Secondo, fino a adesso abbiamo supposto che il momento finale
di un periodo è anche il momento iniziale del periodo seguente. Per esempio, t1
è sia il punto finale di t0-t1 che il punto iniziale di t1-t2. Ma,
naturalmente, è possibile che i mezzi di produzione (martello) prodotti nel
periodo t0-t1 da Bianchi siano venduti a t1 a Rossi ma rimangono inusati durante
t1-t2 e entrano la produzione di Rossi solo nel periodo successivi, t2-t3. In
tal caso, la procedura messa in risalto più sopra al fine di calcolare la
valutazione sociale delle ore di lavoro contenute in quei mezzi di produzione e
trasferite al prodotto a t1, si applica a t2, il momento in cui esse entrano nel
nuovo periodo di produzione. Questo è importante perché se, durante t1-t2,
quei mezzi di produzione sono stati deprezzati a causa di innovazioni
tecnologiche, il valore di quei mezzi di produzione che entrano a t2-t3 è
determinato a t2 ed è più basso di quello che essi avevano a t1. Anche qui vi
è stata una trasformazione quantitativa del valore degli input come input.
Anche qui, a t3, vi è una ridistribuzione del valore che gli input avevano a
t1, non a t2.
Un punto dovrebbe essere chiaro. L’uso della determinazione
simultanea (nella quale tutto è calcolato allo stesso tempo) è la procedura
usata dall’approccio simultaneista (sraffiano). Tuttavia, questo non è un
motivo per metter al bando la determinazione simultanea. La sua applicazione per
la determinazione dei prezzi delle merci ha senso ma solo per quelle merci che
sono comprate e vendute allo stesso tempo (tutti gli input a t1 o tutti gli
output a t2). Più precisamente, dato il periodo t1-t2, i prezzi di produzione
(valori trasformati) degli output di tutti i settori sono determinati
simultaneamente a t2. Anche i valori non trasformati degli input (valori d’uso
differenti dagli output) sono determinati simultaneamente ma a t1, dato che è
il valore trasformato di quelle stesse merci vendute a t1 come output del
periodo precedente, t0-t1. Non vi è quindi una determinazione simultanea degli
input e degli output dello stesso periodo e quindi degli input come se
fossero gli output dello stesso periodo. Piuttosto, vi sono due determinazioni
simultanee in tempi diversi: a t1, degli input di t1-t2, e a t2 degli output
dello stesso periodo. Di nuovo, non vi è alcuna ragione di supporre che i
prezzi debbano essere gli stessi. Di nuovo, non vi è alcun problema della
trasformazione.
Il nocciolo della questione è che non vi è nulla di
inerentemente sbagliato nell’usare la determinazione simultanea, nella misura
in cui essa si pone in una dimensione temporale. È l’approccio temporale che
dà significato alla determinazione simultanea. Una volta fatto questo, non vi
è una sola determinazione simultanea del prezzo sia degli input che degli
output dello stesso periodo (in qual caso vi sarebbe un problema della
trasformazione). Piuttosto, vi sono due determinazioni simultanee, una per gli
input a t1, e una per gli output a t2. [1]
Nelle pagine precedenti, una questione ha giocato un ruolo
implicito. È ora di porla esplicitamente: com’è possibile che l’economia
ortodossa cancelli il tempo e com’è possibile che questo grossolano errore
logico continui ad essere ripetuto ogni volta? Si potrebbe sostenere che molti
economisti, avendo studiato (solo) l’economia ortodossa, hanno interessi
particolari e una chiara percezione dei vantaggi personali che risultano dalla
loro posizione teorica. Questo è certamente il caso. Si potrebbe altresì
sostenere che molti economisti credono sinceramente che la procedura di Marx
della trasformazione, e più generalmente le sue categorie analitiche
fondamentali, sono - come abbiamo visto, per diverse ragioni - logicamente
insufficienti o inadatte a spiegare il mondo odierno. Anche questo è certamente
vero. Quello che si mette in dubbio non è la loro sincerità, solo il loro
metodo di analisi e i loro risultati. Ma, indipendentemente dalle motivazioni
personali, una spiegazione di un fenomeno sociale necessita cause sociali.
Quindi, le ragioni della forza di un’ideologia devono essere cercate nel suo
contenuto ideologico, di classe. Questo vale anche nel caso dell’economia
simultaneista. La tesi che propongo è che il simultaneismo è funzionale alla
teorizzazione di un’economia capitalistica nella quale lo sfruttamento non
esiste e che è in uno stato di equilibrio, o tende verso di esso (cioè senza
crisi). Soffermiamoci un minuto su questa questione d’importanza cruciale.
Incominciamo con l’equilibrio.
Come visto, nel simultaneismo il prezzo degli input di un
certo periodo di produzione sono determinati simultaneamente al prezzo degli
output dello stesso periodo. Quindi il tempo è cancellato. Ma se questo è
vero, le variazioni dei prezzi tra l’inizio e la fine di quel periodo
diventano impossibili. Lo stesso vale per le fluttuazioni nella produzione di
valore. Quindi diventa impossibile teorizzare le crisi. [2] Il simultaneismo apre la porta ad un’analisi del
mondo costituzionalmente libero da crisi e contraddizioni e quindi in equilibrio
(o tendente verso esso). I teorici dell’equilibrio non negano che vi siano
crisi ma si suppone che esse siano una deviazione dal sentiero dell’equilibrio,
non si suppone che siano inerenti alla natura del sistema. In questo caso, la
teorizzazione più appropriata del capitalismo dovrebbe concentrasi su questo
stato di grazia, tendenzialmente libero da crisi. Più importante di tutto, essi
sostengono che il pieno impiego è possibile. Da quest’angolo, comunemente
accettato anche da molti marxisti, i prezzi di produzione sono prezzi d’equilibrio.
[3]
L’ovvia osservazione empirica che le crisi sono endemiche
non turba i teorici dell’equilibrio. Essi sostengono che il pieno impiego è
stato raggiunto in periodi di crescita vigorosa in alcune nazioni. Se questo è
stato così, essi sostengono, il pieno impiego e quindi l’equilibrio devono
essere possibili. Ma questa è una favola per almeno tre ragioni. Primo, il
pieno impiego non è mai esistito nel capitalismo. È risaputo che le
statistiche sulla (dis)occupazione sono basate su certe nozioni e definizioni
che (a) considerano un certo livello di disoccupazione come ‘naturale’ e (b)
nasconderebbe la disoccupazione anche se, secondo tali definizioni, fosse zero.
Secondo, anche se volessimo credere alle statistiche, esse dimostrerebbero che
il pieno impiego è al massimo congiunturale, non permanente. E terzo, anche se
volessimo accettare la possibilità del pieno impiego e di estenderlo
indefinitamente attraverso ‘corrette’ politiche anti-congiunturali, s’ignorerebbe
il semplice fatto che ad una situazione di pieno impiego in alcuni paesi
corrisponderebbe una situazione di disoccupazione in altri paesi, sia nel centro
imperialista sia (e soprattutto) nei paesi dominati. [4]
Se si abbandona il simultaneismo, si abbandona anche l’equilibrio
e quindi la via è sgombra per una teorizzazione delle crisi come inerenti al
capitalismo. E in effetti, la tendenza nel capitalismo (se si astrae dalle
contro-tendenze) è verso le crisi. È semplicemente impossibile che il sistema
possa tendere verso crisi, instabilità, disoccupazione, ecc. e allo stesso
tempo tendere verso uno stato di stasi, d’equilibrio. Ma se il sistema tende
verso le crisi, l’equilibrio può essere al massimo un evento fortuito senza
valore teorico. Conseguentemente, i prezzi di produzione non sono prezzi d’equilibrio.
[5]
Secondo, come sottolineato da Kliman (2001), il simultaneismo
disconosce implicitamente che le grandezze in valore siano determinate dalle
grandezze in lavoro e quindi che il lavoro sia la sostanza del valore. Infatti,
se i prezzi degli input di un periodo sono uguali a quelli degli output dello
stesso periodo, i prezzi sono per definizione costanti. Ma se i prezzi sono per
definizione costanti, non importa se, nel periodo t1-t2, io aggiungo un’ora o
cento ore di lavoro. I prezzi degli output rimangono comunque uguali a quelli
degli input. O, i valori delle merci non sono determinati dalla quantità di
lavoro usata per la loro produzione. Il lavoro come sostanza del valore, e
quindi il valore, diventano ridondanti. Ma se il valore è ridondante, così è
il plusvalore e con esso lo sfruttamento. Non c’è male come conclusione, per
il capitale.
A questo punto, i fisicalisti (coloro che teorizzano l’economia
in termini di oggetti fisici, cioè valori d’uso) obiettano che lo
sfruttamento potrebbe in ogni caso essere calcolato in termini di valori d’uso.
Per esempio, dato che in 8 ore i lavoratori producono 10 pagnotte di pane, se 5
vanno ai capitalisti, il tasso di plusvalore (di sfruttamento) è s/v = 5/5 =
100%. Tuttavia, nel settore dei beni di produzione e in quello dei beni di lusso
tutto il prodotto va ai capitalisti. Quindi, se consideriamo un bene in
uno di questi due settori, il tasso di sfruttamento è infinito! E, dato che il
tasso di profitto dipende dal tasso di sfruttamento, anche il tasso di profitto,
se potesse essere calcolato per più di un bene, o addirittura per tutta l’economia,
sarebbe infinito. Ma tale calcolo è precluso. Supponiamo che i lavoratori,
oltre a produrre 8 pagnotte di pane in 10 ore, producano anche 10 computer di
cui 8 vanno ai capitalisti. Nel settore dei computer il tasso di sfruttamento è
8/2 = 400%. Qual’è allora il tasso di sfruttamento per il settore dei beni
salariali? È una media? È (5 pagnotte + 8 computer)/(5 pagnotte + 2 computer)
uguale a (13/7) = 185%? Che senso economico ha una media di merci
qualitativamente diverse? E se non è una media di valori d’uso, di che cosa
è una media, dato che il lavoro astratto è escluso? Un tasso di sfruttamento
calcolato in termini fisici è possibile solo alle condizioni più restrittive,
cioè solo se una sola merce è considerata nel solo settore dei beni salariali.
Si noti che questo non può essere considerato come un primo passo verso un
modello più completo. Nel momento in cui si considerano due o più merci nel
settore dei beni salariali o anche una sola merce nei settori dei beni capitali
o di lusso, il modello implode.
Non rimane che un ultimo rifugio che sfortunatamente è
accettato anche da alcuni marxisti, e cioè il calcolo del tasso di sfruttamento
semplicemente in termini monetari. Ma la moneta non può comprare nulla senza
essere, per definizione, la misura del suo valore. Se compra valori d’uso,
deve essere la misura del valore di quei valori d’uso. Ma il denaro può
misurare il valore di un paio di forbici e confrontarlo con quello di un
computer solo se queste due merci hanno qualcosa in comune. Questo non può che
essere il lavoro astratto. Uno potrebbe proporre che il denaro stesso è sia
valore che la misura del valore. Ciò è insostenibile. Infatti, se il denaro è
la misura di null’altro che di se stesso, perché un’automobile dovrebbe
costare dieci volte più di un computer (si veda la sezione 6 per maggiori
dettagli)? Questa posizione preclude una teoria dei prezzi. Naturalmente, un’economista
neo-classico ricorrerebbe immediatamente alla domanda. Ma questo non è di
conforto, dato che una teoria dei prezzi basata sulla domanda e offerta è (a)
empiricamente indeterminata (b) teoreticamente invalida (c) non verificabile e
(d) carica di contenuto ideologico (si veda Carchedi, 2001a per una critica
dettagliata). Per i nostri fini sarà sufficiente dimostrare la invalidità
della teoria, cioè il punto (b). Farò riferimento solo alla teoria dell’equilibrio
parziale. La critica vale, mutatis mutandi, anche per la teoria dell’equilibrio
generale.
Per trovare il prezzo di equilibrio, la teoria dell’equilibrio
parziale trova il punto di intersezione delle curve della domanda e dell’offerta.
Al fine di tracciare la curva della domanda, questa teoria prima presuppone
tutti i possibili prezzi corrispondenti a tutte le possibili quantità
domandate, compreso il prezzo di equilibrio e la quantità che si vuole
trovare. Poi, ripete la stessa procedura per la curva dell’offerta. Infine
procede a ‘determinare’ il prezzo di equilibrio (e la quantità) nel punto
in cui la curva della domanda interseca la curva dell’offerta. Ma le curve
della domanda e dell’offerta sono tracciate sulla base di certe combinazioni
di prezzi e quantità e quindi sono solo una riaffermazione grafica di quelle
combinazioni. Questi prezzi e quantità sono presupposti e quindi lo è
anche il prezzo di equilibrio. Al massimo, le due curve potrebbero selezionarlo
tra molti altri, non lo determinano, cioè non spiegano la sua
formazione. Se lo scopo è di spiegare la formazione del prezzo e della
quantità di equilibrio, la teoria è circolare perché quel prezzo e quella
quantità sono già stati postulati come una di tutte le possibili combinazioni
di prezzi e quantità.
Per vedere questo, consideriamo un’automobile ed un
computer. La prima costa, diciamo, dieci volte in più del secondo. Perché?
Perché i compratori dovrebbero voler pagare, costantemente e non per caso,
dieci volte di più per un’automobile che per un computer? Non servirebbe
proporre che gli input dell’automobile costano di più di quelli del computer
e che il prezzo di tali input è il prezzo di equilibrio che è dato dalle
rispettive curve della domanda e offerta. Ma perché i componenti dell’automobile
costano di più di quelli del computer? Una risposta in termini di domanda e
offerta sfugge alla circolarità in questo periodo ma la ricrea nel periodo
precedente e neppure una determinazione simultanea può dare una risposta.
Ma questa teoria non solo non può spiegare (determinare) le
quantità e i prezzi di equilibrio, non può nemmeno spiegare la loro selezione.
La forma discendente verso il basso della curva della domanda (che indica che
quando i prezzi aumentano la domanda diminuisce e quando i prezzi diminuiscono
la domanda aumenta) può essere tracciata sulla base di una ipotesi specifica.
Questa è che, nel determinare la relazione tra il prezzo e la quantità
domandata di un certo bene, per esempio un’automobile, si suppone che tutti
gli altri fattori che influenzano quel prezzo e quella quantità (includendo i
prezzi e le quantità domandate di altri beni e il reddito disponibile dei
consumatori) non cambino. In altre parole, la forma della curva della domanda
dipende dalla condizione del ceteris paribus, che verrà abbreviata come CCP.
Infatti, se agli altri fattori fosse permesso di influenzare il prezzo e la
quantità domandata, la relazione tra prezzo e quantità domandata di quel bene
diventerebbe indeterminata. La CCP è necessaria. Tuttavia la CCP è
insostenibile in questo caso.
[1] Talvolta si asserisce che l’unica
differenza tra un approccio simultaneista e uno temporale è che il secondo pone
indici di tempo in diverse serie di equazioni simultanee. Ciò non colpisce nel
segno. Si può dare un certo indice di tempo ad una serie di equazioni
simultanee e tuttavia si può ritenere l’assurda nozione che gli output e gli
input di quel periodo sono gli stessi cosicché i loro prezzi dovrebbero essere
gli stessi (cioè determinati dalla stessa serie di equazioni simultanee).
[2] Non è un caso che
nell’economia ‘ufficiale’ le crisi siano causate da errori umani. Ma
nessuno sa perché gli stessi errori continuino ad essere ripetuti ogni volta di
nuovo. Il keynesismo crede che tutti i risparmi possano essere investiti. Se
ciò non succede, una politica economica volta a stimolare gli investimenti può
raggiungere il pieno impiego. Bellofiore (2000b) è d’accordo (dal suo punto
di vista) e propone una politica economica sulla base di questa possibilità. Io
critico questa posizione in Carchedi, 2000c. Screpanti (2000) reagisce alla mia
critica e sostiene che la nozione di ‘disoccupazione naturale’ è aliena al
keynesismo. Questo rende la sua posizione ancor più insostenibile perché
implica la tesi che sia possibile raggiungere un tasso di disoccupazione
veramente uguale a zero.
[3] L’articolo di Wolff, Callari e Roberts (1982) è uno dei pochi lavori che
sostiene che (1) “ciò che Marx cerca non è una soluzione di equilibrio”
(p.573), che (2) la nozione di tempo di lavoro socialmente necessario è “prima
scelta (primo Volume) e poi superata (terzo Volume) a seconda dei requisiti dell’esposizione
di Marx della sua teoria” (p.572, traduzione mia, G.C.), che (3) il tempo di
lavoro socialmente necessario incorporato nei mezzi di produzione è il tempo di
lavoro necessario per riprodurli (p.574), e che (4) il valore dei mezzi di
produzione che entrano nel valore del prodotto è il loro prezzo di produzione,
il loro valore trasformato (p.574). Inoltre, quest’articolo sfida la critica
della circolarità sul terreno metodologico. In questo senso, tale lavoro è
vicino all’approccio qui presentato. Tuttavia, la loro contro-critica e
approccio si basano sulla nozione althusseriana di sopradeterminazione che non
assegna alla produzione alcun stato teorico privilegiato: “le categorie dello
scambio in qualche forma sono inizialmente necessarie per sviluppare le
relazioni di produzione capitalistiche, ma le categorie di scambio capitalistiche
dipendono dallo sviluppo precedente di quelle relazioni di classe” (p.569,
traduzione mia, G.C.). Ora, vi è un’ampia evidenza teorica e testuale che per
Marx il valore contenuto nelle merci (attraverso la produzione) determina il
valore da loro appropriato (attraverso la distribuzione). Citiamone una sola:
“Il profitto dei capitalisti come classe, o il profitto del capitale
come tale, deve esistere prima che possa essere distribuito, ed è estremamente
assurdo cercare di ricercare le sue origini nella distribuzione” (Marx, 1973,
p.684, traduzione mia, G.C.). Ma, a parte ciò, la determinazione reciproca
della produzione e dello scambio sfugge alla circolarità solo se uno aderisce
ad una dimensione temporale. Mentre non vi è nulla nel loro lavoro che agisca
contro un approccio temporale (eccetto il punto 3), questi Autori non riescono a
rendere esplicito questo punto fondamentale. Senza un approccio temporale la
loro nozione di sopradeterminazione cade in un ragionamento circolare.
Anche Moseley si oppone alla interpretazione (incorretta)
della procedura della trasformazione di Marx su un terreno metodologico (1993).
Per Moseley, le “quantità di capitale costante e variabile non devono essere
trasformate da termini in valore in termini in prezzi: invece, esse sono già
in termini di prezzi perché sono date in termini di prezzi. La transizione
da Volume I a Volume III non è una transizione da valori-lavoro a prezzi; è
una transizione da prezzi aggregati a prezzi individuali... una tale
trasformazione non esiste” (p.176, enfasi nell’originale, traduzione
mia, G.C.). Ma anche questo approccio non coglie la temporalità e quindi non
solo non può ribattere alla critica della circolarità; in effetti corre il
rischio di cadere in un ragionamento circolare perché non riesce a distinguere
tra i mezzi di produzione come input e come output. L’annotazione di Moseley
che “Carchedi è stato uno dei primi... a sottolineare... che il capitale
costante e variabile nella teoria di Marx sono dati in termini di denaro”
(p.182, traduzione mia, G.C.), non coglie l’essenzialità della mia
contro-critica. Tuttavia egli aveva ragione nell’indicare che “per quanto ne
sappia io, nessun Autore neo-ricardiano ha ribattuto gli argomenti di Carchedi”
(p.182, traduzione mia, G.C.). Questa è ancora la situazione nove anni dopo.
[4] Come ho già
sottolineato, questa posizione non nega l’utilità di una lotta per le
riforme, compresa una lotta per il massimo (non pieno) impiego, date le
relazioni di forza tra le classi in ogni dato momento. È la prospettiva che
cambia. Questo potrebbe sembrare irrilevante. E tuttavia è questo cambiamento
che traccia un solco tra una teoria e pratica funzionale alla riproduzione del
capitalismo e una teoria e pratica funzionale al suo superamento.
[5] Per la stessa ragione la tendenza dei tassi di sfruttamento verso una
perequazione non implica un movimento verso l’equilibrio, contrariamente alla
nota 7 in Laibman (2001).