Anche il secondo candidato è una categoria, quella delle
macchine. Ma se le macchine producessero valore, quanto più macchine tanto più
il valore prodotto. Al limite, un’economia completamente automatizzata sarebbe
quella più produttiva di valore. Ma ciò è incompatibile con una economia
capitalistica che è basata sull’esistenza dei proprietari delle macchine
(mezzi di produzione) e dei lavoratori, coloro che vendono la loro forza lavoro
ai proprietari delle macchine. Dato che il valore è anche il potere d’acquisto
della moneta, se i lavoratori dovessero sparire sparirebbe anche il valore e il
loro potere d’acquisto: i proprietari dei mezzi di produzione, a chi
potrebbero vendere i loro prodotti? Potrebbero venderli l’uno all’altro. Ma
in questo caso non vi sarebbero né lavoratori né sfruttamento; non si avrebbe
una società capitalistica. Ne consegue che più le macchine rimpiazzano i
lavoratori, minore (e non maggiore) è il valore prodotto.
Non rimane che il lavoro. Una volta fatta la distinzione
basilare tra lavoro concreto e astratto, ne consegue che solo il lavoro astratto
può essere (la sostanza del) valore. A questo punto due obiezioni possono
essere sollevate. Primo, “è un pregiudizio supporre che il valore debba
essere creato” (Cohen, 1981, p.214, traduzione mia, G.C.). “Ovviamente, i
lavoratori creano qualcosa. Essi creano il prodotto. Essi non creano valore,
ma creano quello che ha valore” (op.cit., p.218, traduzione mia, G.C.).
In questa caso, il lavoro non può essere la sola sostanza del valore
(come dimostrato più sopra) perché, in prima istanza, non è la sostanza del
valore. Il contro-argomento è come segue. Primo, senza una nozione di valore
come lavoro incorporato, non vi può essere una teoria dei prezzi, della
distribuzione. Sarà dimostrato più avanti che tutte le teorie dei prezzi che
non si basano su una ridistribuzione del valore (lavoro) contenuto nelle merci
sono logicamente invalide. E, senza una teoria dei prezzi, non vi può essere
una teoria della produzione. Quindi, il concetto di lavoro come sostanza del
valore è una scelta necessaria, logica, se vogliamo teorizzare la produzione e
la distribuzione. Secondo, se si accetta la nozione di lavoro contenuto, si deve
anche accettare allo stesso tempo la nozione che il valore è creato. Che il
valore “deve essere creato” è lungi dall’essere un pregiudizio. Si noti
che la scelta del lavoro umano come (la sostanza del) valore non è solo l’unica
scelta logica. È anche un punto di vista di classe: sono i lavoratori che
vogliono sapere chi lavora per chi (cioè chi è sfruttato da chi) nel
capitalismo. Quindi, la scelta del lavoro come la sostanza del valore, questo
punto di vista di classe e non un altro, si rivela essere l’unico
logico.
Possiamo ora fare tre commenti. Primo, anche se non potesse
essere provata, la nozione che il lavoro è (la sostanza del) valore non sarebbe
un pregiudizio ma sarebbe determinata dal punto di vista di classe, un punto di
partenza dell’indagine perfettamente legittimo. Ma supponiamo per un istante
che tale nozione non possa essere provata e che sia un pregiudizio. Cohen può
solo ‘provare’ (ma si veda la nota 10 precedente) che la teoria del valore
lavoro è sbagliata e quindi che anche l’asserzione che ‘il valore è creato’
è sbagliata. Cohen non prova che il valore (1) esiste (2) senza essere
creato, indipendentemente da se la teoria del valore lavoro sia giusta o
sbagliata. Quindi, incominciare dalla nozione infondata che il valore esiste e
non è creato, è ugualmente un pregiudizio, o più propriamente, è un diverso
punto di vista determinato dalla classe, un punto di vista determinato da una
diversa classe. Secondo, che i lavoratori ‘non creano valore ma ciò che ha
valore’ è un altro modo per sostenere che i lavoratori creano i valori d’uso
senza creare il valore: “Qualsiasi cosa possa essere responsabile per la
grandezza del valore, il lavoratore non riceve tutto il valore del suo prodotto”
(op.cit., p. 222). Lo sfruttamento è così definito in termini d’appropriazione
di valori d’uso. La sezione 5 dimostrerà che ciò conduce a conclusioni
assurde. Terzo, “Qualsiasi cosa” dà l’impressione sbagliata che vi siano
molte spiegazioni possibili di che cos’è il valore. Ma in effetti vi è solo
un candidato (non a caso questo è l’unico menzionato da Cohen): il ‘desiderio’,
(op.cit.,p.220), cioè la domanda. La sezione 5 dimostrerà che la teoria dei
prezzi basata sulla domanda e l’offerta non è logicamente difendibile.
La seconda obiezione alla tesi marxiana è che, anche se il
lavoro astratto è la sostanza del valore, non vi è alcuna ragione di misurare
il valore in termini di lavoro astratto (tempo). Per Reuten, “la tesi che il
valore di un bene ha la sua origine nella quantità di tempo di lavoro
speso per esso è una tesi sensata, che sia vera o falsa. Però volere anche
misurare quel valore in termini di tempo di lavoro sembra una cosa dubbia
o perlomeno non ovvia” (1999, p.94, traduzione mia, G.C.). Mi sembra che
questa contraddizione sia artificiale. La scelta del lavoro (astratto) come la
sorgente del valore implica necessariamente che si scelga il lavoro astratto
anche come unità di misura del valore. Se si sceglie l’utilità come la
sorgente del valore, si deve misurare il valore in termini di utilità. Ma
suggerire che “si potrebbe considerare l’utilità come la sorgente del
valore e ciononostante misurare il valore in termini di tempo di lavoro”
(p.94) non ha senso. Infatti, in questo caso non vi sarebbe alcuna connessione
logica tra ciò che deve essere quantificato (utilità) e ciò che lo quantifica
(tempo di lavoro) cosicché il tempo di lavoro sarebbe inutile come misura dell’utilità.
Non vi è alcuna confusione (in Marx) tra la sorgente e la misura del valore.
[1]
Il fatto che il lavoro è la sola sostanza del valore è di
per sé insufficiente per dimostrare che solo il lavoro dei lavoratori crea
valore e quindi plusvalore, cioè che essi sono sfruttati dai
capitalisti/manager. La letteratura imprenditoriale, nella misura in cui tratta
del valore, sostiene che i capitalisti/manager creano valore proprio come fanno
i lavoratori, cioè che non vi è sfruttamento. Quello che rimane da dimostrare
è che solo i lavoratori producono valore. Tuttavia, tale dimostrazione non può
essere quella proposta nell’ambito dell’ipotesi dei ‘profitti nulli’. Il
ragionamento è come segue. Ipotizziamo un’economia capitalistica in cui tutti
i profitti sono nulli. In tal caso, in termini della tabella 1 precedente, i
lavoratori nel settore 1 dovrebbero essere pagati un valore di 40 e nel settore
2 un valore di 80. Tutto il plusvalore andrebbe ai lavoratori e le merci
sarebbero vendute al loro valore. In un’economia capitalistica le merci non
sono vendute al loro valore: quindi vi è sfruttamento. Ma questo ragionamento
non prova nulla. ‘Dimostra’ che se tutto il nuovo valore andasse ai
lavoratori non vi sarebbe plusvalore e quindi non vi sarebbero profitti; e che
se una parte del nuovo valore andasse al capitalista vi sarebbe plusvalore e
quindi vi sarebbero profitti. Ciò non è altro che una ripetizione del concetto
di plusvalore.
In un testo metodologicamente molto ricco, ‘Il metodo dell’economia
politica’ nei Grundrisse (1973, pp.100 e seguenti), Marx traccia il
processo della produzione concettuale. Essa incomincia con l’osservazione, “una
concezione caotica del tutto”, si muove “analiticamente verso concetti
sempre più semplici”, fino a quando si arriva a quelle che Marx chiama “le
determinazioni più semplici”. Le determinazioni più semplici sono per Marx
quei concetti che contengono in nuce, potenzialmente, tutte le altre
contraddizioni. Queste determinazioni più semplici non sono raggiunte estraendo
un’essenza a-storica dalla realtà sociale ma, al contrario, focalizzandosi
sulle differenze essenziali, condensando in esse ciò che è storicamente
specifico. Ed è a causa di questa loro natura ‘compressa’ che esse possono
servire come punto di partenza per una descrizione sempre più complessa della
realtà, sviluppando sempre di più le contraddizioni in esse già contenute
(Carchedi, 1973, p.7). [2]
Ora, un’economia capitalistica in cui i profitti sono nulli
per definizione, e non in un momento storico particolarmente sfavorevole,
come un evento a-tipico, non è un’economia capitalistica per la semplice
ragione che non vi sono capitalisti. Quindi non può servire come punto di
partenza per dimostrare l’esistenza del plusvalore nel capitalismo. Non è un’astrazione
storicamente specifica, non è nemmeno un’astrazione a-storica (che astrae
dalle specificità storiche come il ‘lavoro’ in tutte le società).
Soprattutto, non è una contraddizione dialettica, non è un concetto di una
contraddizione che esiste nella realtà che contiene in se stessa la
possibilità di superare se stessa. È una contraddizione logica, un concetto di
qualcosa che non esiste, che non è mai esistito e che non potrebbe esistere
nella realtà. È un errore logico. Quindi ogni prova dimostrata su questa base
non può che essere fallace. Se chiedo “perché c’è sfruttamento in un’economia
capitalistica?” la risposta non può essere “ perché non c’è
sfruttamento in un’economia non capitalistica”. La risposta non spiega
perché c’è sfruttamento nel capitalismo; nel migliore dei casi spiega
perché non c’è sfruttamento in un sistema diverso. Nel caso specifico di un’economia
capitalista con profitti nulli, non spiega nemmeno questo, dato che il sistema
concettuale è un errore logico. Per spiegare lo sfruttamento nel capitalismo,
bisogna prendere come punto di partenza un’economia capitalistica (piuttosto
che un’economia non capitalista) e incominciare dalla specificità storica
dello sfruttamento nel capitalismo. L’unico modo per fare ciò è, primo,
dimostrare che solo il lavoro crea valore (cosa che è appena stata fatta) e poi
dimostrare che solo il lavoro dei lavoratori (piuttosto che anche quello dei
capitalisti/managers) produce plusvalore. Affrontiamo quindi questo secondo
punto.
La letteratura economica sostiene che i
capitalisti/entrepreneur creano quella parte di valore che prende la forma di
profitto, cioè che essi non si appropriano di una parte del valore prodotto dai
lavoratori. E che quindi non vi è sfruttamento. Anche qui la prova che ciò è
falso sarà per esclusione, cioè inficiando gli argomenti che negano lo
sfruttamento. Primo, si ipotizza che gli entrepreneur siano ricompensati
perché si astengono dal consumo (per esempio, gli interessi sul capitale
risparmiato). Il contro-argomento è che l’astinenza non può creare valore
dato che è impossibile creare qualcosa (valore) astenendosi dal suo consumo. Secondo,
si propone che gli entrepreneur siano retribuiti perché vendono i loro
prodotti. Ma la vendita non può creare valore. Questo è stato dimostrato più
sopra considerando due soggetti economici che vendono e comprano reciprocamente
la stessa merce. Tanto più ricco diventa uno, tanto più povero l’altro. Non
un atomo di nuovo valore è aggiunto alla ricchezza totale dalle loro
transazioni. Terzo, si asserisce che gli entrepreneur sono ricompensati
perché corrono rischi. Anche qui tale comportamento non ha alcun effetto sul
valore delle merci prodotte. Indipendentemente da se il correre rischi debba
essere ricompensato o no, la ricompensa deve essere stata prodotta da qualcun
altro.
Quarto, gli entrepreneur sono ricompensati per svolgere
la funzione manageriale. Quest’argomento è più serio. Prima di affrontarlo,
dobbiamo fare un’importante distinzione. Abbiamo visto che il processo
produttivo produce sia valori d’uso che valore, i due aspetti delle merci.
Dato che i lavoratori non producono per se stessi ma per i capitalisti, tutta
una serie di metodi, che vanno dalla più bruta coercizione alle forme più
sottili di persuasione, passando attraverso una politica dei salari progettata
deliberatamente per incentivare e/o dividere la forza lavoro, è ideata e messa
in opera sia dagli entrepreneur stessi che da coloro a cui questa funzione è
stata delegata. Così, la tipica funzione dei capitalisti, come agenti del
capitale, è quella di controllare e disciplinare il lavoro. Questa è chiamata
da Marx nel terzo volume del Capitale la funzione del capitale e
questo aspetto del processo di produzione è chiamato il processo produttivo
di plusvalore. I lavoratori, d’altra parte, eseguono la funzione del
lavoro. Questo significa che essi trattano i valori d’uso sia trasformandoli
(e questi sono i lavoratori produttivi, cioè produttivi di valore e plusvalore)
o no (e questi sono i lavoratori improduttivi, come nelle attività
commerciali). Essi eseguono l’altro aspetto del processo di produzione, il processo
lavorativo (il processo che tratta i valori d’uso sia trasformandoli, come
nella produzione, o no, come nello scambio). In breve, per Marx, il processo
capitalistico di produzione è la combinazione del processo lavorativo e
del processo produttivo di plusvalore.
Questo ci permette di concettualizzare la funzione
manageriale. Essa comprende sia soltanto la funzione del capitale che una
combinazione della funzione del capitale e di aspetti della funzione del lavoro,
come per esempio il lavoro di coordinamento e unificazione del processo
lavorativo (che include la combinazione dei fattori di produzione). La funzione
manageriale è svolta non solo dai capitalisti ma anche da tutti coloro a cui
tale funzione è stata delegata: dai massimi direttori, attraverso vari strati
di manager, giù fino ai ‘capetti’. Coloro che controllano, nella misura in
cui svolgono questa funzione, non partecipano alla trasformazione dei valori d’uso
(e quindi non possono creare valore) e neppure trattano i valori d’uso senza
cambiarli (come nelle attività commerciali). Piuttosto, essi forzano/persuadono
altri a svolgere la funzione del lavoro o la funzione del capitale. Messo nei
termini più semplici, se una persona deve forzare/convincere altri a
trasformare valori d’uso, essa non potrà partecipare a quella trasformazione.
Quindi, i capitalisti e tutti coloro che svolgono la funzione del capitale
creano valore solo nella misura in cui essi svolgono la funzione del lavoro e
non la funzione del capitale. Ma in questo caso, e solo nella misura in cui essi
svolgono la funzione del lavoro, essi non sono i capitalisti o i loro agenti.
Nella misura in cui essi eseguono la funzione del capitale, essi non possono
creare valore. Se non creano valore, devono espropriare e appropriare, sotto la
forma del profitto, una parte del valore creato dai lavoratori. Lo fanno
forzando i lavoratori, direttamente o indirettamente, usando la coercizione o la
persuasione, a lavorare più a lungo del tempo necessario per produrre i beni
salario dei lavoratori, cioè a fornire plus lavoro. La nozione che i
capitalisti, i managers e tutto l’apparato burocratico al loro servizio creino
valore si basa sulla mancata distinzione tra queste due funzioni. [3]
[1] È Reuten che confonde le carte. Ciò deriva dalla sua convinzione che il
lavoro contenuto non può essere misurato. Quindi solo il denaro, e non il
lavoro astratto, può essere la misura del valore. Questo è in linea con l’approccio
della ‘forma valore’ che sarà discusso nella sezione 6. Là, si dimostrerà
che il denaro non può essere la misura del valore nell’assenza di una nozione
di lavoro contenuto.
[2] Mi sembra che Cavallaro (2000) interpreti erroneamente
i Grundrisse. “Ciò che è complesso non si può mai dedurre dal più
semplice” (p.35). Questo è esattamente l’opposto di quello che dice Marx e
serve a negare che sia possibile derivare i prezzi di produzione (la forma più
complessa del valore) dal valore contenuto (la sua forma più semplice). Cioè
ha la funzione di accettare la critica della procedura della trasformazione di
Marx.
[3] Alcune
funzioni possono comprendere entrambi gli aspetti della funzione manageriale.
Ciò, tuttavia, non inficia la distinzione analitica. È sulla base di tale
distinzione che una teoria delle nuove classi medie può essere costruita. Si
veda Carchedi, 1977.