La domanda di un’automobile è influenzata non solo da
variazioni nel prezzo di quell’automobile (chiamata elasticità della domanda
rispetto al suo prezzo) ma anche da variazioni nei prezzi di altri beni, come
per esempio un computer, (chiamata elasticità della domanda rispetto al prezzo
di altri beni, o elasticità incrociata) e da variazioni nel reddito disponibile
(chiamata elasticità della domanda rispetto al reddito). Al fine di determinare
gli effetti delle variazioni nel suo proprio prezzo, dei prezzi di altri beni, e
del reddito sulla quantità domandata di quell’automobile, questa teoria somma
(1) gli effetti delle sole variazioni del prezzo di quell’automobile (cioè
sotto la CCP) a (2) gli effetti delle sole variazioni del prezzo del computer
(cioè sotto la CCP) a (3) gli effetti delle sole variazioni nel reddito
disponibile (cioè sotto la CCP). In questo modo, si arriva (o si crede di
arrivare) alla determinazione degli effetti sulla domanda di quell’automobile
a causa di tutti questi fattori.
Ma questa procedura è invalida. La somma degli effetti di
tutti i fattori al fine di trovare il risultato complessivo sulla domanda di un
bene è internamente incoerente se questi effetti sono stati calcolati uno alla
volta sulla base della CCP. Per esempio, sommiamo gli effetti sulla quantità
domandata di quell’automobile di una variazione nel prezzo di quell’automobile
(sotto la CCP) e nel prezzo del computer (sotto la CCP). Ciò, lungi dal fornire
la determinazione complessiva e simultanea della domanda di quell’automobile
(dovuta a variazioni contemporanee sia del suo prezzo sia del prezzo del
computer) crea una incoerenza insolubile. In un qualsivoglia momento, la
superimposizione di due o più CCP implica che lo stesso fattore (il proprio
prezzo dell’automobile) è allo stesso tempo sia tenuto costante (sotto
l’ipotesi dell’elasticità della domanda dell’automobile rispetto al
prezzo del computer) e fatta cambiare (sotto l’ipotesi della elasticità della
domanda dell’automobile rispetto al proprio prezzo). La superimposizione di
due momenti statici non raffigura il movimento. In altre parole, questa teoria
non può spiegare una multipla, e quindi reale, selezione del prezzo e quantità
domandata di un bene. Quindi le curve della domanda e dell’offerta non solo
non possono determinare prezzi e quantità (a causa della circolarità), esse
non possono nemmeno selezionare i prezzi e le quantità di equilibrio nel caso
di multipla determinazione, l’unico caso reale. [1]
Rimane un’ultima opzione. Si può scegliere di evitare di
scegliere e semplicemente assumere un’attitudine agnostica: i prezzi sono
quelli che sono e il valore non mi interessa. In questo caso si concede
semplicemente la disfatta teorica. E questa è l’ultima stazione dei critici
di Marx.
Ora possiamo porre il testo di Cavallaro nella sua giusta
prospettiva. “Un secolo di discussioni ha mostrato che, una volta che si sia
proceduto alla rettifica dei valori di scambio degli input, equiparandoli
ai prezzi di produzione, il saggio del profitto non può essere determinato se
non nella forma di un rapporto tra i prezzi. E siccome per conoscere questi
ultimi occorrerebbe già aver determinato il saggio del profitto, l’unico modo
di procedere sembra quello di calcolare contemporaneamente prezzi e saggio del
profitto mediante un sistema di equazioni simultanee (come in Sraffa 1960, cap.
II)” (2001). Dovrebbe essere ormai chiaro che la determinazione simultanea dei
prezzi e dei tassi di profitto, come in Sraffa, incontra le obiezioni sollevate
in tutta questa sezione. Un “secolo di discussioni” ha mostrato una e una
sola cosa: l’incapacità ideologicamente determinata dell’economia ortodossa
(in tutte le sue variazioni) di capire non solo la procedura di Marx, e più
generalmente la sua metodologia, ma anche le disastrose conseguenze derivanti
dall’abbandono di quella metodologia. [2]
Quanto sopra ha dimostrato che la critica sraffiana di Marx
è pervasa da contraddizioni e che conduce a un vicolo cieco teorico. Ma c’è
di più. La ragione per cui la critica non è valida è che si basa su una
teoria che è inerentemente contraddittoria e che soffre degli stessi errori che
si vorrebbero attribuire a Marx. Quanto segue dimostrerà che lo sraffianismo
(a) è basato su un errore logico di fondo (b) adotta un approccio in cui il
tempo manca e (c) cade nella regressione all’infinito. [3]
Incominciamo dal primo punto, l’errore logico. Nell’approccio
sraffiano (si veda per esempio Screpanti, 2001), il valore di una merce (cioè
il lavoro contenuto in essa) è definito come il lavoro vivo (o nuovo lavoro)
più il valore del capitale costante (si dovrebbe dire, dei mezzi di produzione)
che è stato usato per quella merce. Quest’ultimo si ottiene moltiplicando la
quantità dei mezzi di produzione (che sono stati usati per quella merce) per il
lavoro che è stato usato per la loro produzione. Per esempio, il lavoro che è
stato usato per una pagnotta di pane è dato (a) dal lavoro del panettiere più
(b) la quantità di farina prodotta dal mulino (e usata per la produzione di
quella pagnotta) moltiplicata per il lavoro che il mugnaio ha erogato per la
produzione di quella farina. In questo modo, si suppone, tutti gli elementi
possono essere ridotti a lavoro. [4]
A prima vista, questo procedimento sembrerebbe accettabile.
Tuttavia, esso ignora la distinzione basilare tra lavoro concreto e lavoro
astratto. Questa non è una distinzione che ci si può permettere di ignorare.
Se oggetti irriducibilmente differenti possono essere scambiati, essi devono
avere qualcosa in comune oltre a qualcosa che li differenzia. Dato che essi sono
il risultato del lavoro, il lavoro deve avere qualcosa che li differenzia ma che
li rende anche uguali. Cioè il lavoro deve essere sia concreto sia astratto
allo stesso tempo. Ma nessuno di questi due aspetti può essere moltiplicato per
la merce come valore d’uso, come propone il metodo sraffiano. Il lavoro
concreto è lavoro specifico, lavoro che è differente da ogni altro tipo di
lavoro. Ogni tipo di lavoro concreto è unico. Lo stesso vale per la merce come
valore d’uso. Essi sono per definizione non quantificabili e quindi non
possono essere moltiplicati l’uno per l’altro. Ma anche se potessero essere
moltiplicati l’uno per l’altro, il risultato non potrebbe essere paragonato
a quello d’ogni altra simile moltiplicazione di altre merci per il lavoro
concreto che le ha prodotte. In questo caso, i risultati d’ogni
moltiplicazione non potrebbero essere addizionati. Il lavoro astratto, d’altra
parte, è certamente quantificabile. Tuttavia anch’esso non può essere
moltiplicato per un’entità non quantificabile, per esempio una macchina come
valore d’uso. E anche se tale moltiplicazione fosse logicamente lecita, non lo
sarebbe in termini dell’approccio sraffiano in cui il lavoro astratto non è
permesso. In breve, la moltiplicazione sraffiana si basa in entrambi i casi su
una insormontabile incommensurabilità ed è, in quanto tale, invalida.
[5] La nozione sraffiana di capitale e
surplus è in termini fisici, è una nozione fisicalista, e come tale è una
nozione invalida. Questo è il peccato originale di Sraffa.
Ma c’è una seconda critica. Partendo da questa nozione
fisicalista, l’approccio sraffiano incontra la successiva difficoltà nello
stabilire quantitativamente il tasso di profitto. Dato che sia il surplus che il
capitale usato nella produzione di quel surplus sono quantità fisiche, esse
sono incommensurabili. Naturalmente, questo non è il problema di Marx. Nella
teoria di Marx, le merci sono commensurabili perché, oltre ad essere valori d’uso
(e quindi differenti per definizione), esse contengono anche lavoro astratto,
una sostanza quantitativamente omogenea. Tuttavia, l’approccio sraffiano
sostiene che questo è il problema di Marx e si prefigge di risolverlo. Per
rendere le merci commensurabili, tale approccio non vede altra soluzione che
moltiplicare quelle grandezze fisiche per i loro prezzi di produzione, cioè i
prezzi che sono ottenuti aggiungendo il tasso medio di profitto al capitale
investito (si veda più sopra). Ma se i prezzi sono manifestazioni del lavoro
(sia concreto che astratto) l’incommensurabilità additata più sopra
riemerge. L’approccio sraffiano ignora questo punto e indica un nuovo
problema: i prezzi di produzione sono essi stessi calcolati sulla base del tasso
medio di profitto, cosicché al fine di calcolare i prezzi di produzione abbiamo
bisogno dei prezzi di produzione.
Per evitare tale circolarità tutta sua, quest’approccio
introduce l’uso delle equazioni simultanee nelle quali tutti i prezzi (sia
degli input che degli output dello stesso periodo) sono determinati
simultaneamente. Quest’uso delle equazioni simultanee è quindi connesso alla
supposta circolarità in un approccio che non potrebbe essere più distante da
quello di Marx e che tuttavia si afferma essere quello di Marx. Questo risponde
alla critica sraffiana secondo la quale nell’approccio proposto qui “manca
un’affermazione chiara e persuasiva del perché Marx, dopo Sraffa, dopo tutto
richieda un’analisi in termini di valore lavoro” (Mongiovi, traduzione mia,
G.C.). La risposta è che “un’analisi in termini di valore lavoro” oltre
ad essere perfettamente coerente, non deve cadere nella determinazione
simultanea degli input e degli output dello stesso periodo, cioè non deve
cancellare il tempo. L’approccio sraffiano, d’altra parte, abbandonando il
valore come lavoro astratto, focalizzandosi sui valori d’uso, non solo è
minato dall’incommensurabilità, ma anche crea un problema di circolarità che
abbisogna della determinazione simultanea e quindi della eliminazione del tempo.
Per ultimo, come se tutto questo non fosse sufficiente, c’è
un terzo difetto: l’approccio sraffiano cade nella regressione all’infinito.
Sraffa pensava di evitare la regressione all’infinito riducendo ciascun input
incorporato in una certa merce ad una quantità di lavoro. Consideriamo una
merce. Il suo valore è dato, secondo Sraffa (1960, p.34), prima di tutto dal
lavoro erogato per la sua produzione moltiplicato per il tasso salariale pagato
per quel lavoro. A questo si aggiunge il lavoro incorporato negli input (i mezzi
di produzione). Esso è uguale al lavoro necessario per produrre quegli input
nel periodo precedente moltiplicato per il tasso salariale più il tasso di
profitto su quegli input. La stessa procedure è ripetuta per ciascun periodo
precedente. Facendo così, secondo Sraffa, più siamo disposti a retrocedere nel
tempo, meno sarà il “residuo merce”, cioè quella parte degli input
espressa in termini fisici e maggiore sarà quella parte espressa in termini di
lavoro. Ma questo non è il caso. Prima di tutto, è ancora necessario
retrocedere nel tempo all’infinito. E in secondo luogo, ogni volta che
facciamo un passo indietro nel tempo, calcoliamo il contenuto in lavoro non di
un residuo fisico decrescente degli input di questo periodo ma il
contenuto in lavoro degli input fisici del periodo precedente senza
diminuire il residuo in termini fisici degli input di questo periodo. Ogni volta
che tentiamo di ridurre il ‘residuo merce’ di un certo periodo, la riduzione
è rimandata al periodo precedente. E questo significa semplicemente che questa
procedura ricade nella regressione all’infinito nel tempo. In ogni caso, anche
se questa procedura non si basasse sulla incommensurabilità logica menzionata
più sopra (primo difetto), anche se non presupponesse la simultaneità (secondo
difetto), e anche se fosse corretta dal punto di vista del calcolo (terzo
difetto), essa sarebbe inutile perché il valore degli input è dato dalla
valutazione sociale di quegli input al momento in cui essi entrano nel processo
di produzione (si veda la sezione 4 precedente).
Nonostante questi macroscopici errori logici, la combinazione
di simultaneismo e fisicalismo continua a prosperare. La ragione, di nuovo, è
il suo contenuto ideologico, cioè l’opportunità che offre di negare lo
sfruttamento come pluslavoro. Dal punto di vista fisicalista, il profitto può
essere teorizzato come il surplus fisico al di sopra degli input fisici
investiti, anche nell’assenza di lavoro (valore). Il modo più chiaro di
vedere ciò è di immaginare un’economia completamente automatizzata con solo
un tipo di macchine. Ogni anno esse producono un numero di macchine maggiore di
quelle consumate nel processo di produzione. Come Kliman sostiene
convincentemente (2001), il simultaneismo entra sulla scena quando si tratta di
calcolare il prezzo delle macchine. Se il prezzo del maggior output potesse
essere minore di quello delle macchine consumate, vi sarebbe una perdita e non
un profitto. Quindi i profitti in termini monetari presuppongono che i prezzi
unitari non cadano, cioè che essi rimangano costanti. L’unico modo per essere
sicuri di questo è che il prezzo unitario delle macchine-ouput sia determinato
assieme a, e quindi sia uguale a, il prezzo unitario delle macchine-input.
Questo è simultaneismo. Entro un approccio fisicalista-simultaneista i profitti
possono essere generati dalle macchine e non dal pluslavoro. O, per lo meno,
essi potrebbero essere generati dalle macchine se uno fosse disposto a ignorare
le critiche di cui sopra.
A rigor di termini, la questione della trasformazione non
riguarda lo sfruttamento. Lo sfruttamento riguarda l’espropriazione di lavoro
e quindi di valore dei lavoratori da parte dei capitalisti. La trasformazione
riguarda la ridistribuzione di questo lavoro (e quindi valore) non pagato (dopo
che è stato espropriato) tra i capitalisti. Ma la connessione è chiara. Una
volta che si nega la procedura della trasformazione di Marx, la strada è libera
all’introduzione delle sue molteplici ‘correzioni’ basate sull’ipotesi
del simultaneismo che o nega lo sfruttamento o lo teorizza in maniera
indifendibile. La scelta del simultaneismo è quindi funzionale ad una
operazione totalmente ideologica. Il simultaneismo è il solvente che dissolve
non solo la nozione che il capitalismo è piagato dalle crisi, non solo la
nozione di valore e sfruttamento, ma anche tutto ciò che è specifico del
marxismo. Il punto d’entrata nel marxismo del simultaneismo è stato il
dibattito sulla trasformazione. Questa è l’enorme importanza politica del
dibattito sulla trasformazione. Questo era chiaro a Bortkiewicz (il padre
della critica della circolarità) per il quale “Marx era della ferma opinione
che gli elementi esaminati devono essere considerati come una specie di catena
causale nella quale ciascun anello è determinato nella sua composizione e
grandezza, solamente dagli anelli precedenti... [Ma] la scienza economica
moderna incomincia gradualmente a liberarsi dal pregiudizio successivistico, il
merito principale essendo della scuola capeggiata da Leon Walras” (citato in
Freeman, 1998, p.7). Il simultaneismo non esiste né in Marx né nella realtà,
è un errore logico ma è un errore che è essenziale per la sopravvivenza dell’economia
ortodossa e del capitalismo.
[1] L’argomento che le curve
della domanda e dell’offerta sono solo tipi ideali e che un comportamento
anormale può essere spiegato come le deviazioni da questi tipi ideali (Walras,
1977, p.71) è impotente di fronte alla critica appena menzionata. Se la norma
non può essere convalidata, spiegazioni di effettivo comportamento come
deviazioni dalla norma non possono tenere. Un altro argomento che non tiene è
che questa critica è valida solo per l’equilibrio parziale e non per quello
generale. Per una critica dell’equilibrio generale, si veda Carchedi, 2001 a,
capitolo 2.
[2] Kliman (1998a) fornisce un buon
esempio delle assurde conseguenze inerenti nell’approccio a-temporale o
simultaneista. Supponiamo che un investitore compri un’obbligazione per $1.000
a t1 e riceva un interesse di $100 a t2. Il suo tasso d’interesse è del 10%.
Supponiamo poi che a t2 quell’obbligazione sia stata deprezzata a $100. Questa
è la valutazione sociale di quell’obbligazione a t2. Implica una perdita di
$900. Se l’investitore vende quell’obbligazione, perde $900 e può
incominciare un nuovo ciclo di investimenti con soli $100. Cioè, a t2 il tasso
d’interesse è più che compensato da una perdita su capitale come percentuale
del capitale totale investito (-90%). Il tasso d’interesse dell’investitore
è +10%-90%=-80%. Un economista ortodosso, se volesse essere coerente con l’assenza
di tempo inerente nella critica della circolarità, dovrebbe superimporre t1 e
t2 e correlare l’interesse ricevuto a t2 ($100) alla valutazione sociale dell’obbligazione
a t2, cioè $100. Il tasso di interesse sarebbe +100% piuttosto che -80%! Nell’approccio
temporale è il compratore di quell’obbligazione a t2, il punto iniziale del
ciclo di investimenti t2-t3, che realizza un tasso di interesse del 100%, dato
che il compratore lo ha pagato $100 e riceve un interesse di $100.
[3] Per un’ottima
critica, complementare a questa, si veda Giussani, 2001.
[4] Secondo la nozione di Screpanti, “l
= lA+
l”, dove l
rappresenta i valori lavoro dei prodotti lordi, ovvero le quantità di
lavoro in essi contenute, l i
coefficienti di lavoro vivo, A i coefficienti tecnici e lA
i valori-lavoro dei capitali costanti” (2001). Questa notazione è stata
presa da una versione precedente dell’articolo di Screpanti. Si noti che
questo per Screpanti è un ‘assioma’.
[5] Mazzetti (2001, p.33) sostiene che nella formulazione originale di Sraffa,
cioè:
280 quintali di grano+12 tonnellate di ferro --> 40
tonnellate di grano
120 quintali di grano+ 8 tonnellate di ferro --> 20
tonnellate di ferro
il lavoro è assente, che in queste combinazioni è come se
gli input, grano e ferro, fossero capaci di trasmutarsi “per propria spontanea
sintesi” (p.33) negli output, grano e ferro. Uno sraffiano potrebbe obiettare
che il lavoro è presente implicitamente. Ma questo non sarebbe di grande aiuto
perché al lavoro deve essere dato un ruolo esplicito nella produzione
(altrimenti non sappiamo qual’è il suo contributo) e perché il solo tipo di
lavoro che è permesso in questo schema è il lavoro concreto, cosa che conduce
direttamente alla incommensurabilità menzionata qui sopra. Mazzetti sottolinea
inoltre che nelle equazioni di Sraffa (a) la domanda e offerta sono uguali per
definizione e che quindi le crisi non possono essere concettualizzate (b)
ciascun settore è rappresentato solo da una tecnica e che se più tecniche
fossero introdotte “il sistema diventa algebricamente impossibile” (ibid),
cioè che la competizione tecnologica non può essere teorizzata (c) anche se la
competizione tecnologica entro settori fosse permessa, questo nuovo elemento
renderebbe la riproduzione del sistema impossibile. Infatti, il sistema si
riproduce sulla base di un tasso di scambio di 10 quintali di grano = 1
tonnellata di ferro. Ma allora, per esempio, i produttori più produttivi di
grano avrebbero uno stock di grano che non avrebbero bisogno di scambiare per
ferro oppure avrebbero un eccesso di ferro se scambiassero tutto il loro grano.
Lo stesso per gli altri produttori. Io aggiungerei che nelle equazioni di Sraffa
il tempo è assente cosicché il grano e il ferro come input sono gli stessi
grano e ferro come output. Simultaneismo e quindi equilibrio sono già contenute
in nuce in queste formulazioni.