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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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L’arte del fare confusione

Guglielmo Carchedi

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Ritorniamo ora ad Arthur. Le sue nozioni di lavoro astratto e sfruttamento sono molto simili a quelle di Napoleoni. Come egli dice: “la mia posizione è molto diversa da quella della tradizione ortodossa secondo la quale il lavoro crea qualcosa di positivo, cioè il valore, ed è poi espropriato””. Piuttosto è il capitale che produce valore e “può produrre valore soltanto vincendo la lotta di classe nella sfera della produzione”, vincendo la recalcitranza dei lavoratori contro gli sforzi del capitale a costringerli a lavorare” (2001, pp.30-31). Che tipo di lavoro è questo ‘sforzo’? Non può essere lavoro concreto. I lavori concreti sono differenti per definizione e quindi possono essere scambiati tra loro in certe proporzioni solo se hanno qualcosa in comune, qualcosa che li rende confrontabili. Arthur rileva questo punto nella sua critica di Braverman: “La distinzione tra lavoro astratto e concreto non può essere obliterata” (2001, p.22). Allora, deve essere lavoro astratto. Tuttavia la nozione di Arthur di lavoro astratto non è quella di Marx, cioè “la spesa di cervello umano, nervi e muscoli” (Marx, 1967, p.44) indipendentemente dalle attività concrete svolte (i lavori concreti). Piuttosto, per Arthur, il lavoro è astratto “in virtù della sua partecipazione nel processo di valorizzazione capitalistico” (2001, p.23) cioè perché i lavori concreti sono ugualmente sfruttati “indipendentemente dalle loro specificità concrete” (p.20). Allora, il lavoro che produce valore, e quindi il tempo di lavoro che conta per la misurazione del valore è, secondo Arthur, il (tempo di) lavoro durante il quale i capitalisti obbligano i lavoratori a lavorare, cioè il (tempo di) lavoro durante il quale i capitalisti svolgono quella che Marx chiama la funzione del capitale. Infatti, “la grandezza del valore è determinata dal tempo di sfruttamento socialmente necessario” (Arthur, 1999, p. 160, traduzione mia, G.C.). Secondo me, questa tesi è ancora più distante di quella precedente da quella di Marx. Ma questo saggio non si concentra sulla fedeltà o meno a Marx. Quello che vuole mettere a fuoco è la coerenza logica.

Incominciamo con il concetto di valore. Per Arthur, sono i lavoratori che sono forzati a lavorare e tuttavia sono i capitalisti che sono i produttori di valore. Il suo ragionamento è il seguente: “Siccome tutti... contribuiscono individualmente al processo di produzione, il tutto non è costituito come la loro forza produttiva ma come quella del capitale che li impiega. Questo significa che una merce non è prodotta individualmente. Inoltre, dato che il lavoratore collettivo è costituto sotto la direzione del capitale, non è neppure possibile sostenere che sia prodotta dal lavoratore collettivo. Sembra più ragionevole sostenere che sia il capitale, piuttosto che il lavoro, il produttore della merce” (2001, p.25). Ma se il capitale è il produttore, come mai ha bisogno dei lavoratori? La risposta è che ne ha bisogno per appropriarsi delle loro forze produttive. Ed è a causa di tale appropriazione che il capitale (piuttosto che il lavoro) è produttore di valore. In breve “il valore commensura il lavoro espropriato dal quale il capitale produce le merci” (2001, p.33). Si noti che qui si tratta della prima delle nozioni di sfruttamento di Arthur, lo sfruttamento nella produzione, che “nei suoi effetti non è dissimile dall’alienazione” (2001, p.33): i lavoratori sono sfruttati perché forzati a lavorare (e quindi sono espropriati delle loro forze produttive) e il capitale è sia lo sfruttatore (perché forza i lavoratori a lavorare) sia il produttore di valore, perché si appropria delle forze produttive del lavoro. Il secondo tipo di sfruttamento, nella distribuzione, sarà esaminato tra poco. Arthur cita alcuni passaggi come presunta evidenza testuale che corroborerebbe la sua tesi. La sua interpretazione di tali passaggi è vicina a quella di Napoleoni ed è soggetta alla stessa critica. Tale critica non verrà ripetuta qui. Piuttosto, consideriamo la logica dell’argomento.

Il lavoro astratto, come nota Arthur, è lo stesso per definizione, è una quantità omogenea, indipendentemente dalle attività specifiche svolte. Per Arthur, la caratteristica comune a tutti i lavori dei capitalisti è che forzano i lavoratori a lavorare e che così facendo si appropriano delle loro forze produttive. Qui incontriamo una prima incoerenza. Il lavoro dei capitalisti non è una quantità omogenea. Coloro che la pensano diversamente provino a prendere un ‘capetto’, il cui compito è quello di estrarre lavoro dai lavoratori alla catena di montaggio di una fabbrica d’automobili, e dargli la funzione di supervisore in un ufficio d’ingegneria o in una compagnia di danza. Si renderebbero immediatamente conto che il ‘lavoro’ dei capitalisti è tanto specifico, concreto, quanto il lavoro da esso sfruttato. Se il lavoro dei capitalisti è diverso per ogni tipo di lavoro assoggettato al suo dominio, non è omogeneo e quindi non può essere (creare) valore. La tesi che il lavoro dei capitalisti è la sostanza del valore non può essere sostenuta perché questo lavoro è lavoro concreto.

Ma non si potrebbe considerare il lavoro dei capitalisti come astratto, nel senso di Marx, come spesa di forza lavoro umano in astratto, indipendentemente dalle attività concrete? La risposta è negativa perché, se la nozione di lavoro astratto di Marx dovesse essere applicata al lavoro dei capitalisti, non vi sarebbe alcun motivo per non applicarla anche al lavoro dei lavoratori. E ciò segnerebbe la fine del progetto di Arthur. Oppure, si potrebbe tentare di salvare la nozione di valore di Arthur sostenendo che il valore in produzione è solo potenzialmente tale e che esso si realizza come valore solo attraverso lo scambio. Ma anche questa via è chiusa. Abbiamo visto che il lavoro dei capitalisti è lavoro concreto. Dato che il valore e i valori d’uso sono irriducibilmente e qualitativamente diversi (un punto evidenziato anche da Arthur), il valore non può essere presente nel valore d’uso della merce, nemmeno solo potenzialmente.

Mentre la prima critica riguarda la nozione di valore (di scambio), la seconda tratta del concetto di sfruttamento. La tesi di Arthur è che i lavoratori sono sfruttati nella produzione nel senso che sono forzati a lavorare e sono espropriati delle loro forze produttive. Siccome il lavoro è soggetto al dominio del capitale (è alienato) per l’intera giornata lavorativa, lo sfruttamento “comprende tutto il giorno lavorativo” (Arthur, 1999, p.160, traduzione mia, G.C.). Ma ciò implica che i tassi di sfruttamento sono sempre gli stessi, 100%, poiché lo sfruttamento “comprende tutto il giorno lavorativo”, indipendentemente dalla lunghezza di tale giornata. Ma allora il tasso di sfruttamento, essendo fisso e invariabile, non può più essere collegato alle fluttuazioni nei tassi di profitto e quindi a tali tassi. Quindi il tasso di sfruttamento e lo sfruttamento perdono la loro rilevanza per una teoria dell’accumulazione e dello sviluppo capitalistico al livello della produzione e in ultima istanza per capire le dinamiche del capitalismo.

Consideriamo ora lo sfruttamento nella distribuzione. Questo “sorge dalla discrepanza tra la nuova ricchezza creata e ciò che ritorna a coloro che sono sfruttati nella produzione” (2001, p.33). Mentre il capitale produce valore nella produzione attraverso lo sfruttamento del lavoro (sfruttamento qui significa estrazione di lavoro e quindi appropriazione delle sue forze produttive) cosicché è il lavoro che è sfruttato, al livello della distribuzione il capitale è privato dal lavoro di una parte del suo valore cosicché e il capitale che è sfruttato dal lavoro. [1] Questo è un concetto quantitativo. Ma vediamo quali sono le conseguenze teoriche.

Prima di tutto, il lavoro dei capitalisti, siccome può solo essere lavoro concreto, può solo creare valori d’uso. Allora, solo valori d’uso possono essere distribuiti. Questo suona le campane a morte per la teoria del valore lavoro. In secondo luogo, ammettiamo pure che il lavoro dei capitalisti sia lavoro astratto e che questo sia ciò che viene distribuito. Dato che la determinazione quantitativa del tasso di sfruttamento nella produzione non ha significato, non vi è nessun collegamento tra sfruttamento, e quindi profitti, nella produzione e nella distribuzione. Il valore distribuito emerge ‘spontaneamente’ nella distribuzione. La crescita capitalistica, le crisi, ecc. diventano variabili solo della distribuzione del valore. Se questa è la nuova teoria del valore lavoro, è un gran passo indietro rispetto a quella di Marx.

Per ultimo, lo sfruttamento nella distribuzione è logicamente incoerente. Per Arthur, i lavoratori sono sfruttati nella produzione perché sono costretti a lavorare e sono forzati a lavorare perché questo è il modo in cui il capitale può appropriarsi delle loro forze produttive. Il capitale è quindi produttivo di valore. Poi, al livello della distribuzione, i lavoratori si appropriano di una parte del valore prodotto dal capitale. Così facendo, sfruttano il capitale nella distribuzione. Ma ciò è illogico. Se i lavoratori sono stati espropriati dal capitale delle loro forze produttive nella produzione, quello che essi prendono al capitale nella distribuzione sono le loro forze produttive; semplicemente, essi si riprendono ciò che è stato tolto loro. La tesi che il capitale ha penetrato le forze produttive del lavoro trasformandole così a sua immagine e somiglianza non toglie nulla al fatto che quelle forze produttive appartengono al lavoro. Per porre la questione in termini meno astratti: supponiamo che ci vogliano 8 ore di lavoro del capitale per sfruttare 80 ore di lavoro dei lavoratori. Quello che il lavoro riceve nella distribuzione è una parte di quelle 80 ore, non di quelle 8 ore. La tesi che il lavoro riceve una parte ti quelle 8 ore come una parte di quelle 80 ore non cambierebbe le cose. In quelle 8 ore il capitale non ha veramente lavorato, ha forzato i lavoratori a lavorare. Per questo Marx chiama il lavoro dei capitalisti ‘non-lavoro’.

Si noti che la nozione di Arthur è inconsistente qualunque sia l’opzione che egli scelga. Se quelle 8 ore fossero la sostanza del valore, le merci avrebbero un valore contenuto già al livello della produzione e questo valore sarebbe quantificabile. Ma ciò è incoerente con la nozione di Arthur di lavoro astratto nella produzione, e non per nulla. La distribuzione di questo valore implicherebbe la sua trasformazione in prezzi (di produzione) mentre la negazione di questa trasformazione è la ragione di vita sia dell’approccio di Arthur che di quello della ‘forma valore’. D’altra parte, quelle 80 ore hanno il vantaggio di non essere lavoro astratto nella produzione, di non essere la sostanza del valore, e quindi non vi è nessuna necessità di trasformarle in prezzi. Quindi Arthur dovrebbe supporre che ciò che si realizza nella distribuzione sono quelle 80 ore. Ma ciò è contrario alla nozione di sfruttamento nella distribuzione. Se sono quelle 80 ore, le forze produttive del lavoro, che sono distribuite, sono i capitalisti che, nella distribuzione, si appropriano del valore (forze produttive) dei lavoratori piuttosto che, come nella teoria di Arthur, essere i lavoratori che riappropriano del valore prodotto dai capitalisti. Lo sfruttamento nella distribuzione è incoerente.

Per concludere, attraverso la sostituzione del concetto di valore di Marx (il lavoro astratto dei lavoratori) con la sua nozione di valore (il lavoro concreto dei capitalisti), Arthur propone una nozione di valore che è indifendibile. Ma anche se volessimo soprassedere a questa critica, avremmo una nozione di sfruttamento nella produzione che è irrilevante per un’analisi del capitalismo e una dello sfruttamento nella distribuzione che è logicamente incoerente. Ben venga il porre in risalto l’egemonia del capitale e la lotta di classe sia nella produzione che nella distribuzione, specialmente ai giorni nostri. La questione, tuttavia, è il punto di vista che uno prende. Il punto di vista del capitale, come testimonia un’enorme letteratura sulle tecniche manageriali, sostiene che il capitale (i managers) produce una parte del nuovo valore e che quindi ha diritto ad esso sotto forma di profitti. La ‘dialettica della negatività’ va oltre. Essa ascrive al capitale il ruolo del creatore di tutto il valore, una parte di cui è appropriata, considerate le relazioni di forza tra capitale e lavoro, dai lavoratori. Arthur potrebbe rispondere che “la differenza tra il mio punto di vista e qualsiasi apologia ‘Austriaca’ del capitale è che il capitale può certamente essere considerato come produttivo, però alla fin fine la sua capacità di produrre si riduce alla sua capacità di sfruttare!” (1999, p.161, traduzione mia, G.C.). Ma questa è solo la metà della storia: l’altra metà è che il capitale è sfruttato nella distribuzione. All’obiezione del lavoro riguardante il suo essere sfruttato dal capitale, il capitale può facilmente ribattere che esso è il produttore di valore e che anch’esso è sfruttato dal lavoro, nella distribuzione. Nonostante le sue buone intenzioni, la dialettica della negatività, e ciò sia detto senza ironia, rende un servizio al capitale migliore di quello reso dai suoi stessi ideologi. Regala il lascito più prezioso che Marx ci ha trasmesso, la capacità di vedere la realtà dalla prospettiva del lavoro, una prospettiva che è fondata su una coerente, e ancora insuperata, analisi economica del capitalismo.

Mi chiedo se tutto ciò sia stato afferrato da Bertinotti e Gianni che aderiscono a questo nuovo concetto di sfruttamento: “Arthur conclude dicendo che è necessario elaborare un nuovo concetto di sfruttamento, legato alla capacità del capitale di sottomettere ai propri voleri l’intera vita e l’intera giornata del lavoratore, non solo il pezzo di tempo di lavoro assolutamente necessario”. Attraverso questa conclusione, “la teoria del valore ha un suo pieno fondamento e anche una sua totale riattualizzazione” (Bertinotti e Gianni, 2000, p.138).


[1] “I profitti non esistono perché i salari non possono assorbire tutto il prodotto netto; piuttosto, i salari... esistono perché i profitti non possono assorbire tutto il prodotto netto’ (Napoleoni, 1991, p.236, traduzione mia, G.C.).