Mentre le prime due componenti sono lavoro nuovo, la terza è
lavoro passato. È il valore dei mezzi di produzione che sono stati consumati
nella produzione dell’output di questo periodo. Come vedremo, questo valore è
dato dalla valutazione sociale del valore dei mezzi di produzione al momento in
cui essi entrano nel processo di produzione; cioè dalla valutazione sociale
delle ore di lavoro che sono state necessarie nel periodo precedente per
produrre quei mezzi di produzione e che sono diventati gli input dell’attuale
processo di produzione. Per anticipare, il dibattito sul ‘problema’ della
trasformazione riguarda principalmente (ma non esclusivamente) questa terza
componente. Più specificamente, gira attorno alla possibilità o
desiderabilità di calcolare questo valore e come calcolarlo. Una gran parte del
resto di quest’articolo riguarderà tali questioni. Qui è sufficiente
menzionare che questo valore non sparisce ma è trasferito, attraverso il lavoro
umano, nel prodotto (output) di questo periodo. Per provare tale punto,
supponiamo che il valore dei mezzi di produzione svanisca. In questo caso, dopo
che la merce è stata venduta, non rimarrebbe alcun valore per i capitalisti per
comprare di nuovo i loro mezzi di produzione dopo che essi hanno pagato i salari
dei lavoratori e si sono appropriati dei profitti.
Se il lavoro è impiegato nelle relazioni di produzione
capitalistiche, le merci devono essere vendute per denaro e comprate con denaro.
In breve, il valore deve manifestarsi come denaro. Ne consegue che un
dato numero di ore di lavoro è rappresentato da una data quantità di denaro.
Questo è valido per qualsiasi rapporto tra la quantità totale di moneta e la
quantità totale delle ore di lavoro. Per esempio, se ceteris paribus
la quantità di moneta aumenta mentre le ore di lavoro rimangono costanti, un’unità
di valore sarà rappresentata da una maggiore quantità di moneta, cioè vi
sarà un processo inflazionistico. [1]
Se la moneta è l’espressione monetaria del valore (lavoro)
delle merci, il valore è il potere d’acquisto della moneta. Valore e moneta
sono due facce della stessa medaglia: la moneta è la forma in cui si manifesta
il valore, essa è connessa al valore, e il valore è il potere d’acquisto
della moneta. L’interpretazione comune di Marx considera valore e prezzi come
due “due regole parallele, non collegate, ideali della formazione dei prezzi”
piuttosto che considerare i prezzi in moneta come la forma in cui il valore si
manifesta. L’eccellente confutazione di questa teoria dualistica da parte di
Ramos (2001) è completamente in unisono con l’opinione di Marx. Se si accetta
il punto di vista dualistico comune (ma ciononostante sbagliato), s’introducono
molte incoerenze che sono aliene alla teoria di Marx e appartengono solo al
punto di vista dei suoi critici.
Ne consegue che, se si considera la totalità delle merci, il
lavoro che è stato impiegato per la loro produzione è uguale al lavoro che è
appropriato da coloro che possiedono il denaro quando comprano quelle merci
(facendo astrazione, naturalmente, da difficoltà di realizzazione). Si suppone
che lo scambio non alteri il valore (lavoro) contenuto nelle merci. Ciò può
essere dimostrato facilmente. Consideriamo due soggetti economici: il primo
vende una merce al secondo e il secondo la rivende al primo e queste operazioni
vengono ripetute molte volte. Quanto più ricco diventa il primo, tanto più
povero diventa il secondo, e viceversa. Non un atomo di valore è stato aggiunto
alla ricchezza complessiva da queste transazioni. Lo scambio ridistribuisce il
valore, non lo crea. Quindi, vi è una diretta relazione tra il valore prodotto
e circolante e la quantità di moneta in circolazione. Una variazione nella
quantità di moneta in circolazione cambia solo la manifestazione quantitativa
monetaria del valore ma non cambia quel valore.
Se le merci hanno un valore contenuto e se il valore può
realizzarsi solo come denaro, nel momento in cui tali merci entrano in
circolazione esse assumono un prezzo (ugualmente, anche i loro input sono merci
e quindi hanno un prezzo monetario quando sono comprati al fine di essere usati
per la produzione di quelle merci). Tuttavia, come si spiega in Carchedi, 2001,
a causa della perequazione tendenziale del tasso di profitto e degli effetti
della domanda e dell’offerta, il valore contenuto in una merce differisce
sistematicamente dal valore che essa realizza. [2] Ma se lo scambio non crea
valore, il valore in più realizzato da una merce deve essere perso da un’altra
merce.
Chiamiamo capitale costante (c) il denaro speso
dai capitalisti per comprare i mezzi di produzione, capitale variabile (v)
il denaro speso dai capitalisti per comprare la forza lavoro (salari) che è
anche il denaro speso dai lavoratori per comprare i beni salario, e profitti
(s) il denaro speso dai capitalisti per comprare i "beni di
lusso". Quindi il capitale costante è l’espressione monetaria del lavoro
passato, che è anche il valore realizzato attraverso la vendita dei mezzi di
produzione, il capitale variabile è l’espressione monetaria del valore della
forza lavoro, che è anche il valore realizzato attraverso la vendita dei beni
salario, e i profitti sono l’espressione monetaria del plus lavoro, che è
anche il valore realizzato attraverso la vendita dei "beni di lusso".
Così V è il valore contenuto sia nella totalità delle merci che in ciascuna
merce, V=c+v+s. Tuttavia, come appena detto, per ciascuna merce il valore
contenuto in essa non è uguale al valore realizzato attraverso la sua vendita.
Il guadagno di uno è la perdita di un’altro. [3]
A livello aggregato, un aumento del valore prodotto significa
un aumento del valore realizzato. Però questo non è più il caso per i singoli
capitalisti. Supponiamo che in ciascun settore operi più di un’azienda.
Chiamiamo composizione organica del capitale (COC) la percentuale del
capitale costante (c) relativamente al capitale variabile (v) e
quindi il rapporto c/v. All’interno dei settori, l’introduzione di una
tecnica nuova e più efficiente in genere aumenta il capitale costante
(investimenti nei mezzi di produzione) e diminuisce quello nel capitale
variabile (investimenti in salari). Dato che la produttività è aumentata
introducendo tecniche a bassa intensità di lavoro, la composizione organica del
capitale è anche un indice della produttività nei (ma non tra) settori.
Quindi, la stessa percentuale di capitale costante e variabile, cioè la stessa
COC, implica l’uso della stessa tecnica e la stessa produttività mentre una
maggiore (minore) COC implica una tecnica a maggiore (minore) intensità di
capitale e quindi una maggiore (minore) produttività. Tuttavia, la COC è un
indice della produttività ma non la sua misura. Tale misura è data dal
rapporto tra output e la somma del capitale costante e variabile investito,
cioè output/(c+v).
Riproduciamo ora un esempio numerico dal mio precedente
saggio in questo libro. Abbiamo visto che, indipendentemente da come si misurano
le unità di lavoro astratto, esse possono sempre essere espresse in termini di
moneta e che questo vale indipendentemente dal tasso moneta/valore. Quindi,
nella tabella che segue, i numeri possono essere letti sia come unità di valore
(ore di lavoro) che come unità di moneta.
Tabella 1
Settore 1: valore prodotto = 80+20+20 = 120; valore
realizzato = 130
Settore 2: valore prodotto = 60+40+40 = 140; valore
realizzato = 130
|
Qui, il settore 1 produce un valore di 120 ma si appropria di
130, data una certa struttura della domanda, mentre il settore 2 produce un
valore di 140 ma si appropria solo di 130. Le aziende nel settore 1 si
appropriano di un plusvalore extra pari a 10 mentre quelle nel settore 2 perdono
un plusvalore pari a 10. Questa è la trasformazione dei valori in prezzi: una
ridistribuzione del plusvalore totale supponendo che, data una certa struttura
della produzione indicata dalla struttura della COC, la domanda è tale che i
settori che realizzerebbero un tasso di profitto minore della media (a causa
della loro maggiore composizione organica del capitale) vendono ad un prezzo
tale per cui realizzano il tasso medio di profitto mentre i settori che
realizzerebbero tassi di profitto maggiori della media (a causa della bassa
composizione organica del capitale) realizzano un tasso più basso, cioè il
tasso medio. In realtà, la struttura della domanda sarà tale per cui il valore
realizzato per unità di capitale investito sarà maggiore in un settore e
minore nell’altro. Ma in questo caso il capitale si trasferirà dal secondo al
primo settore e vi sarà una tendenziale perequazione dei tassi di profitto tra
settori. Questo è il motivo per cui i prezzi che risultano in un livellamento
dei tassi di profitto possono essere considerati come un conveniente punto di
partenza dell’analisi. Questa è la procedura che Marx segue per la
trasformazione del valore contenuto in valore realizzato, cioè prezzi. Non è
una trasformazione di qualcosa in qualcos’altro qualitativamente differente ma
una ridistribuzione di valore al momento dello scambio e attraverso lo scambio.
[4] In altre parole, è la differenza tra il lavoro incorporato, o
il tempo di lavoro che è stato necessario per produrre una merce con quella
data proporzione di c e v, e il tempo di lavoro socialmente
necessario, quello che sarebbe stato necessario se tutte le merci fossero state
prodotte con un’uguale proporzione di c e v (il che significa
che, all’interno di ciascun settore, esse sarebbero state prodotte con la
stessa, media, tecnica). Quindi il tempo di lavoro socialmente necessario è il
valore realizzato tendenzialmente. [5]
Si noti che, mentre Marx scelse di illustrare il processo
della trasformazione supponendo che le merci si scambiano al loro prezzo di
produzione, la stessa procedura è valida anche per i prezzi di mercato (i
prezzi reali che fluttuano attorno ai prezzi di produzione a causa degli effetti
della domanda e dell’offerta). Si noti altresì che la tendenza verso la
perequazione dei tassi di profitto non implica un confronto tra la produttività
nel settore 1 e quella nel settore 2. Le produttività possono essere
confrontate solo all’interno dei settori, non tra i settori. Non ha senso
sostenere che il settore delle scarpe è più produttivo del settore dell’aeronautica
perché, con una unità di capitale, il primo produce 100.000 scarpe e il
secondo solo un aeroplano. Per di più, se la COC riflettesse differenziali di
produttività tra settori, nel caso in cui una distribuzione iniziale della
domanda fosse tale che il settore 1 (la cui COC è 80/20=4) realizzasse un tasso
di profitto del 20% e il settore 2 (la cui COC è 60/40=1.5) un tasso di
profitto del 40%, vi sarebbe un movimento di capitale dal settore più
produttivo (COC=4) a quello meno produttivo (COC=1.5), un’assurdità
capitalistica. I capitali si muovono attraverso i settori a seconda dei
differenziali di profittabilità, non a seconda dei differenziali di
produttività (dato che i differenziali di produttività non hanno senso tra
settori). Quindi non vi è alcuna ragione di supporre movimenti di capitali da
settori a bassa COC a settori ad alta COC ma, indipendentemente dalla direzione
in cui si muovono i capitali, tendenzialmente i tassi di profitto sono perequati
tra settori. [6] È all’interno dei settori che
le COC indicano produttività, cioè che il capitale tende a disinvestire in
capitali a bassa COC (bassa produttività) e ad investire in quelli ad alta COC
(alta produttività). L’aumento tendenziale della COC di un’economia è
dovuto non a movimenti di capitale tra settori ma a competizione tecnologica all’interno
dei settori.
Avendo riassunto l’essenza della trasformazione dei valori
in prezzi, rivisitiamo le critiche esaminate nel mio saggio precedente (sezioni
4 e 5) e consideriamone altre (sezioni 3 e 6).
3. I lavoratori sono gli unici che creano (plus)valore?
La tesi che solo i lavoratori (il lavoro) creano (plus)valore
è stata contestata dagli ideologi del capitale fin da quando Marx ha preso la
penna in mano. L’attacco più recente a questa tesi è venuto dal quartiere
degli sraffiani. Screpanti (2001), seguendo la tradizione sraffiana, sostiene
che questa tesi è un assioma metafisico, cioè che non è provato e che non si
può provare. [7] La sua
posizione è che “Il problema di quale sia la sostanza del valore, o di chi lo
“crei”, non si pone nemmeno” (2001). Questo è un problema metafisico.
Piuttosto, come dice Screpanti, il concetto marxista di sfruttamento, una volta
potato della sua metafisica, si riduce alla proposizione che “il salario è
minore della produttività media del lavoro”. Qui si dimostrerà che quello
che Screpanti chiama un assioma metafisico può essere facilmente dimostrato.
[8] La prova verrà data in due fasi. Primo, si
dimostrerà che solo il lavoro può essere (la sostanza del) valore e poi che
solo il lavoro dei lavoratori (piuttosto che quello dei capitalisti) può essere
la sostanza sia del valore che del plusvalore.
La prova che solo il lavoro può essere (la sostanza del)
valore procede per esclusione. Ci sono solo tre candidati. Il primo è una
categoria, qualunque proprietà fisica delle merci o uno dei loro elementi. Per
esempio, il ferro nella misura in cui è un elemento (direttamente o
indirettamente) di tutte le altre merci. In questo caso, una merce più contiene
ferro (direttamente o indirettamente) più contiene valore. Questo non solo è
impraticabile, dato che si dovrebbe retrocedere da merce a merce (ve ne sono
milioni in un paese, per non menzionare le merci prodotte all’estero) al fine
di determinare la quantità di ferro contenuta in una merce. È anche sbagliato
per diversi motivi. Il motivo più fondamentale è che le diverse quantità di
ferro contenute nelle diverse merci sono ciò che rende le merci differenti
e quindi non confrontabili e quindi qualitativamente disuguali e quindi non
scambiabili. Un’automobile contiene più ferro di una scarpa. Ma ciò fa di un’automobile
un’automobile e di una scarpa una scarpa, piuttosto che rendere un’automobile
e una scarpa omogenee e scambiabili in diverse quantità (cosicché un’automobile
ha più valore di una scarpa). Queste diverse quantità di ferro possono rendere
le merci scambiabili solo se il ferro stesso contiene qualche cosa che non è
ferro, cioè che nega il suo essere ferro come valore d’uso e che quindi,
piuttosto che essere il fattore che differenzia le merci, è il loro fattore
omogeneizzante. Solo in questo caso le diverse quantità di ferro possono
determinare i tassi di scambio. Il lavoro astratto è una sostanza omogenea
comune a tutte le merci, qualcosa che rende merci diverse omogenee e quindi
scambiabili (in diverse proporzioni).
[1] Questo non deve essere confuso con la
teoria quantitative della moneta. Si veda più avanti.
[2] Se questa analisi potesse
essere portata più avanti, dovremmo prendere in considerazione la competizione
tecnologica entro i settori. Si può dimostrare che per ciascun settore sono i
produttori con una produttività media che realizzano tendenzialmente il tasso
medio di profitto. Si veda Carchedi, 1991 e 2001.
[3] Per coloro che sono più al
corrente di tali questioni, la tesi che una data quantità di ore di lavoro è
rappresentata da una data quantità di moneta non deve essere confusa con la teoria
quantitativa della moneta. Nella sua versione classica e più semplice
questa teoria sostiene che, data una certa velocità della circolazione della
moneta e un certo livello dell’output, i prezzi monetari sono cartellini
attaccati a valori d’uso che sono determinati dalla quantità della moneta
in circolazione. La moneta è la variabile indipendente e i prezzi monetari la
variabile dipendente. Se la prima aumenta (diminuisce) i secondi aumentano
(diminuiscono). Per la teoria del valore della moneta qui sottoposta, i prezzi
sono l’espressione del valore. È vero che, empiricamente, un
aumento (diminuzione) della quantità della moneta può aumentare (diminuire), ceteris
paribus, i prezzi monetari delle merci. Ma questo non spiega la
quantità della moneta come una variabile endogena. Nella teoria quantitativa
della moneta, questa quantità è un valore esogeno non correlato al valore ed
è determinata dalle autorità monetarie. Nella teoria del valore della moneta,
la quantità della moneta (M) in circolazione aumenta (diminuisce) con l’aumentare
(diminuzione) del valore prodotto e circolante (V). Vediamo perché.
Se V aumenta, la causa deve essere che v e/o c
e/o s sono aumentati. Ceteris paribus i capitalisti hanno bisogno di più
denaro per finanziare questi maggiori investimenti (c+v) e/o per
realizzare il maggior s. Se V diminuisce, vi possono essere due cause. O
tale diminuzione è causata da una contrazione del volume degli investimenti (c+v)
e/o di s, e in questo caso M diminuisce (cioè la moneta è accumulata).
Oppure, dato un certo tasso di plusvalore, sono state introdotte innovazioni
tecnologiche cosicché più c e meno v sono stati investiti e
così meno s è stato prodotto. Il denaro necessario per i mezzi di
produzione aumenta ma quello necessario per l’acquisto della forza lavoro (e
quindi dei mezzi di consumo) e per l’acquisto dei mezzi di lusso diminuisce. L’effetto
sulla quantità della moneta dipende da se uno dei due termini, c o (v+s)
aumenta (diminuisce) più dell’altro.
Si obbietterà immediatamente che una diminuzione prolungata
del valore prodotto può essere, e in genere è, controbilanciata dalle
autorità monetarie aumentando la quantità della carta, non-convertibile,
moneta. Questa è una delle principali misure anti-cicliche. In questo caso, una
diminuita produzione e circolazione di valore (disoccupazioni, fallimenti,
minore uso della capacità produttiva) è controbilanciata da una maggiore
quantità della moneta in circolazione (inflazione). Questo sembrerebbe
inficiare la relazione diretta tra le quantità di moneta e valore sottoposta
qui sopra. Ma questa maggiore quantità di moneta implica un cambiamento nella
espressione monetaria del valore, cioè un cambiamento nei termini di confronto.
D’altra parte, la relazione quantitativa diretta tra quantità di moneta e di
valore presuppone una unità di misura invariata, una data espressione monetaria
di valore, nel tempo. Un indice di deflazione applicato alla nuova (maggiore)
espressione monetaria del valore rivelerebbe una diminuzione della quantità
monetaria in seguito alla diminuzione della quantità del valore. Quindi, la
tesi che un aumento di M può causare un aumento (ma non aumenta
necessariamente) dei prezzi monetari non implica di accettare la teoria
quantitative della moneta.
[4] Per coloro che sono più al corrente del dibattito sulla trasformazione, la
tabella 1 qui sopra non soddisfa i requisiti della riproduzione semplice o
allargata. Questo è stato considerato come un difetto della procedura della
trasformazione di Marx. Tuttavia, la trasformazione dei valori in prezzi (di
produzione) e la riproduzione si basano su precondizioni diverse. La prima
considera la ridistribuzione del plusvalore che costituisce i prezzi di
produzione. Non considera le precondizioni per una ridistribuzione del capitale
costante e variabile tale che la produzione può incominciare di nuovo nel
periodo successivo sulla stessa scala o su una scala allargata. Queste sono le
precondizioni per una riproduzione semplice o allargata. I critici considerano
un esempio numerico non inteso per indagare la riproduzione e fanno l’errore
di usarlo per tale indagine. Naturalmente, i due processi possono essere
considerati assieme ma ciò presuppone che essi siano previamente considerati
distintamente.
[5] Per Cohen (1981), questi sono due concetti
del valore che si escludono a vicenda (ma non si dice il perché), cosicché la
teoria del valore lavoro è logicamente incoerente. E Cohen è considerato
essere un raffinato commentatore di Marx!
[6] Per esempio, se la distribuzione iniziale della domanda fosse
tale per cui il settore 1 non realizzasse nessun profitto, il settore 2
realizzerebbe 60 e i capitali emigrerebbero dal settore 1 al settore 2 fino a
quando tendenzialmente entrambi i settori realizzerebbero 30. Lo stesso vale se
i ruoli sono invertiti, cioè se inizialmente il settore 1 realizzasse tutto il
plusvalore e il settore 2 nessun plusvalore.
[7] In maniera simile, Cavallaro (2000) sostiene che “ciò che
occorre dimostrare è che proprio tale acquisto [l’acquisto della forza
lavoro, G.C.] sia l’unico capace di generare “valore”” (p.36).
[8] Mazzetti è d’accordo con Sraffa che “è solo a causa di una concezione
puramente mistica che si può attribuire al lavoro il particolare dono di
determinare il valore”, ma aggiunge che è un misticismo ancora più grande
attribuire quel dono alle merci.