interdipendenza del tessuto
produttivo e si descrivono le strategie di integrazione e le forme di organizzazione
individuate tradizionalmente nell’impresa, nel mercato e nella cooperazione
tra le imprese attraverso accordi di natura commerciale, di subfornitura, di
trasferimento di tecnologie, ecc.; si identifica così una sorta di filiera a
carattere produttivo di tipo spazio-temporale.
Stigler nel 1951 riprende il teorema sulla divisione del lavoro
per dire che, a parità di condizioni, le imprese che operano su mercati limitati
assumono in tendenza strutture più integrate, ed arriva alla conclusione che
vista la ristrettezza del mercato non vi sono le condizioni per l’esistenza
di un unico produttore; le imprese tenderanno quindi ad assumere una struttura
integrata [1].
I nuovi mercati sono globali sia nel campo della produzione
sia in quello dei capitali, i quali oggi possono essere trasferiti in pochi
secondi da una parte all’altra del mondo; si tratta della cosiddetta “globalizzazione
finanziaria” che, come si è visto nei numeri precedenti di questa analisi-inchiesta,
comunque non assicura investimenti più efficaci, ma diventa fenomeno che si
coniuga alle nuove forme di internazionalizzazione produttiva centrati sui processi
dell’accumulazione flessibile delle risorse del capitale intangibile, determinando
una vera e propria competizione globale internazionale, ma più accesa fra poli
imperialistici (in questo momento in particolare fra USA e UE).
Da parte dei diversi organismi istituzionali e legati al mondo
imprenditoriale tale nuovo contesto della globalizzazione viene assimilato ad
un concetto di libertà ed abbattimento di ogni tipo di barriera economico-sociale
in quanto, si sostiene, attraverso gli investimenti, le ristrutturazioni, le
alleanze, le acquisizioni e le delocalizzazioni, ci si illude di poter realizzare
un’organizzazione d’impresa in grado di occupare aree geografiche e settori
di mercato profondamente legati tra di loro, migliorando le condizioni di vita
generali della popolazione. Ma come si è visto nelle puntate precedenti dell’inchiesta,
questa è, nella migliore delle ipotesi, pura illusione, spesso supportata da
trucchi contabili; si tratta in effetti di falsità per far digerire meglio i
costi sociali dell’accumulazione capitalistica flessibile post-fordista.
La competizione globale caratterizza questa nuova fase del
capitalismo che potremmo riassumere in competizione senza sviluppo e quando
c’è sviluppo è senza occupazione e si traduce in “impoverimento assoluto”, imponendo
la trasformazione delle classi, delle fasce medie in fasce sempre più marginali
della società. Questo fenomeno è strettamente associabile allo sviluppo delle
nuove tecnologie soprattutto quelle informatiche e telematiche che permettono
aumento di produttività, calo dell’occupazione e processi delocalizzativi in
quanto si è sempre più in un contesto produttivo meno legato al posto fisico
e al territorio.
I classici criteri di internazionalizzazione diventano così
sempre meno efficaci soprattutto a causa dell’ampliamento dell’ambiente imprenditoriale
e della sua dinamicità. Ma cosa significa processo di internazionalizzazione?
La crescente internazionalizzazione dei mercati e l’innovazione
tecnologica hanno cambiato tutti i sistemi locali di impresa; i vantaggi derivanti
dalla localizzazione a distretti, ossia cooperazione, vicinanza dei mercati,
circolazione veloce delle comunicazioni, ecc. non sono stati sufficienti a consentire
un complessivo vantaggio del sistema.
Il processo di internazionalizzazione è ormai affermato
nei mercati come processo di competizione globale per l’impresa sociale generalizzata
post-fordista nell’epoca dell’accumulazione flessibile. Infatti escludendo
il circuito dei consumi locali e tradizionali, per la stragrande maggioranza
dei prodotti ormai non vi è differenza di status o di percezione dei prodotti
nazionali e dei prodotti trasnazionali; di solito i prodotti che provengono
da altri paesi o sono diretti ad altri paesi vengono trattati allo stesso modo
dei prodotti domestici. Le imprese ormai tendono a considerare il mercato interno
come una delle parti di un mercato più ampio, articolato in molte unità nazionali:
un mercato transnazionale in cui sviluppare la competizione globale in chiave
microeconomica come competizione fra imprese e in un’ottica macroeconomica
come competizione fra poli imperialisti.
Le imprese comunque sono un asso portante dell’internazionalizzazione
in quanto da una parte hanno creato la trasnazionalità e dall’altra ne hanno
tratto il massimo beneficio.
Lo sviluppo dell’internazionalizzazione si collega con la crisi
del fordismo; infatti la liberalizzazione nei mercati nazionali ha un effetto
molto dirompente nella struttura di potere e di equilibrio del fordismo. Da
un lato infatti le imprese spinte da una concorrenza internazionale si distaccano
dalla protezione pubblica mentre dall’altro lato diminuisce il potere regolatore
dello Stato che diventa Profit State Globale.
In pratica quindi l’internazionalizzazione diventa “deregulation”
nel quale non vi è una riorganizzazione post-fordista ma una perdita di vecchia
organizzazione per realizzare un’organizzazione funzionale all’accumulazione
flessibile.
La prospettiva post-fordista non deve avere meno organizzazione
ma anzi necessita di un’organizzazione più complessa che deve governare una
rete di interdipendenze molto più ampia di quella dell’impresa fordista; deve
altresì coordinare il cambiamento che si attua anche sulle risorse del capitale
che hanno sempre più valenza intangibile.
Comunque la crescente internazionalizzazione dei mercati e
l’espansione del processo di innovazione tecnologica e dell’espansione dell’accumulazione
informativa e cognitiva hanno cambiato le strategie e le modalità di crescita
tradizionali delle imprese.
Dal punto di vista dell’identificazione delle zone di attività
produttiva vi sono due modalità tra loro complementari: il nuovo settore
post-fordista e la filiera internazionale. Si parla di settore quando
è possibile trovare una certa omogeneità della manifattura oppure se la materia
prima impiegata svolge il ruolo di denominatore comune a più cicli produttivi;
nella filiera invece non vi è omogeneità tecnologica nelle varie fasi del ciclo
e quindi il principio unificante è dato dal prodotto finale trasformato; in
questo modo vi è l’acquisizione all’estero di alcune fasi della lavorazione
attraverso processi di delocalizzazione produttiva.
Sono tre i momenti che caratterizzano la filiera internazionale:
1) una successione di operazioni produttive svolte in paesi
diversi;
2) un raggruppamento di relazioni economiche e finanziarie;
3) un raggruppamento di comportamenti ed azioni economiche.
La filiera internazionale è quindi costituita da una rete di
connessioni sia economiche sia tecnologiche che consentono di attuare delle
strategie di partnership in ambiti nazionali diversi; un esempio di filiera
può essere quello del settore agroalimentare nel quale dalla produzione agricola
di base si passa ai settori che fanno la prima lavorazione e che producono il
prodotto finito per il consumatore.
[1] Questa tesi comunque pur spiegando il fenomeno dell’integrazione
in termini statici non spiega il fenomeno nel caso in cui il termine di confronto
sia il tasso di crescita del mercato stesso ossia nel caso di un mercato dinamico.
Adelman (1955) ha evidenziato per primo la limitatezza della tesi di Stigler.
L’analisi dei vari contributi teorici sul tema dell’integrazione verticale evidenzia
comunque che ciascun contributo sviluppa aspetti e condizioni particolari ma
non spiega il fenomeno a prescindere da riferimenti specifici.