Introduzione [1]
l recente libro di Bertinotti e Gianni (2000) ha avuto il
merito di riaprire in Italia il dibattito sulle teorie del valore e dello
sfruttamento, mostrando la rilevanza politica di argomenti che fino a ieri
eravamo stati abituati a considerare piuttosto accademici. Cavallaro (2000),
Bellofiore (2000) e Mazzetti (2001) hanno dato dei primi contributi a questo
rinnovato dibattito. E l’appello di Cavallaro a stare in guardia nei confronti
della mistica del valore-lavoro lascia sperare che la ricerca possa procedere
oggi lungo i binari giusti, evitando certe forzature scolastiche cui abbiamo
assistito in passato, anche se gli interventi di Carchedi (2001), Freeman (2001)
e Kliman (2001) sembrano voler uccidere sul nascere questa speranza.
Le domande da porci sono ormai chiare: è proprio vero che
per salvare le parti vive dell’analisi marxiana del capitalismo si deve
gettare a mare la teoria del valore-lavoro? E che insieme a questa si deve
gettare a mare anche la teoria dello sfruttamento, col rischio che di parte viva
resti infine ben poco? La mia risposta alla seconda domanda è: no. Alla prima:
sì e no. In questo saggio proverò a giustificare tali risposte.
Tenterò innanzitutto una decostruzione della teoria marxiana
dello sfruttamento e del valore. Non dirò nulla di nuovo. Mi limiterò a
richiamare alcuni risultati della ricerca che sono acquisiti già da qualche
decennio. Cercherò però di portare alla luce certe loro implicazioni critiche
in merito ai fondamenti ontologici e metodologici della teoria di Marx.
Mostrerò che la metafisica su cui poggia la dottrina del valore-lavoro la rende
inadatta a dar conto dei rapporti di classe in un’economia capitalistica,
mentre la espone a una critica d’incoerenza logica e a una, ancora più grave,
di debolezza metodologica. Sosterrò infine che non è possibile dar conto dello
sfruttamento in modo coerente ed efficace se si usa la teoria del valore-lavoro.
Tutto ciò farò nella prima parte del saggio.
Non è tanto la concezione dello sfruttamento in sé a creare
problemi, quanto la stretta connessione che Marx instaurò tra essa e la teoria
del valore-lavoro. Perciò l’abbandono di questa teoria non comporta una
rinuncia all’analisi dello sfruttamento. Nella seconda parte del saggio
enucleerò il nocciolo dell’analisi marxiana del rapporto di sfruttamento e ne
tenterò una ricostruzione ricorrendo a un approccio di tipo controfattuale.
Eviterò di far ricorso a teorie universali della giustizia o a verità
che affermano certezze ontologiche. L’analisi che proporrò fa leva piuttosto
sull’assunzione di un punto di vista di classe, sulla base del quale
costruirò un modello di mondo ipotetico che può essere usato come pietra di
paragone per studiare il capitalismo. Poi, facendo uso di una teoria del valore
basata sui prezzi di produzione, mostrerò che è possibile esprimere il saggio
di sfruttamento in termini di quantità di lavoro, comandato e incorporato.
Cercherò infine di portare alla luce alcune caratteristiche fondamentali del
capitalismo, cioè alcune condizioni istituzionali che rendono possibile l’estrazione
del plusvalore dal processo produttivo.
Il superamento della teoria del valore-lavoro non implica che
questa debba essere gettata a mare. Si tratta soltanto di cambiarne l’uso
metodologico. Così, nella seconda parte del saggio mostrerò anche che una
misura dei valori in lavoro contenuto può tornare utile proprio per definire le
condizioni di scambio prevalenti nel modello di mondo ipotetico usato come
controfattuale.
1. Sfruttamento e valori-lavoro La dottrina ortodossa dello sfruttamento
A fondamento della teoria marxiana del valore-lavoro ci sono
due assiomi. Il primo è quello che potrebbe essere definito “assioma della
sostanza del valore”: “un valore d’uso o bene ha valore
soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato,
lavoro astrattamente umano” (Marx, 1964, I, p. 70). Il secondo
potrebbe essere definito “assioma della grandezza del valore”: “come
misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la quantità
della ‘sostanza valorificante’, cioè del lavoro, in esso contenuta”
(Marx, 1964, I, p. 71).
In base a quest’ultimo assioma il valore di una merce
coincide con la quantità di lavoro impiegato direttamente e indirettamente per
produrla. Quello impiegato direttamente si chiama “lavoro vivo” e coincide
col valore aggiunto. Quello impiegato indirettamente si chiama “lavoro morto”
e coincide col “capitale costante”, cioè col valore dei mezzi di
produzione. Così il valore del prodotto netto aggregato non è altro che il
lavoro vivo complessivo. Il salario viene chiamato da Marx “valore della forza
lavoro”; se lo si misura in lavoro contenuto si scopre che è uguale alla
quantità di lavoro impiegata per produrre i beni salario. Il “plusvalore”
infine consiste nella differenza tra il valore del prodotto netto e quello della
forza lavoro.
Ora concentriamo l’attenzione su quanto produce un operaio
in una giornata di 8 ore lavorative, e poniamo che il valore della forza lavoro,
cioè il valore-lavoro del salario giornaliero, sia pari a 4 ore di lavoro. Ciò
vuol dire che per produrre i beni salario consumati da un operaio in una
giornata lavorativa si deve lavorare 4 ore. Il plusvalore sarà pari a 8-4=4 ore
di lavoro. Il saggio di plusvalore, definito come il rapporto tra il plusvalore
e il valore della forza lavoro, sarà pari al 100%, cioè a 4/4. Si può dire
che l’operaio lavora 4 ore per sé e 4 per il padrone. In forza dell’assioma
della grandezza del valore, risulta che il plusvalore coincide con un pluslavoro.
E ciò sembrerebbe confermare l’assioma della sostanza del valore, per il
quale, si ricorderà, il valore è creato dal lavoro. Sembrerebbe
evidente che il plusvalore guadagnato dal capitalista è stato prodotto, cioè
creato, dal pluslavoro dell’operaio. Il profitto, in quanto coincide col
plusvalore, è il risultato di uno sfruttamento dei lavoratori. Il rapporto tra
profitto e salari, se coincide col saggio di plusvalore, sarebbe una misura dell’intensità
dello sfruttamento.
Due osservazioni sono degne di nota. La prima è che, siccome
i valori-lavoro non sono altro che le quantità di lavoro impiegate per produrre
le merci, per determinarli è sufficiente conoscere la tecnica produttiva in
uso, cioè i coefficienti di lavoro vivo e morto impiegati nella produzione; non
è necessario conoscere la distribuzione del reddito, la grandezza del profitto,
del salario e del saggio di sfruttamento. La seconda è che la produttività
del lavoro misurata in valori-lavoro, cioè il rapporto tra il valore del
prodotto netto e il livello dell’occupazione, è uguale a 1.
[1] Riservandomi ogni
responsabilità per eventuali errori, desidero ringraziare Fabio Petri per le
critiche e i commenti che ha voluto fare a una precedente stesura di questo
saggio.