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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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Professore Università di Amsterdam

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L’arte del fare confusione

Guglielmo Carchedi

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Mentre le prime due componenti sono lavoro nuovo, la terza è lavoro passato. È il valore dei mezzi di produzione che sono stati consumati nella produzione dell’output di questo periodo. Come vedremo, questo valore è dato dalla valutazione sociale del valore dei mezzi di produzione al momento in cui essi entrano nel processo di produzione; cioè dalla valutazione sociale delle ore di lavoro che sono state necessarie nel periodo precedente per produrre quei mezzi di produzione e che sono diventati gli input dell’attuale processo di produzione. Per anticipare, il dibattito sul ‘problema’ della trasformazione riguarda principalmente (ma non esclusivamente) questa terza componente. Più specificamente, gira attorno alla possibilità o desiderabilità di calcolare questo valore e come calcolarlo. Una gran parte del resto di quest’articolo riguarderà tali questioni. Qui è sufficiente menzionare che questo valore non sparisce ma è trasferito, attraverso il lavoro umano, nel prodotto (output) di questo periodo. Per provare tale punto, supponiamo che il valore dei mezzi di produzione svanisca. In questo caso, dopo che la merce è stata venduta, non rimarrebbe alcun valore per i capitalisti per comprare di nuovo i loro mezzi di produzione dopo che essi hanno pagato i salari dei lavoratori e si sono appropriati dei profitti.

Se il lavoro è impiegato nelle relazioni di produzione capitalistiche, le merci devono essere vendute per denaro e comprate con denaro. In breve, il valore deve manifestarsi come denaro. Ne consegue che un dato numero di ore di lavoro è rappresentato da una data quantità di denaro. Questo è valido per qualsiasi rapporto tra la quantità totale di moneta e la quantità totale delle ore di lavoro. Per esempio, se ceteris paribus la quantità di moneta aumenta mentre le ore di lavoro rimangono costanti, un’unità di valore sarà rappresentata da una maggiore quantità di moneta, cioè vi sarà un processo inflazionistico. [1]

Se la moneta è l’espressione monetaria del valore (lavoro) delle merci, il valore è il potere d’acquisto della moneta. Valore e moneta sono due facce della stessa medaglia: la moneta è la forma in cui si manifesta il valore, essa è connessa al valore, e il valore è il potere d’acquisto della moneta. L’interpretazione comune di Marx considera valore e prezzi come due “due regole parallele, non collegate, ideali della formazione dei prezzi” piuttosto che considerare i prezzi in moneta come la forma in cui il valore si manifesta. L’eccellente confutazione di questa teoria dualistica da parte di Ramos (2001) è completamente in unisono con l’opinione di Marx. Se si accetta il punto di vista dualistico comune (ma ciononostante sbagliato), s’introducono molte incoerenze che sono aliene alla teoria di Marx e appartengono solo al punto di vista dei suoi critici.

Ne consegue che, se si considera la totalità delle merci, il lavoro che è stato impiegato per la loro produzione è uguale al lavoro che è appropriato da coloro che possiedono il denaro quando comprano quelle merci (facendo astrazione, naturalmente, da difficoltà di realizzazione). Si suppone che lo scambio non alteri il valore (lavoro) contenuto nelle merci. Ciò può essere dimostrato facilmente. Consideriamo due soggetti economici: il primo vende una merce al secondo e il secondo la rivende al primo e queste operazioni vengono ripetute molte volte. Quanto più ricco diventa il primo, tanto più povero diventa il secondo, e viceversa. Non un atomo di valore è stato aggiunto alla ricchezza complessiva da queste transazioni. Lo scambio ridistribuisce il valore, non lo crea. Quindi, vi è una diretta relazione tra il valore prodotto e circolante e la quantità di moneta in circolazione. Una variazione nella quantità di moneta in circolazione cambia solo la manifestazione quantitativa monetaria del valore ma non cambia quel valore.

Se le merci hanno un valore contenuto e se il valore può realizzarsi solo come denaro, nel momento in cui tali merci entrano in circolazione esse assumono un prezzo (ugualmente, anche i loro input sono merci e quindi hanno un prezzo monetario quando sono comprati al fine di essere usati per la produzione di quelle merci). Tuttavia, come si spiega in Carchedi, 2001, a causa della perequazione tendenziale del tasso di profitto e degli effetti della domanda e dell’offerta, il valore contenuto in una merce differisce sistematicamente dal valore che essa realizza. [2] Ma se lo scambio non crea valore, il valore in più realizzato da una merce deve essere perso da un’altra merce.

Chiamiamo capitale costante (c) il denaro speso dai capitalisti per comprare i mezzi di produzione, capitale variabile (v) il denaro speso dai capitalisti per comprare la forza lavoro (salari) che è anche il denaro speso dai lavoratori per comprare i beni salario, e profitti (s) il denaro speso dai capitalisti per comprare i "beni di lusso". Quindi il capitale costante è l’espressione monetaria del lavoro passato, che è anche il valore realizzato attraverso la vendita dei mezzi di produzione, il capitale variabile è l’espressione monetaria del valore della forza lavoro, che è anche il valore realizzato attraverso la vendita dei beni salario, e i profitti sono l’espressione monetaria del plus lavoro, che è anche il valore realizzato attraverso la vendita dei "beni di lusso". Così V è il valore contenuto sia nella totalità delle merci che in ciascuna merce, V=c+v+s. Tuttavia, come appena detto, per ciascuna merce il valore contenuto in essa non è uguale al valore realizzato attraverso la sua vendita. Il guadagno di uno è la perdita di un’altro. [3]

A livello aggregato, un aumento del valore prodotto significa un aumento del valore realizzato. Però questo non è più il caso per i singoli capitalisti. Supponiamo che in ciascun settore operi più di un’azienda. Chiamiamo composizione organica del capitale (COC) la percentuale del capitale costante (c) relativamente al capitale variabile (v) e quindi il rapporto c/v. All’interno dei settori, l’introduzione di una tecnica nuova e più efficiente in genere aumenta il capitale costante (investimenti nei mezzi di produzione) e diminuisce quello nel capitale variabile (investimenti in salari). Dato che la produttività è aumentata introducendo tecniche a bassa intensità di lavoro, la composizione organica del capitale è anche un indice della produttività nei (ma non tra) settori. Quindi, la stessa percentuale di capitale costante e variabile, cioè la stessa COC, implica l’uso della stessa tecnica e la stessa produttività mentre una maggiore (minore) COC implica una tecnica a maggiore (minore) intensità di capitale e quindi una maggiore (minore) produttività. Tuttavia, la COC è un indice della produttività ma non la sua misura. Tale misura è data dal rapporto tra output e la somma del capitale costante e variabile investito, cioè output/(c+v).

Riproduciamo ora un esempio numerico dal mio precedente saggio in questo libro. Abbiamo visto che, indipendentemente da come si misurano le unità di lavoro astratto, esse possono sempre essere espresse in termini di moneta e che questo vale indipendentemente dal tasso moneta/valore. Quindi, nella tabella che segue, i numeri possono essere letti sia come unità di valore (ore di lavoro) che come unità di moneta.


Tabella 1

Settore 1: valore prodotto = 80+20+20 = 120; valore realizzato = 130

Settore 2: valore prodotto = 60+40+40 = 140; valore realizzato = 130

Qui, il settore 1 produce un valore di 120 ma si appropria di 130, data una certa struttura della domanda, mentre il settore 2 produce un valore di 140 ma si appropria solo di 130. Le aziende nel settore 1 si appropriano di un plusvalore extra pari a 10 mentre quelle nel settore 2 perdono un plusvalore pari a 10. Questa è la trasformazione dei valori in prezzi: una ridistribuzione del plusvalore totale supponendo che, data una certa struttura della produzione indicata dalla struttura della COC, la domanda è tale che i settori che realizzerebbero un tasso di profitto minore della media (a causa della loro maggiore composizione organica del capitale) vendono ad un prezzo tale per cui realizzano il tasso medio di profitto mentre i settori che realizzerebbero tassi di profitto maggiori della media (a causa della bassa composizione organica del capitale) realizzano un tasso più basso, cioè il tasso medio. In realtà, la struttura della domanda sarà tale per cui il valore realizzato per unità di capitale investito sarà maggiore in un settore e minore nell’altro. Ma in questo caso il capitale si trasferirà dal secondo al primo settore e vi sarà una tendenziale perequazione dei tassi di profitto tra settori. Questo è il motivo per cui i prezzi che risultano in un livellamento dei tassi di profitto possono essere considerati come un conveniente punto di partenza dell’analisi. Questa è la procedura che Marx segue per la trasformazione del valore contenuto in valore realizzato, cioè prezzi. Non è una trasformazione di qualcosa in qualcos’altro qualitativamente differente ma una ridistribuzione di valore al momento dello scambio e attraverso lo scambio.  [4] In altre parole, è la differenza tra il lavoro incorporato, o il tempo di lavoro che è stato necessario per produrre una merce con quella data proporzione di c e v, e il tempo di lavoro socialmente necessario, quello che sarebbe stato necessario se tutte le merci fossero state prodotte con un’uguale proporzione di c e v (il che significa che, all’interno di ciascun settore, esse sarebbero state prodotte con la stessa, media, tecnica). Quindi il tempo di lavoro socialmente necessario è il valore realizzato tendenzialmente. [5]

Si noti che, mentre Marx scelse di illustrare il processo della trasformazione supponendo che le merci si scambiano al loro prezzo di produzione, la stessa procedura è valida anche per i prezzi di mercato (i prezzi reali che fluttuano attorno ai prezzi di produzione a causa degli effetti della domanda e dell’offerta). Si noti altresì che la tendenza verso la perequazione dei tassi di profitto non implica un confronto tra la produttività nel settore 1 e quella nel settore 2. Le produttività possono essere confrontate solo all’interno dei settori, non tra i settori. Non ha senso sostenere che il settore delle scarpe è più produttivo del settore dell’aeronautica perché, con una unità di capitale, il primo produce 100.000 scarpe e il secondo solo un aeroplano. Per di più, se la COC riflettesse differenziali di produttività tra settori, nel caso in cui una distribuzione iniziale della domanda fosse tale che il settore 1 (la cui COC è 80/20=4) realizzasse un tasso di profitto del 20% e il settore 2 (la cui COC è 60/40=1.5) un tasso di profitto del 40%, vi sarebbe un movimento di capitale dal settore più produttivo (COC=4) a quello meno produttivo (COC=1.5), un’assurdità capitalistica. I capitali si muovono attraverso i settori a seconda dei differenziali di profittabilità, non a seconda dei differenziali di produttività (dato che i differenziali di produttività non hanno senso tra settori). Quindi non vi è alcuna ragione di supporre movimenti di capitali da settori a bassa COC a settori ad alta COC ma, indipendentemente dalla direzione in cui si muovono i capitali, tendenzialmente i tassi di profitto sono perequati tra settori. [6] È all’interno dei settori che le COC indicano produttività, cioè che il capitale tende a disinvestire in capitali a bassa COC (bassa produttività) e ad investire in quelli ad alta COC (alta produttività). L’aumento tendenziale della COC di un’economia è dovuto non a movimenti di capitale tra settori ma a competizione tecnologica all’interno dei settori.

Avendo riassunto l’essenza della trasformazione dei valori in prezzi, rivisitiamo le critiche esaminate nel mio saggio precedente (sezioni 4 e 5) e consideriamone altre (sezioni 3 e 6).

 

3. I lavoratori sono gli unici che creano (plus)valore?

La tesi che solo i lavoratori (il lavoro) creano (plus)valore è stata contestata dagli ideologi del capitale fin da quando Marx ha preso la penna in mano. L’attacco più recente a questa tesi è venuto dal quartiere degli sraffiani. Screpanti (2001), seguendo la tradizione sraffiana, sostiene che questa tesi è un assioma metafisico, cioè che non è provato e che non si può provare. [7] La sua posizione è che “Il problema di quale sia la sostanza del valore, o di chi lo “crei”, non si pone nemmeno” (2001). Questo è un problema metafisico. Piuttosto, come dice Screpanti, il concetto marxista di sfruttamento, una volta potato della sua metafisica, si riduce alla proposizione che “il salario è minore della produttività media del lavoro”. Qui si dimostrerà che quello che Screpanti chiama un assioma metafisico può essere facilmente dimostrato.  [8] La prova verrà data in due fasi. Primo, si dimostrerà che solo il lavoro può essere (la sostanza del) valore e poi che solo il lavoro dei lavoratori (piuttosto che quello dei capitalisti) può essere la sostanza sia del valore che del plusvalore.

La prova che solo il lavoro può essere (la sostanza del) valore procede per esclusione. Ci sono solo tre candidati. Il primo è una categoria, qualunque proprietà fisica delle merci o uno dei loro elementi. Per esempio, il ferro nella misura in cui è un elemento (direttamente o indirettamente) di tutte le altre merci. In questo caso, una merce più contiene ferro (direttamente o indirettamente) più contiene valore. Questo non solo è impraticabile, dato che si dovrebbe retrocedere da merce a merce (ve ne sono milioni in un paese, per non menzionare le merci prodotte all’estero) al fine di determinare la quantità di ferro contenuta in una merce. È anche sbagliato per diversi motivi. Il motivo più fondamentale è che le diverse quantità di ferro contenute nelle diverse merci sono ciò che rende le merci differenti e quindi non confrontabili e quindi qualitativamente disuguali e quindi non scambiabili. Un’automobile contiene più ferro di una scarpa. Ma ciò fa di un’automobile un’automobile e di una scarpa una scarpa, piuttosto che rendere un’automobile e una scarpa omogenee e scambiabili in diverse quantità (cosicché un’automobile ha più valore di una scarpa). Queste diverse quantità di ferro possono rendere le merci scambiabili solo se il ferro stesso contiene qualche cosa che non è ferro, cioè che nega il suo essere ferro come valore d’uso e che quindi, piuttosto che essere il fattore che differenzia le merci, è il loro fattore omogeneizzante. Solo in questo caso le diverse quantità di ferro possono determinare i tassi di scambio. Il lavoro astratto è una sostanza omogenea comune a tutte le merci, qualcosa che rende merci diverse omogenee e quindi scambiabili (in diverse proporzioni).


[1] Questo non deve essere confuso con la teoria quantitative della moneta. Si veda più avanti.

[2] Se questa analisi potesse essere portata più avanti, dovremmo prendere in considerazione la competizione tecnologica entro i settori. Si può dimostrare che per ciascun settore sono i produttori con una produttività media che realizzano tendenzialmente il tasso medio di profitto. Si veda Carchedi, 1991 e 2001.

[3] Per coloro che sono più al corrente di tali questioni, la tesi che una data quantità di ore di lavoro è rappresentata da una data quantità di moneta non deve essere confusa con la teoria quantitativa della moneta. Nella sua versione classica e più semplice questa teoria sostiene che, data una certa velocità della circolazione della moneta e un certo livello dell’output, i prezzi monetari sono cartellini attaccati a valori d’uso che sono determinati dalla quantità della moneta in circolazione. La moneta è la variabile indipendente e i prezzi monetari la variabile dipendente. Se la prima aumenta (diminuisce) i secondi aumentano (diminuiscono). Per la teoria del valore della moneta qui sottoposta, i prezzi sono l’espressione del valore. È vero che, empiricamente, un aumento (diminuzione) della quantità della moneta può aumentare (diminuire), ceteris paribus, i prezzi monetari delle merci. Ma questo non spiega la quantità della moneta come una variabile endogena. Nella teoria quantitativa della moneta, questa quantità è un valore esogeno non correlato al valore ed è determinata dalle autorità monetarie. Nella teoria del valore della moneta, la quantità della moneta (M) in circolazione aumenta (diminuisce) con l’aumentare (diminuzione) del valore prodotto e circolante (V). Vediamo perché.

Se V aumenta, la causa deve essere che v e/o c e/o s sono aumentati. Ceteris paribus i capitalisti hanno bisogno di più denaro per finanziare questi maggiori investimenti (c+v) e/o per realizzare il maggior s. Se V diminuisce, vi possono essere due cause. O tale diminuzione è causata da una contrazione del volume degli investimenti (c+v) e/o di s, e in questo caso M diminuisce (cioè la moneta è accumulata). Oppure, dato un certo tasso di plusvalore, sono state introdotte innovazioni tecnologiche cosicché più c e meno v sono stati investiti e così meno s è stato prodotto. Il denaro necessario per i mezzi di produzione aumenta ma quello necessario per l’acquisto della forza lavoro (e quindi dei mezzi di consumo) e per l’acquisto dei mezzi di lusso diminuisce. L’effetto sulla quantità della moneta dipende da se uno dei due termini, c o (v+s) aumenta (diminuisce) più dell’altro.

Si obbietterà immediatamente che una diminuzione prolungata del valore prodotto può essere, e in genere è, controbilanciata dalle autorità monetarie aumentando la quantità della carta, non-convertibile, moneta. Questa è una delle principali misure anti-cicliche. In questo caso, una diminuita produzione e circolazione di valore (disoccupazioni, fallimenti, minore uso della capacità produttiva) è controbilanciata da una maggiore quantità della moneta in circolazione (inflazione). Questo sembrerebbe inficiare la relazione diretta tra le quantità di moneta e valore sottoposta qui sopra. Ma questa maggiore quantità di moneta implica un cambiamento nella espressione monetaria del valore, cioè un cambiamento nei termini di confronto. D’altra parte, la relazione quantitativa diretta tra quantità di moneta e di valore presuppone una unità di misura invariata, una data espressione monetaria di valore, nel tempo. Un indice di deflazione applicato alla nuova (maggiore) espressione monetaria del valore rivelerebbe una diminuzione della quantità monetaria in seguito alla diminuzione della quantità del valore. Quindi, la tesi che un aumento di M può causare un aumento (ma non aumenta necessariamente) dei prezzi monetari non implica di accettare la teoria quantitative della moneta.

[4] Per coloro che sono più al corrente del dibattito sulla trasformazione, la tabella 1 qui sopra non soddisfa i requisiti della riproduzione semplice o allargata. Questo è stato considerato come un difetto della procedura della trasformazione di Marx. Tuttavia, la trasformazione dei valori in prezzi (di produzione) e la riproduzione si basano su precondizioni diverse. La prima considera la ridistribuzione del plusvalore che costituisce i prezzi di produzione. Non considera le precondizioni per una ridistribuzione del capitale costante e variabile tale che la produzione può incominciare di nuovo nel periodo successivo sulla stessa scala o su una scala allargata. Queste sono le precondizioni per una riproduzione semplice o allargata. I critici considerano un esempio numerico non inteso per indagare la riproduzione e fanno l’errore di usarlo per tale indagine. Naturalmente, i due processi possono essere considerati assieme ma ciò presuppone che essi siano previamente considerati distintamente.

[5] Per Cohen (1981), questi sono due concetti del valore che si escludono a vicenda (ma non si dice il perché), cosicché la teoria del valore lavoro è logicamente incoerente. E Cohen è considerato essere un raffinato commentatore di Marx!

[6] Per esempio, se la distribuzione iniziale della domanda fosse tale per cui il settore 1 non realizzasse nessun profitto, il settore 2 realizzerebbe 60 e i capitali emigrerebbero dal settore 1 al settore 2 fino a quando tendenzialmente entrambi i settori realizzerebbero 30. Lo stesso vale se i ruoli sono invertiti, cioè se inizialmente il settore 1 realizzasse tutto il plusvalore e il settore 2 nessun plusvalore.

[7] In maniera simile, Cavallaro (2000) sostiene che “ciò che occorre dimostrare è che proprio tale acquisto [l’acquisto della forza lavoro, G.C.] sia l’unico capace di generare “valore”” (p.36).

[8] Mazzetti è d’accordo con Sraffa che “è solo a causa di una concezione puramente mistica che si può attribuire al lavoro il particolare dono di determinare il valore”, ma aggiunge che è un misticismo ancora più grande attribuire quel dono alle merci.