Il secondo Autore il cui lavoro è rilevante per i fini di
questa sezione è Riccardo Bellofiore, il quale propone un altro approccio al
‘problema’ della trasformazione. Qui non si tenterà di dare un resoconto
completo delle complessità e delle connessioni tra le diverse fasi della sua
procedura. Solo alcune delle caratteristiche salienti saranno discusse, prese a
se stanti. Distinguerò cinque fasi.
Prima fase. La trasformazione dei valori in prezzi di
produzione riguarda “la riallocazione interna alla classe capitalista del
tempo di lavoro vivo speso nell’anno” (Bellofiore, 2000, p.50, enfasi
mia, G.C.). Questa riallocazione avviene attraverso la formazione di prezzi
monetari delle merci e quindi presuppone un certo valore della moneta. Ora, per
Bellofiore la moneta esprime il nuovo lavoro erogato nel processo di produzione
e quindi solo una parte del valore totale delle merci (ibid. p.49). Questa
posizione è affine alla cosiddetta ‘Nuova Interpretazione’, un approccio
proposto nei primi anni dei 1980 da D. Foley e altri Autori. Partendo dal
presupposto (sbagliato) che la procedure di Marx è invalida, Foley propone di
definire il valore della moneta come il tasso tra il nuovo lavoro incorporato
nelle merci e la somma dei salari e profitti. [1] In questo modo la moneta ridistribuisce solo il
nuovo valore e non il valore incorporato nei mezzi di produzione. Quest’impostazione
cancella per definizione il ‘problema’ della trasformazione (per lo meno,
nella sua accezione tradizionale) giacché non si considera la ridistribuzione
del valore incorporato nei mezzi di produzione. Tuttavia la teorizzazione della
trasformazione solo in termini di lavoro vivo è un grande passo indietro in
confronto a Marx. Per Marx, la legge del valore ha come scopo, come dice
giustamente Ramos, di indagare “quello che la società produce e il costo
di questa produzione. Più precisamente si tratta di rivelare il costo di
produzione periodico di questa società in termini della spesa della sua
forza lavoro umana. Quanto del suo tempo costa alla società - nell’ambito
delle condizioni naturali che la circondano - ottenere i prodotti che le
permettono di riprodursi? Questa è la questione fondamentale della teoria”
(Ramos, 2001). Se ciò è vero, la procedura della trasformazione deve
ridistribuire non solo il lavoro vivo ma anche il lavoro ‘morto’ incorporato
nei mezzi di produzione. Se ciò è trascurato, è l’abilità stessa di
spiegare la riproduzione della società capitalista che è posta in dubbio.
Seconda fase. Le “merci introdotte come input non sono
ancora merci capitalistiche, mentre le merci come output sono prodotte come
merci già capitalistiche, e ancora valutate ai prezzi corrispondenti ad una
situazione di profitti nulli - vale a dire i ‘valori di scambio’” (1999,
p.61, traduzione mia, G.C.). Qui il mentore è Napoleoni. La nozione di una
economia capitalistica a profitti zero è stata criticata nella sezione 3. La
stessa critica può essere mossa alla nozione che gli input non sono merci
capitalistiche. Da un punto di vista metodologico, iniziare da un’astrazione
in cui gli input di un’economia capitalistica non sono merci capitalistiche
significa iniziare da una contraddizione logica. La caratteristica specifica
di un processo di produzione capitalistico è che gli input sono gli output
di un previo processo di produzione. Esse devono quindi essere, secondo la
stessa definizione di Bellofiore, merci capitalistiche. Questo è un fatto
incontrovertibile che nessuna argomentazione può nascondere. [2]
È erroneo credere che nel Capitale Volume I Marx teorizza un sistema
capitalistico in cui i profitti sono zero, cioè un capitalismo non capitalista.
Al contrario, nel Capitale Volume I Marx teorizza la produzione capitalistica
che è produzione sia di valori d’uso che di (plus)valore. Per ragioni di
esposizione Marx astrae dalla distribuzione del plusvalore attraverso lo scambio
(la formazione dei prezzi) e da cambiamenti nel valore degli input a causa d’innovazioni
tecnologiche. Egli esamina questi aspetti nel Capitale Volume III. E questa è
un’altra questione. L’evidenza testuale non potrebbe essere più chiara: “Nel
libro I e libro II abbiamo trattato solo del valore delle merci. [Nel
terzo Volume, G.C.] da una parte, il prezzo di costo è stato isolato
come una parte di questo valore, e dall’altra, il prezzo di produzione
delle merci è stato sviluppato come la sua forma trasformata” (Marx, 1967b,
p.163, traduzione mia, G.C., enfasi nell’originale).
Questo brano dimostra chiaramente che, per Marx, il Volume I
tratta della produzione del plusvalore, e quindi di un’economia capitalistica,
e che il Volume III tratta della sua distribuzione. E chi non dovrebbe saperlo
meglio di lui, che quei libri li ha scritti? Ma questo brano è anche d’estrema
importanza perché dimostra che per Marx il prezzo di costo “è la stessa
grandezza sia per il valore che per il prezzo di produzione” (Ramos, 1998-9) e
cioè che per quanto riguarda gli input, essi sono valutati al loro prezzo di
produzione come output del periodo precedente e al loro valore come input di
questo periodo. Questo è l’approccio temporale. La ricerca scrupolosa di
Ramos dimostra che nell’edizione MEGA vi è un passaggio, dopo quello appena
citato, che fu omesso da Engels (il brano mancante) e che aggiunge ulteriore
evidenza che per Marx non vi è un ‘sistema duale’, due sistemi paralleli e
non comunicanti, uno in termini di valori e l’altro in termini di prezzi di
produzione. La MEGA aggiunge evidenza ulteriore a vantaggio del temporalismo.
[3] Tuttavia non penso che
si debba credere che, se Engels non avesse omesso quel brano o se i critici
avessero conosciuto il manoscritto di Marx nella sua versione integrale
piuttosto che in quella curata da Engels, a Marx sarebbe stata risparmiata la
critica ridicola della circolarità. Come ho sostenuto in precedenza, nel
dibattito sulla trasformazione la vera posta in gioco è politica ed essa è
veramente alta. In queste condizioni i critici di Marx sentono solo quello che
vogliono sentire.
Quindi, o gli input sono prodotti in un’economia
capitalistica o non lo sono. Per Bellofiore non lo sono, almeno nella fase
iniziale della sua impostazione. Ma se queste merci non sono prodotte nel
capitalismo, l’oggetto dell’indagine è il passaggio storico da un’economia
pre-capitalistica a una capitalistica, piuttosto che le origini del plusvalore
in un’economia capitalistica. Ma, come Marx ci ammonisce giustamente, una cosa
è studiare le origini di un sistema sociale, un’altra è studiare il suo
funzionamento. Tuttavia, la preoccupazione di Bellofiore non è la genesi del
capitalismo. Quindi se dobbiamo indagare la sorgente del plusvalore nel
capitalismo, non possiamo porre che la caratteristica specifica di un processo
di produzione capitalistica è che i suoi input non sono merci capitalistiche.
Questa è una fuga dalla realtà, un’astrazione che confonde, piuttosto che
facilitare, la comprensione della realtà. È una contraddizione logica
piuttosto che una contraddizione dialettica; quest’ultima è un concetto che
riflette una contraddizione veramente esistente e quindi un movimento
contraddittorio ma reale. In altre parole, il metodo delle approssimazioni
successive di Bellofiore non è un’approssimazione graduale da una situazione
più essenziale, ma reale, ad una situazione più complessa, dettagliata, ma
ugualmente reale. Questa procedura ‘pone’ una situazione non-reale e
pretende di derivare da essa una situazione reale. Così facendo, si producono
due situazioni inesorabilmente separate piuttosto che due momenti della stessa
situazione. Ne consegue che due tassi di scambio sono teorizzati, uno in termini
di valore e l’altro in termini di prezzi, e che essi non possono essere messi
in relazione l’uno con l’altro. [4]
Terza fase. A questo punto si pone la questione del dove
sorge il (plus) valore. Bellofiore ritiene che il plusvalore è creato “nell’articolazione
della produzione e della circolazione” (1999, p. 54 traduzione mia, G.C.)
cioè “il lavoro vivo del lavoratore salariato dovrebbe... essere interpretato
come lavoro astratto potenziale: questa potenzialità in effetti ‘prende
vita’ - cioè si traduce in lavoro astratto attuale - nella metamorfosi
finale della merce prodotta in denaro” (ibid., traduzione mia, G.C.). La
questione cruciale in questo brano è il significato di ‘potenziale’.
Potenziale, in congiunzione con l’ipotesi di una situazione di profitti nulli
(tutto il plusvalore va ai lavoratori), non può che voler dire che il valore
(ma non il plusvalore) esiste già prima della vendita, indipendentemente da com’è
ridistribuito. Non vi sono che due alternative. La prima è che il valore si
realizza socialmente, cioè che il valore assume una forma
necessariamente modificata, attraverso lo scambio, sia quantitativamente (la
differenze tra valore contenuto e valore realizzato) che qualitativamente (la
forma denaro). Se questo è il significato di ‘articolazione’ tra produzione
e realizzazione attraverso lo scambio, allora è quello che ho proposto in
questo articolo e in quello precedente di Proteo. Ma penso che questa non sia la
prospettiva di Bellofiore perché essa implica l’esistenza del plusvalore al
livello della produzione. [5]
Si potrebbe sostenere che il valore esiste già al livello
della produzione come una quantità definita e quantificabile prima della
vendita (come nella prima ipotesi). Tuttavia, la sua esistenza, piuttosto che il
suo carattere sociale, sarebbe puramente potenziale e si realizzerebbe solo con
la vendita. Ma questa è una ripetizione della posizione precedente. Infatti,
affinché il valore esista e sia quantificabile prima dello scambio, è
necessario avere una nozione di lavoro incorporato. Questo lavoro incorporato,
quindi, esisterebbe ma esisterebbe solo potenzialmente. Questa contraddizione
apparente è risolta solo se ciò che è potenziale e si realizza attraverso lo
scambio è il carattere sociale del lavoro (si veda la sezione 2).
L’altra alternativa è che ‘potenziale’ significa che
il lavoro astratto esiste prima della vendita ma solo in una quantità
indeterminata e indeterminabile: esso assume una forma definita (monetaria) solo
con e attraverso lo scambio. La conseguenza di questa posizione è che, se la
quantità di lavoro astratto non è determinabile prima dello scambio, non vi è
alcun legame quantitativo tra produzione e scambio. In questo caso il valore non
sarebbe creato attraverso lo scambio ma la sua dimensione quantitativa lo
sarebbe. Per quanto riguarda la realizzazione quantitativa del valore, il
legame è rotto e nessuna soluzione quantitativa può essere data al ‘problema’
della trasformazione. [6] In effetti, questa
è la posizione della ‘forma valore’ (si veda la sezione 6) che in questo
modo evita la trasformazione. In questo caso, la via verso una teoria marxista
dei prezzi-valore è sbarrata. Se i prezzi non possono essere spiegati in
termini di una ridistribuzione di valore già esistente e quantificabile al
livello della produzione, la via è aperta all’accettazione di una delle varie
teorie dei prezzi alternative a quella marxista che possono poi essere
sovrapposte su ciò che è rimasto di Marx (si veda Reuten, 1999, e sezione 3
più sopra). E questo non può che introdurre nuove contraddizioni che,
inevitabilmente, verranno ascritte alla logica internamente contraddittoria di
Marx. Nulla di nuovo sotto il sole. Inoltre, se non si possono spiegare i prezzi
dell’output di questo periodo, non si possono neanche spiegare i prezzi degli
input del periodo susseguente. Quella che è sbarrata è quindi anche una teoria
della produzione. Senza una teoria della produzione e della distribuzione, cosa
rimane della teoria economica?
Quarta fase. Per Bellofiore, “lo sfruttamento dovrebbe
essere inteso non tanto come la espropriazione di plus lavoro o plus prodotto,
che sono fenomeni comuni anche a formazioni sociali pre-capitalistiche, ma
piuttosto come l’imposizione diretta e indiretta del controllo che riguarda tutto
il lavoro” (1999, p. 65, traduzione mia, G.C.). Su questo, Bellofiore e Arthur
sono d’accordo. Come è già stato sottolineato più sopra, questa nozione di
sfruttamento è intimamente collegata a quella secondo cui è il capitale che è
produttivo di valore. Per Bellofiore, come per Arthur, sono i lavoratori che
sono sfruttati ma è il capitale che produce valore. Per Bellofiore, “la
produttività in valore dipende dal successo nel subordinare a sé il
lavoro” (2000, p.52). Ne consegue che “il salario esiste perché il profitto
non assorbe per intero il prodotto netto (e non viceversa)” (2000, p.54).
Questa è la dialettica della negatività di Arthur, un Autore che, come dice
Bellofiore, ha raggiunto indipendentemente conclusioni identiche a quelle di
Bellofiore (2000, p.55). Quanto detto per Arthur (e Napoleoni) vale anche per
Bellofiore.
Quinta e ultima fase. Se tutto il lavoro è
sfruttato, cioè alienato, la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro
improduttivo è cancellata e con essa quella tra produzione e realizzazione
di(plus)valore. Questo porta in sé i semi del simultaneismo. Infatti, “se...
supponiamo che i prezzi degli input e degli output sono gli stessi e
trasformiamo gli input, troviamo ‘prezzi di produzione’ diversi da quelli di
Marx e registriamo un cambiamento nella determinazione quantitativa nel tasso
medio di profitto - cioè otteniamo un tasso di profitto in termini ‘monetari’
che devia dal tasso di profitto in termini di ‘valore’ che troviamo in Marx,
e che non è nient’altro che il tasso di profitto della soluzione simultanea
del ‘problema della trasformazione’” (Bellofiore, pp.61-62, traduzione
mia, G.C.). La procedura della trasformazione di Bellofiore finisce con il
simultaneismo sraffiano. Le obiezioni sono state fatte in precedenza e non
saranno ripetute qui.
Per concludere, la ‘nuova interpretazione’ di Arthur e
Bellofiore riguardante lo sfruttamento è, nonostante le loro differenze,
esattamente l’opposto della teoria di Marx. Tuttavia, il criterio della mia
critica non è stato fondato sul fatto se uno sia stato fedele a Marx o se uno
si sia creato ‘il suo’ Marx. La critica è stata interna, si è
concentrata sull’infondatezza delle accuse rivolte a Marx, sulle
contraddizioni interne che inficiano le ‘correzioni’ o ‘interpretazioni’
dei critici, e sulle conseguenze negative (per i lavoratori) di accettare queste
‘correzioni’ e ‘interpretazioni’.
8. Conclusioni
Quello che emerge da questo saggio è che la teoria di Marx
è un insieme coerente tenuto assieme dalla sua propria logica interna. Se s’introduce
una logica diversa nel sistema, non si possono che ‘trovare’ contraddizioni
logiche. Siccome il temporalismo è una parte integrale di questa logica, tutta
la critica, tutte le contraddizioni, e tutte le soluzioni a queste
contraddizioni basate sul simultaneismo sono aliene alla teoria di Marx (e alla
realtà). Questo saggio ha passato in rassegna tutta una serie di critiche della
procedura della trasformazione di Marx e degli aspetti connessi. Ha dimostrato
che queste critiche sono infondate e ha indicato un metodo per il calcolo del
valore degli input.
A parte la loro specificità, le teorie discusse hanno una
caratteristica comune, quella di ascrivere a Marx una problematica che non è la
sua. Conseguentemente, finiscono per confondere le carte in tavola. Ci possono
essere problemi in Marx come non ci possono essere. Ma se ci sono, non sono gli
pseudo-problemi additati dai critici. Questi pseudo-problemi sono stati
considerati, e continuano ad essere considerati, come veri per chiare ragioni
politiche. Se si dà ragione alla coerenza logica della procedura della
trasformazione di Marx, l’impareggiabile forza del marxismo, come uno
strumento per capire e, si spera, cambiare la realtà capitalistica, può essere
usata in pieno. Se, d’altra parte, si ridefiniscono i concetti fondamentali di
Marx come se fossero i suoi propri concetti, se si scoprono contraddizioni, si
propongono soluzioni e, così facendo, si contrabbanda nella teoria di Marx la
nozione che il capitalismo tende verso l’equilibrio, la forza di questo
strumento sarà circoscritta entro i confini del capitalismo.
Questo, in breve, è il contenuto di classe, l’essenza
e l’importanza, del dibattito sulla trasformazione, indipendentemente dalle
intenzioni soggettive (talvoltaencomiabili) dei critici.
[1] Foley, 1982, p.41. Si veda anche
Lipietz, 1982, p.76.
[2] È vero che vi
sono anche input che sono prodotti al di fuori della economia capitalistica, per
esempio da produttori indipendenti. Ma questa è un’altra questione che non
riguarda l’essenza, la specificità (ricercata da Napoleoni) del processo
produttivo capitalistico. I beni prodotti al di fuori del sistema capitalistico
contano come se fossero stati prodotti nelle relazioni di produzione
capitalistiche (ad es. il loro lavoro conta come valore) una volta che essi
entrano nella sfera della circolazione (per dettagli, si veda Carchedi, 1991).
[3] È mia opinione che una lettura della MEGA (1992) e un confronto con il
Capitale III (1967b) rivela che quest’ultima opera contiene tutta l’evidenza
necessaria per una lettura temporale di quest’ultima opera. La MEGA aggiunge
evidenza ulteriore ma non apre nuovi orizzonti teorici.
[4] Bellofiore conclude che “una legge duale
dello scambio non significa una critica della teoria del valore lavoro marxiana,
al contrario, questo dualismo emerge come una deduzione essenziale di
quella teoria” (1999, p.65 traduzione mia, G.C.). Ciò è fuorviante. La
cosiddetta legge duale dello scambio è una critica radicale di Marx ed è
coerente solo con la lettura che Bellofiore fa di Marx che, come Bellofiore
stesso sottolinea, dista “miglia” dall’interpretazione tradizionale.
[5] Questo è per lo meno quanto si può dedurre. Tutto
quello che Bellofiore ha da dire di “Carchedi, Freeman e Kliman” è che per
loro “entro ogni circuito capitalistico vi è una differenza tra i prezzi
degli input e quelli degli output” (1999, p.61).
[6] Dire che il lavoro astratto “diventa reale nel
processo di produzione capitalistico come un processo finalizzato verso lo
scambio” (Bellofiore, 2000, p.51) non è di grande aiuto.