I diversi modelli del capitalismo internazionale si confrontano sulle strategie di privatizzazione
Rita Martufi
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4. Le diverse vie nazionali alle privatizzazioni
GRAN BRETAGNA
La Gran Bretagna è stato il primo paese europeo ad attuare
una campagna di privatizzazioni che non ha eguali nell’occidente. L’inserimento
nel programma di governo delle dismissioni di imprese pubbliche ha avuto come
obiettivo principale la volontà di riorganizzare l’intero tessuto economico
e produttivo britannico, operando nel contempo una forte svolta di natura politico-sociale.
Le operazioni effettuate sono state diverse e di varia entità;
oltre alla vendita vera e propria di imprese pubbliche sono stati predisposti
vari incentivi fiscali e finanziari per i privati fino a giungere ad un programma
di deregolamentazione di alcuni servizi pubblici di interesse collettivo. [1]
Il programma di nazionalizzazione avviatosi in Gran
Bretagna con le public corporation [2] (si tratta di enti pubblici con personalità giuridica autonoma)
negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ha interessato vasti settori
dell’economia (ferrovie, trasporti, elettricità, ecc.); lo scopo era in sostanza
quello di garantire una serie di obiettivi sociali attraverso la gestione pubblica.
L’elevato numero di imprese pubbliche (erano quasi cinquanta) impiegava quasi
il 9% della forza lavoro, riguardava oltre l’11% del PIL e concorreva agli investimenti
per oltre il 16%. Se si confrontano i dati relativi agli anni 1962-1979 si nota
subito però come questi valori siano andati diminuendo nel corso degli anni,
evidenziando una inziale inversione di rotta nelle sclete di politica economica
(Cfr. Graf.10).
Le
difficoltà incontrate nel corso degli anni dalle imprese pubbliche e soprattutto
la ridefinizione del modello di capitalismo anglosassone, hanno portato nel
1980 ad una inversione di tendenza. Il programma di nazionalizzazione attuato
dai governi laburisti è stato criticato dai conservatori che hanno sostenuto
l’importanza di diminuire notevolmente il settore pubblico industriale a favore
di un aumento dell’imprenditoria privata. Con la vittoria dei conservatori del
1979 si è attuato così negli anni ’80 uno dei più estesi processi di privatizzazione
d’Europa.
Tra il 1979 e il 1983 sono state messe in vendita circa 600.000
abitazioni di edilizia popolare e diverse imprese pubbliche (basta ricordare
la British Aerospace nel 1981, l’Amersham International nel 1982, la British
Transport Hotel nel 1983, ecc.); il ricavo derivante dalla vendita del capitale
azionario è stato di circa 500 milioni di sterline, per un’entrata complessiva
derivante dalle dismissione pubbliche di oltre 2 miliardi di sterline. Va rilevato,
però, che in questo periodo sono state vendute imprese di piccola e media dimensione
e non si era ancora colpito il grande monopolio.
Il vero e proprio programma di privatizzazione sostanziale
si è attuato dopo il 1983 (con la rielezione del Primo Ministro Thatcher); nel
1984 infatti sono state privatizzate diverse imprese operanti in regime di monopolio:
il 50% della British Telecom, operante nel settore delle telecomunicazioni (la
cui vendita ha fruttato oltre 3.900 milioni di sterline); la Enterprice Oil;
la Jaguar; nel 1986 la British Gas (la vendita ha fruttato circa 5.400 milioni
di sterline); nel 1987 la British Airways e la Rolls-Roice.
Nelle intenzioni del governo Thatcher questo programma aveva
come obiettivo principale di infondere un forte impulso alla concorrenza, ritenuta
indispensabile per il miglioramento della qualità dei beni e dei servizi, per
la riduzione dei prezzi, per la restituzione ai consumatori di quella libertà
di scelta che le aziende pubbliche avevano limitato. Oltre alla liberalizzazione
del sistema economico vi era poi la volontà di ottenere una più elevata efficienza
tecnica ed allocativa delle imprese, di incrementare le entrate dello Stato
e di ridurre il fabbisogno del settore pubblico.
Ma il principale obiettivo del programma di privatizzazione
era rappresentato dalla ferma volontà di promuovere un’apparente forma di
capitalismo popolare e determinare un allargamento della base azionaria
attraverso l’azionariato diffuso. A questo fine sono stati realizzati diversi
tipi di incentivi quali agevolazioni fiscali, i bonus e i vouchers, la distribuzione
gratuita di azioni ai lavoratori, ecc.
Va rilevato comunque che attraverso le privatizzazioni si è
tentato di indebolire il potere dei sindacati che hanno assunto nella maggior
parte die casi un atteggiamento contrario al programma. Lo slogan “Public:
it’s yours; Private, it’s theirs” è diventato un punto fermo di opposizione
al governo conservatore che è stato accusato di aver svenduto il patrimonio
pubblico a cifre irrisorie e molto al di sotto del reale valore delle imprese
dismesse.
A queste feroci critiche si è aggiunta anche l’autorevole voce
dell’editorialista dell’Economist che in un articolo del 22 Novembre 1986 ha
scritto che il programma di privatizzazioni del governo Thatcher sembrava “...theft
disguised as generosity”. [3]
E’ vero comunque che nel momento in cui alcuni sindacati di
categoria (ad es. il National Union of Ralway Men o del National Freight Corporation)
diventano azionisti di alcune aziende dismesse, il loro atteggiamento cambia
notevolmente ed adottano delle condotte molto diverse rispetto alle politiche
conflittuali che il sindacalismo tradizionalmente dovrebbe tenere. In effetti
questi sindacati diventano parte integrante di quel modello consociativo tanto
caro alle recenti politiche neoliberiste.
Le privatizzazioni della Gran Bretagna hanno in sostanza rappresentato
una “prova generale” (Cfr. Graf. 11) per le successive operazioni di
vendita effettuate negli anni ’90, non solo in Europa ma che stanno interessando
il riassetto del capitalismo nella scena internazionale.
Vincent Wright sostiene che le ragioni delle privatizzazioni
possono essere ricondotte a cinque: “ideological, economic, managerial,political
and financial”. Per quanto riguarda il motivo ideologico è chiaro che il
governo conservatore della Thatcher abbia inteso ridurre la presenza dello Stato
nel sistema produttivo inglese in quanto ritenuto dannoso per il mercato; il
motivo economico si può ricondurre alla volontà di restituire efficienza all’economia
soprattutto in quei settori dove era più presente l’azienda pubblica. I motivi
manageriali sono da ricondurre all’intenzione di restituire ai managers delle
imprese private una piena responsabilità delle scelte della gestione e un completo
potere decisionale (in un contesto quindi di autonomia gestionale), scegliendo
definitivamente il modello d’impresa manageriale.
Infine fra i motivi di opportunità politica e finanziaria:
“Non può ... sottovalutarsi né la volontà dei conservatori di erodere i tradizionali
baluardi del potere laburista /public housing estates, ad esempio), né il risultato
di ricapitalizzazione della finanza pubblica ottenuto con il guadagno di ingenti
somme e con la cessione di imprese i cui deficit avevano largamente gravato
sui bilanci statali”. [4]
Nel 1987 il crollo della Borsa valori ha fatto si che il processo
di privatizzazioni si sia rallentato notevolmente negli anni seguenti (dal 1987
al 1992) anche se vi sono state importanti vendite nei settori dell’automobile
, dell’acciaio, dell’acqua e della telefonia (nel 1992 si è conclusa la vendita
della British Telecom). (Si veda in proposito la Tab.9).
Le imprese dell’area anglosassone, inoltre, sottoposte alla
concorrenza di quelle giapponesi e asiatiche in genere, per non essere escluse
dal mercato, hanno dovuto abbandonare il loro comportamento caratterizzato dalla
“pigrizia” nella ricerca di una migliore redditività di lungo periodo e di conseguenza
a migliorare competitività strategica.
Va ricordato inoltre il ruolo svolto dagli investitori istituzionali
detentori di quote elevate del capitale; questi azionisti riescono a vincolare
ed orientare le strategie dell’impresa in quanto: “I proprietari istituzionali
hanno la capacità di applicare il loro potere al mercato , comprando o vendendo
titoli. Inoltre possono influenzare la società con altri mezzi, quali campagne
di pressione rivolte a specifici problemi, e tentativi diretti di controllare
il processo di decisione interna, magari in accordo con membri del consiglio
di amministrazione”. [5]
Ed è proprio la presenza sempre più diffusa degli investitori
istituzionali, rispetto ai privati, che, causando un crescente conflitto tra
azionisti e managers, sta portando al lento declino di questo tipo d’impresa.
Le Public Companies sono ancora efficienti e produttive in
campi quali l’elettronica, i settori farmaceutici, i settori dei computers,
soprattutto perché in questo tipo di imprese aiutano e favoriscono opportunità
di investimenti che non potrebbero essere sopportati dal solo flusso di cassa
interno; invece nei settori della chimica, dell’acciaio, del legno ecc., caratterizzati
da una crescita minima a lungo termine, questo tipo di impresa non è più utile
come negli anni passati.
Va rilevato, pertanto, che questa forme di azionariato popolare
sono, a nostro avviso, poco “spendibili” in una forma di capitalismo come quello
inglese, americano caratterizzato da un liberismo selvaggio, nel quale l’uomo
è considerato solo un mezzo all’interno delle amorali logiche di mercato. In
questo tipo di società, di modello capitalistico, questo sistema di programmazione
dell’azionariato popolare è stato gestito in modo tale da escludere del tutto
i lavoratori dalla gestione decisionale dell’impresa, portando ad un aumento
eccessivo del potere dei vertici aziendali, i quali, con la copertura di una
sorta di “capitalismo dal volto umano”, hanno continuato indisturbati ad appropriarsi
degli aumenti del profitto, senza redistribuirlo in modo più equo tra i diversi
soggetti economici dell’azienda e senza che il processo distributivo abbia concorso
ad una maggiore stabilità in termini economico-sociali [6].
Un elemento di distinzione del processo di privatizzazione
della Gran Bretagna rispetto agli altri Stati si può ravvisare soprattutto nel
massiccio passaggio da aziende nazionalizzate (public corporation) ad imprese
aperte al mercato finanziario per quel che concerne il capitale. Sono stati
però introdotti dei vincoli sulla proprietà: ad esempio gli stranieri possono
detenere fino ad un massimo del 25% delle azioni, mentre l’azionista singolo
in genere può partecipare per una quota che va dal 5 ad un massimo del 15%.
Vi è poi da ricordare l’introduzione della golden share [7] (azione d’oro) la
quale, pur rappresentando una partecipazione simbolica per quanto riguarda l’entità,
costituisce un aspetto molto importante all’interno delle imprese poiché consente
allo Stato di conservare un potere decisivo nelle scelte strategiche delle aziende
(in imprese come la British Oil, la Jaguar, la British Telecom lo Stato ha mantenuto
la golden share). Il governo britannico ha utilizzato strumentalmente ad uso
politico la golden share nel processo di privatizzazione, in modo da poter in
apparenza dimostrare un connotato ancora sociale del suo operare. Infatti le
fonti governative hanno posto l’obiettivo di mantenimento della golden share
dimostrandolo utile soprattutto per mantenere inalterate quelle finalità sociali
fondamentali nelle attività e nei servizi collettivi (il governo ha persino
parlato di protezione dei consumatori e di finalità volte al raggiungimento
dell’efficienza in settori strategici quali la telecomunicazione, l’energia,
il gas ecc.
Va anche ricordato che spesso l’utilizzo della golden share
è stato giustificato dalla necessità di proteggere gli interessi nazionali nei
confronti di investitori stranieri, o ancora dall’esigenza di limitare il monopolio
privato nel caso in cui le imprese privatizzate operavano in condizioni di monopolio
pubblico.
Il programma di privatizzazione britannico, iniziato con l’obiettivo
di mirare alla realizzazione di un liberismo sfrenato, voluto dal governo Thatcher,
è stato giustificato con false motivazioni sociali, quali quelle di sviluppare
l’azionariato diffuso popolare e di consentire ai piccoli risparmiatori, ai
lavoratori di aumentare la loro partecipazione azionaria, realizzando così solo
apparenti forme di democrazia economica.
I risultati raggiunti con il processo di privatizzazione non
sono stati quelli attesi; le misure che il governo ha adottato per liberalizzare
il sistema economico non sono state sufficienti a realizzare la concorrenza
all’interno del mercato; le privatizzazioni hanno portato quasi sempre ad
una sostituzione del monopolio pubblico con una sorta di monopolio privato
(basta guardare il caso della British Telecom: il monopolio si è trasformato
in duopolio con l’intervento della Mercury, la quale peraltro si occupa di aree
e settori commerciali diversi da quelli coperti dalla British).
Il caso della British Telecom è emblematico anche per un altro
aspetto: pur essendo infatti cresciuta la percentuale dei profitti ( si è arrivati
anche a valori vicini al 40%) si è avuta però una diminuzione degli occupati
(2000 lavoratori in meno) e una crescente insoddisfazione da parte dei consumatori.
Va ricordato anche che, pur essendo state sottoscritte azioni da 2,1 milioni
di investitori privati (promozione dell’azionariato popolare), un numero elevato
di piccoli risparmiatori ha rivenduto in tempi brevissimi la propria partecipazione
all’impresa privatizzata (solo nei primi dieci giorni seguenti l’emissione delle
azioni British Telecom sono state rivendute 400mila azioni).
Va anche ricordato che la maggior parte delle imprese pubbliche
appartenenti al settore industriale è stato ceduto attraverso la tecnica della
privatizzazione sostanziale; altri servizi invece, quali i trasporti e le
varie utenze pubbliche, sono stati dismessi soprattutto con le tecniche di privatizzazione
funzionale e gestionale. Un dato merita ancora di essere ricordato: il Regno
Unito è diventato, dopo il processo di privatizzazione, la parte dell’Europa
occidentale con la minore incidenza del settore pubblico (Cfr.Graff.12 e
13).
Il caso britannico è comunque emblematico poiché :
“ In sintesi:
a) si è visto che l’inclusione dei proventi di privatizzazione
nel saldo di bilancio è una operazione contabile giustificabile solo in relazione
a previsioni di cassa a breve. Le stese previsioni di cassa a medio-lungo termine
richiedono aggiustamenti in relazione alla possibilità di minori entrate future.
Inoltre, sotto il profilo della valutazione del patrimonio netto dello Stato
la prassi anzidetta è erronea o quanto meno ingannatrice, poiché trascura di
valorizzare adeguatamente la diminuzione di attività reali connessa alla privatizzazione.
Studi recenti, ancora di carattere esplorativo, suggeriscono che, nel caso britannico,
a fronte di proventi netti positivi da privatizzazione, il patrimonio pubblico
può diminuire;
b) effetti patrimoniali sfavorevoli sono tanto più probabili
quanto più il governo concede premi al compratore sul prezzo di vendita di beni
capitali......;
c)
il caso britannico suggerisce che privatizzazioni su larga scala, in presenza
di consistenti premi per i compratori iniziali, possono avere effetti di disturbo
sul tasso di risparmio delle famiglie e sugli investimenti reali del settore
privato, non compensati da investimenti pubblici e nelle imprese privatizzate.
Il declino della domanda di investimenti e l’aumento di consumi privati, in
mancanza di politiche fiscali di accompagnamento e in presenza di strozzature
dell’offerta, possono favorire tensioni inflazionistiche e squilibri della bilancia
commerciale;....
L’impatto macroeconomico delle privatizzazioni non marginali
dovrà essere valutato caso per caso...questa valutazione va integrata con quella
sugli effetti diretti a breve e a medio-lungo termine sullo stato della finanza
pubblica e con considerazioni di economia del benessere”. [8]
Nel Graf.14 si evidenzia l’entità delle privatizzazioni
in Gran Bretagna nel periodo che va dal 1981 al 1991; i dati, in milioni di
sterline, mostrano quanto sia stata elevata l’entità del processo economico
messo in atto dall’intera operazione.
La Tab.10 seguente invece focalizza l’attenzione sui
ricavi ottenuti dalle maggiori privatizzazioni.
E’ interessante a questo punto concludere, sottolineando che:
“La foga con cui Margaret Thatcher ha cavalcato le privatizzazioni,
il vento della deregulation dell’America di Reagan, il crollo dei regimi comunisti
e le serie difficoltà attraversate nell’ultimo decennio dagli ideali socialdemocratici,
spingono oggi a vedere le nazionalizzazioni come uno strumento antiquato, figlio
di una concezione social-dirigista dell’economia. Ciò è in parte vero, ma sarebbe
ipocrita non ricordare che molte sono state le nazionalizzazioni frutto dell’incapacità
dei privati piuttosto che delle velleità dei governanti... Ciò che ci interessa
sapere è se, in una democrazia avanzata con una solida economia, una legislazione
profondamente civile e un mercato finanziario evoluto, è possibile lasciare
ai privati la gestione di tutte le aziende di un Paese, compresi i monopoli
naturali per eccellenza quali gas, acqua, elettricità, ferrovie e miniere...” [9].
I
conservatori inglesi, ma anche se con poche diverse sfumature questa è anche
la posizione del governo progressista di Blair, sono convinti che tutto può
essere privatizzato se lo Stato continua ad esercitare alcune diversificate
tipologie di controllo formale, e se l’impresa privatizzata rimane sempre sana
dal punto di vista economico. Ma è proprio il modello di capitalismo anglosassone
il maggior portatore delle gravi ricadute sociali sul piano internazionale,
non ultime quelle riguardanti gli effetti negativi sull’occupazione, sull’abbattimento
del welfare, sulla povertà crescente, sul danno ambientale, su un colossale
divario Nord-Sud che si aggiunge alla totale precarizzazione della qualità della
vita che interessa ormai anche tutti i paesi ad industrialismo avanzato.
[1] Cfr.
Bernini A.M. “Intervento statale e privatizzazioni”, Padova, CEDAM, 1996, p.
40 e segg.
[2] “...Tali imprese sono dotate di autonomia
giuridica e gestionale, dipendono da enti pubblici economici che, in funzione
dei settori di appartenenza, fanno capo ai rispettivi ministeri. Esse si connotano
tuttavia per un elevatissimo grado di controllo da parte dell’organo propriamente
pubblico, il ministero, anche a motivo del tipo di finanziamento del quale usufruiscono:
la struttura finanziaria di tali imprese si costituisce di debiti finanziari
- gravanti direttamente sul public sector borrowing requirement -, di versamenti
in conto capitale statali - sui quali l’impresa corrisponde un dividendo - e,
infine, di contributi statali a fondo perduto.”, in Dossena G., “Le privatizzazioni...”,
op. cit. p.157.
[3] Cfr. Bernini A.M. “Intervento...”, op. cit. p.42.
[4] Cfr. Bernini A.M. “Intervento...”, op. cit. p.46.
[5] Cfr. Guatri L., Vicari S. “Sistemi d’impresa ...”, op.
cit. p. 36.
[6] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo,
“Sviluppo capitalistico...”, op. cit.
[7] Si
tratta di una particolare azione del capitale della società che il governo trattiene
al valore simbolico di una sterlina, per ostacolare l’acquisizione del controllo
da parte di investitori privati. Attraverso il possesso della golden share infatti
lo Stato può esercitare il diritto di veto su determinate decisioni fondamentali
nella gestione dell’impresa. In sostanza quindi lo Stato , anche se non possiede
più la maggioranza delle azioni, attraverso questa speciale azione, può esercitare
un controllo sull’andamento dell’impresa. L’emissione della golden share può
avvenire in ogni momento a patto che il governo garantisca che la sua creazione
è subordinata a fini di interesse pubblico; di solito questa azione è detenuta
dal governo per un massimo di sei anni al termine dei quali la stessa può essere
estinta del tutto o convertita in una azione ordinaria.
[8] Cfr. Florio M.,
“Privatizzazioni su larga scala: effetti di bilancio e impatto macroeconomico”,
in Economia Pubblica, n.4-5, 1990, pag.190.
[9] Cfr.
Niada M. “Le privatizzazioni degli ...”, op. cit., pag.16-17.