I diversi modelli del capitalismo internazionale si confrontano sulle strategie di privatizzazione

Rita Martufi

1. Un primo approccio definitorio e quantitativo

Nel corso di quest’ultimo secolo si è avuta una notevole crescita dell’intervento pubblico nell’economia e nella produzione; il nuovo ruolo assunto dallo Stato - uno Stato imprenditore - ha caratterizzato quasi tutti i paesi industrializzati almeno fino alla fine degli anni ’70.

E’ opportuno, da subito, effettuare una distinzione tra due tipologie di aziende pubbliche: da un lato si avranno quelle con capitale sociale posseduto totalmente o come quota maggioritaria allo Stato; dall’altro c’è invece l’impresa che si caratterizza per la presenza di fattori extraeconomici e che quindi è diversa da quella privata sia per la proprietà sia per la sostanza; in quest’ultimo caso ci si riferisce alle imprese nate per assolvere problemi sociali (come, ad esempio, per mantenere il livello dell’occupazione), o per consentire il mantenimento di un giusto equilibrio in economia tra pubblico e privato.

E’ opportuno effettuare una classificazione delle varie tipologie di impresa che possono essere definite “pubbliche”; si hanno : le aziende di Stato, le aziende di proprietà dello Stato, e le aziende finanziate dallo Stato.

Le prime sono quelle che vengono sottoposte a un controllo diretto dello Stato e che hanno la propria contabilità in tutto o in gran parte inserita nel bilancio statale ; le aziende di proprietà dello Stato, invece, sono in tutto simili alle imprese private ma sono caratterizzate da una elevata partecipazione dell’operatore pubblico che riesce in tal modo a garantirsi il loro controllo. Le aziende finanziate dallo Stato infine, pur essendo a carattere pubblico, agiscono secondo un determinato grado di autonomia di gestione.

Nel 1980 (Direttiva 723/80/CEE del 25 Giugno) la Comunità Europea ha fornito una prima definizione di impresa pubblica intesa come “public undertaking”, ossia come un soggetto “su cui le pubbliche autorità possono esercitare direttamente o indirettamente un’influenza dominante in virtù della loro proprietà su di esso, della loro partecipazione finanziaria, oppure delle regole che lo governano, definendo per autorità pubblica, sia le autorità statali e regionali, che quelle locali”. [1]

Il diritto comunitario (Trattato Istitutivo della CEE) analizza da vicino il problema delle privatizzazioni soprattutto in due articoli: nell’art. 90, comma1 [2], si sancisce il principio di parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e l’art. 222 decreta il principio dell’indifferenza comunitaria nei confronti dei meri profili soggettivi della proprietà. In sostanza comunque appare chiaro che il diritto comunitario dà una rilevanza molto minima al profilo soggettivo dell’impresa in quanto le norme enunciate non “consentono di ritenere che l’affidamento privato di azienda ed attività sia maggiormente conforme alle finalità del Trattato di quanto lo sia l’esercizio effettuato da parte dello Stato, di enti pubblici ovvero di imprese da esse detenute”. [3]

L’obiettivo delle aziende pubbliche, comunque, non va ricercato nella massimizzazione del profitto ma in una diversa serie di traguardi che devono essere raggiunti in nome dell’interesse della collettività. E’ chiaro infatti che pur essendo fondamentale per questo tipo di aziende raggiungere dei risultati di gestione positivi, d’altro canto è necessario anche tenere in seria considerazione tutti i fattori collegati all’economia nazionale. In questo senso si può dire che un’impresa pubblica ha tra i suoi obiettivi principali il raggiungimento dell’efficienza allocativa, redistributiva e sociale che permettano di rendere massima la soddisfazione dei consumatori, di assicurare la maggiore trasparenza possibile e di correggere i fallimenti del mercato.

A questo proposito va rilevato che vi sono degli specifici settori dell’economia che da sempre sono soggetti a controllo da parte dello Stato in quanto forniscono dei servizi strategici ed essenziali ai cittadini e alle altre imprese. Ci si riferisce alle imprese operanti nel campo dell’energia, dell’acqua, telecomunicazioni ecc., senza poi considerare i consumi collettivi, pubblici per eccellenza, come quelli dell’assistenza, sanità, difesa, previdenza ecc., cioè la “produzione di welfare”. In questi settori l’intervento dello Stato è garanzia per tutti di un accesso paritetico alla qualità dei beni e servizi prodotti, che potrebbero in caso contrario essere distribuiti in maniera non uniforme ed equa, sia in termini economici sia in un senso sociale generale. A conferma di quanto detto basti ricordare, ad esempio, quanto sia stato importante in Italia e soprattutto nel Mezzogiorno l’intervento dello Stato nella delicata fase della ricostruzione post-bellica. La presenza delle imprese pubbliche nell’economia ha caratterizzato anche gli altri Paesi europei, in particolare quelli particolarmente colpiti dai danni del secondo conflitto mondiale, in quanto l’intervento statale è stato in grado di coprire l’offerta insufficiente di capitale delle imprese private.

2. Alcuni dati caratterizzanti le economie miste

Se si prendono in considerazione alcuni aggregati economici relativi alle aziende pubbliche rapportati al dato del paese considerato relativamente allo stesso aggregato si ottengono degli indicatori che consentono di comprendere qual’è l’incidenza dell’economia pubblica nell’economia complessiva di un paese (ad esempio peso della produzione delle aziende pubbliche, degli investimenti o degli occupati pubblici rispetto al totale della forza lavoro, ecc.). Va rilevato però che questi indici risultano a volte essere di difficile costruzione, così come spesso si determina una quasi impossibilità ad effettuare efficaci confronti tra i vari paesi a causa di modalità dio rilevazione diverse e di dati non omogenei.

Analizzando alcuni dati relativi agli anni ’70 è facile dedurre dall’analisi della Tab. 1 che la media di incidenza degli investimenti effettuati dalle aziende pubbliche rispetto al totale nazionale (messo a 100) della formazione del capitale era del 13,4% con riguardo a tutti i paesi ad economia mista, mentre il peso della produzione delle imprese pubbliche era mediamente del 9,4% della produzione nazionale.

Va subito rilevato che mentre si ha una sostanziale stabilità, nei vari paesi e per il periodo considerato, relativamente all’incidenza della “produzione pubblica”, diverso è il discorso in merito al contributo delle aziende pubbliche alla formazione del capitale, cioè alla parte del reddito nazionale destinato agli investimenti; infatti la percentuale pubblica è in significativo calo in tutti i paesi considerati, ed in Italia in particolare passa dal 19,4% del 1970-73 al 15,2% del 1979-80 (vedi anche Graf.1).

In specifico se si considera anche l’incidenza relativa alla forza-lavoro si nota che in Austria, ad esempio (vedi Tab.2), negli anni che vanno dal 1976 al 1982, il rapporto fra lavoratori del settore pubblico e totale occupati è diminuito, (vedi Graf.2) mentre si è avuto un aumento di un punto percentuale del contributo pubblico al valore aggiunto complessivo; nella Repubblica Federale Tedesca invece l’occupazione nel settore pubblico rimane stabile in questi anni (vedi Graf.3 e Tab.3). In Belgio si può rilevare facilmente dai dati della Tab.4 e Graf.4 che la forza lavoro occupata nelle aziende pubbliche è cresciuta tra il 1980 e il 1982 sia in termini assoluti (si passa da 216.000 a 219.000 occupati) sia in termini percentuali (dal 5,7% del 1980 si arriva al 6% del 1982); ciò soprattutto a causa della diminuzione del totale degli occupati. [4]

Se si osservano i dati relativi alla Francia ( Tab.5 e Graf.5) si nota un aumento accentuato del valore percentuale degli occupati nel settore pubblico negli anni che vanno dal 1963 al 1982, in particolare negli ultimi anni del periodo considerato; questo incremento è dovuto soprattutto alle politiche di nazionalizzazione che hanno caratterizzato l’economia della Francia negli anni presi a riferimento.

Per quanto concerne i dati riguardanti l’Italia (Tab.6 e Graf.6) va evidenziato il fatto che non possono essere fatti utili confronti con quelli omogenei degli altri paesi poiché si sono rilevate solo le aziende con più di 20 dipendenti; in questo modo restano fuori le cosiddette piccole imprese che rappresentano nel nostro Paese una quota e un peso economico molto rilevante.

Dall’analisi della Tab.7 e Graf.7 va rilevato comunque che, pur essendo molto difficile effettuare dei confronti efficaci tra i vari paesi a causa della disomogeneità dei dati, in tutte le situazioni esaminate risalta un dato univoco: la presenza elevata delle imprese pubbliche e le ricadute positive in termini macroeconomici nei sistemi produttivi e il peso fondamentale nell’economia generale di questi paesi. Tale situazione si è mantenuta fino all’avvio del cosiddetto “intenso processo a tappe forzate” di privatizzazione che ha interessato, anche se in formee con tempi diversi, i maggiori paesi europei dal 1982 ad oggi (Cfr. Graf.8).

 


3. Le diverse strategie di privatizzazione nel contesto internazionale

Modelli neoliberisti e modelli d’impresa

In qualsiasi contesto capitalistico l’impresa ha come obiettivo fondamentale quello di massimizzare il profitto attraverso l’ottimizzazione degli indici di efficiacia e di efficienza in modo da soddisfare tutti i portatori di interesse (stakeholders) che a vario titolo partecipano alla vita e alle vicende dell’impresa stessa.

Sono tre le categorie di stakeholder diretti: gli azionisti, i managers ei lavoratori; ma in contesti di capitalismo come quello renano e nipponico alle tre classi di portatori diretti vanno aggiunti anche i fornitori, le banche, i clienti, gli investitori finanziari e la pubblica amministrazione.

Se fra gli oppositori all’impresa, cioè i soggetti che hanno interessi contrastanti rispetto agli obiettivi e alle finalità d’impresa vanno sicuramente ricordati i concorrenti, gli azionisti ostili, le forze ostili di natura politica, sociale e del mondo dell’informazione, si deve con altrettanta chiarezza ricordare che i portatori di interesse positivo ( i veri e propri stakeholders) hanno, a vario titolo, interesse alla partecipazione ai risultati d’impresa, comunanza di obiettivi e solidarietà di intenti con l’impresa stessa e a loro spetta il reale controllo aziendale. In tal senso il controllo non va inteso in termini giuridico-formali (che di fatto spetta agli azionsiti di maggioranza), ma si tratta di quel controllo gestionale messo in essere da soggetti che decidono le strategie d’impresa e la misura e distribuzione dei risultati economici conseguiti. Si tratta cioè di soggetti economici che guidano effettivamente l’impresa determinandone e modificando se necessario le traiettorie della pianificazione strategica.

In tale determinazione che ridefinisce gli stessi modelli d’impresa gli azionisti diventano spesso spettatori e allora il controllo da formale diventa sostanziale, dividendosi, in vario modo, fra gli stakeholder. Tale linea di tendenza è maggiormente presente nel modello di capitalismo anglosassone in cui forte è presente il modello di public company realizzando un capitalismo manageriale in cui continua è la riallocazione fra proprietà e controllo.

In base alle modalità di gestione d’impresa, ai processi riallocativi fra proprietà e controllo, alle scelte di collocazione del singolo paese nelle aree di influenza del capitalismo internazionale molti studiosi sono giunti ad individuare e distinguere tre forme principali di capitalismo. Con la prima forma, più caratterizzata da forte competizione aziendale ed individuale, ci si riferisce al capitalismo degli Stati Uniti che, sviluppatosi attraverso la nascita della grande impresa, si caratterizza per la presenza di un efficiente apparato manageriale, dotato di imponenti mezzi finanziari che vedono la prevalenza di un mercato borsistico dominato da un elevato azionariato imprenditoriale. Il modello di capitalismo personale-individualistico, riferito soprattutto al capitalismo britannico, pur essendo per molti versi simile a quello americano, è di natura più personale-familiare; la natura familiaristica e non manageriale della proprietà ha portato in Inghilterra allo sviluppo di un sistema economico e sociale chiuso che mira soprattutto alla conservazione dei privilegi acquisiti; questo situazione non ha permesso la nascita di un efficiente e competitivo sistema manageriale in grado di consentire uno sviluppo adeguato dell’economia britannica. La Germania, e in modo simile il Giappone, invece, ha caratterizzato il proprio sviluppo capitalistico su dei caratteri comunitari, nei quali l’impresa è costituita da diversi soggetti economici che lavorano ognuno secondo i propri ruoli per il perseguimento di uno scopo comune: lo sviluppo di lungo periodo. Al profitto immediato richiesto dagli stakeholders americani viene sostituito un incremento valoriale aziendale di lungo periodo, nel quale il profitto immediato è minore ma più forte è la preoccupazione di una vita aziendale di più lunga durata. Simile al capitalismo tedesco, come si è scritto, è il modello esistente in Giappone, forse più basato sul senso di appartenenza alla “comunità nazione”, e per molti studiosi il sistema esistente in questi due paesi viene denominato modello renano-nipponico.

Vi sono comunque dei Paesi nei quali, più di altri, è interessante analizzare i modelli di capitalismo operanti, in quanto oltre a rappresentare delle situazioni proposte in aree territoriali molto estese, sono caratterizzati a volte dal successo e comunque dall’originalità dei modelli stessi; tra questi modelli meritano particolare attenzione i sistemi di gestione adottati negli Stati Uniti ed Inghilterra (Public Company), in Giappone e Germania ( impresa consociativa di stile renano e nipponico) e in Italia ( impresa padronale-familiare) [5].

Nel modello di capitalismo anglosassone le Public Companies si caratterizzano, infatti, per la fluidità del capitale poiché gli investitori, per minimizzare i rischi tendono a detenere i pacchetti azionari per poco tempo; e il carattere prevalentemente speculativo dell’investimento volto a ottenere risultati nel breve periodo fa si che gli investimenti che non producono rendimenti immediati siano quindi comunque poco apprezzati.

E’ chiaro che l’incertezza minima caratteristica delle Public Companies ha come principale conseguenza un minore redditività del capitale; gli azionisti infatti sopportano un rischio minimo nei loro investimenti ma realizzano anche una redditività inferiore a quella di investimenti caratterizzati da alto rischio. Per supplire a questa carenza, diventa necessario l’intervento di manager altamente qualificati in grado di assumersi la responsabilità degli investimenti e dell’uso dei capitali acquisiti dall’impresa.

Ed è proprio in questo contesto di “rivoluzione manageriale” che le Public Companies hanno caratterizzato il mercato. La distinzione tra detentori di capitale e coloro che effettivamente esercitano il controllo dell’impresa è favorita dalla capillarizzazione del capitale azionario; essendo il capitale suddiviso tra una miriade di piccoli azionisti diventa impossibile stabilire delle linee di comportamento da parte dei Consigli di Amministrazione; di qui il ruolo fondamentale del manager che, svincolato dalla proprietà dei capitali, condiziona e decide la politica d’azienda.

Gli obiettivi del top management sono comunque tendenti alla realizzazione di profitti immediati, per meglio soddisfare le esigenze di redditività degli azionisti i quali sono chiamati a fine esercizio a valutare l’operato del manager confermandolo o meno alla guida dell’azienda. La conseguenza di tale impostazione è che gli esigui investimenti destinati allo sviluppo futuro, all’espansione caratterizzano queste imprese per un certo grado di immobilità e rigidità.

In generale il modello di capitalismo anglosassone si è fondamentalmente basato sul mercato finanziario, dove si realizzano in effetti forti processi di finanziarizzazione dell’economia, poiché è la finanza che diventa autoreferente ed è proprio su ciò che si basano i processi di globalizzazione. Infatti in questa logica il capitale viene spostato dove rende di più, insegue il profitto ad ogni costo e ad ogni condizione, utilizzando lavoro dove costa meno, realizzando produzione laddove minori sono i controlli sull’impatto ambientale, assorbendo risparmio e realizzando sempre più processi di separazione con l’economia reale. Si viene così a creare una realtà in cui sempre più alta è la divaricazione e lo sdoppiamento fra economia reale e finanza, anzi una realtà nella quale la finanza premia gli andamenti negativi dell’economia reale (quali ad es. la flessibilità dei salari e la riduzione dell’occupazione). Si tratta in un’ultima analisi di un modello di capitalismo e di un corrispondente sistema d’impresa che si concretizza in un’economia finanziaria fortemente speculativa che prevale e affossa le esigenze della produzione e dell’economia reale; un sistema nel quale globalizzazione significa dominazione del mondo attraverso l’usura del capitale, l’espulsione dal mercato delle imprese deboli in termini di esclusiva corsa al profitto, la crescita della disoccupazione e l’utilizzo sempre più di lavoro supersfruttato, allargando le sacche e le aree in cui prevalente è la miseria assoluta. [6]

Nell’impresa consociativa, tipica del sistema tedesco e giapponese, caratterizzata da un orientamento all’incremento valoriale di lungo periodo, dalla forte presenza di operatori finanziari tra gli azionisti e da una elevata managerialità, vi è una struttura particolare della compagine azionaria: si ha infatti il cosiddetto “nocciolo duro” costituito dagli azionisti stabili i quali possiedono la maggiore quota del capitale, e una moltitudine di azionisti minori che possiedono la parte di capitale effettivamente trattabile sul mercato. Le banche, gli investitori finanziari ed i portatori di forti interessi aziendali, come gli originari proprietari, detengono somme elevate di capitale; in questo tipo di impresa però non vi è la possibilità per nessun azionista di raggiungere posizioni di maggioranza assoluta. Di conseguenza nell’interesse dello sviluppo e della crescita dell’azienda stessa assume una importanza fondamentale la figura del manager che ha come obiettivo prioritario la massimizzazione del valore d’impresa, nell’ottica dell’espansione, tentando di realizzare un mix ottimale fra crescita aziendale, redditività del capitale investito e dinamiche dello sviluppo complessivo.

La Germania si caratterizza per le numerose analogie con il sistema d’impresa giapponese; in questo modello d’impresa si realizzano, infatti, degli equilibri tra azionisti, strutture pubbliche e banche. Va rilevato, però, che per quanto concerne la struttura azionaria nell’arco degli ultimi trenta anni si è verificato un calo consistente nella presenza degli azionisti privati e del settore pubblico a favore di una crescente presenza delle assicurazioni e delle banche. Gli incroci azionari si verificano frequentemente tra le banche e le imprese e tra le stesse imprese (vedi Tab.8).

Il connotato principale che caratterizza il capitalismo tedesco è rappresentato dal ruolo fondamentale svolto dalla “Banca Universale”.

In Germania il sistema bancario è caratterizzato dalla proprietà privata delle banche; dall’esistenza della Hausbank, cioè di una relazione bancaria fondamentale e fiduciaria, che nasce dalla convinzione che la stabilità dei rapporti di finanziamento e di interscambio cooperativo fra banca e impresa costituiscono un fattore imprescindibile per la crescita dell’impresa stessa; dal conferimento diretto al sistema bancario di specifici importanti compiti nei confronti del mercato del capitale di rischio; dalla presenza di dirigenti dell’Hausbank nei Consigli di Sorveglianza d’impresa, in modo da ridurre le asimmetrie informative migliorando e realizzando una più corretta valutazione nel merito del credito e del suo relativo costo.

Va segnalato che il modello tedesco, al pari di quello giapponese, è caratterizzato anche dalla presenza del sistema della “cogestione”; in sostanza tra gli stakeholders presenti nella gestione vi sono anche i lavoratori, attraverso i loro rappresentanti sindacali.

In pratica la corresponsabilità si applica attraverso i sindacati, il Consiglio d’Azienda, nel quale vengono interpellati i lavoratori per le questioni riguardanti il personale, e il Consiglio di Sorveglianza che nomina il direttivo, ossia i manager responsabili della gestione.

Si determina in tal modo una compressione forzata dei conflitti sociali e una quasi mancanza di conflitti interni all’azienda; il senso di appartenenza e di cooperazione rendono l’organizzazione d’impresa tedesca molto stabile e forte. I lavoratori che in questo contesto ottengono, in contropartita di una concordata “pace aziendale e sociale”, dei salari più elevati e lavorando meno ore rispetto alle medie anglosassoni, dimostrano un maggiore senso di “fedeltà” all’impresa aumentando così la potenza del sistema economico tedesco [7].

A partire dagli anni ’80 negli Stati Uniti, ci si è resi conto della necessità di limitare il potere eccessivo dei manager e si cerca di rendere più stabile l’azionariato attraverso l’intervento di investitori stabili, in grado di consentire una migliore concentrazione della proprietà. In quest’ottica si è avuta una diminuzione degli investitori privati e la nascita delle “relationship investing”, società finanziarie che ottengono un ruolo diretto nella gestione delle imprese attraverso l’acquisto di elevate quote azionarie di un’impresa. Sempre nell’ottica di concentrare la proprietà si è pensato di trasformare i managers in azionisti coinvolgendoli più direttamente nelle sorti aziendali, stabilendo, inoltre, che il Consiglio di Amministrazione delle grandi società, oltre a riunirsi più spesso, deve essere gestito in maniera da relazionarsi direttamente ai proprietari, in presenza di solo uno o al massimo due managers [8].

La corsa neoliberista internazionale alle privatizzazioni

Il fenomeno delle privatizzazioni che ha caratterizzato questi ultimi venti anni si è manifestato nei vari Paesi europei con diversa modalità e intensità. E’ pertanto interessante analizzare più da vicino le differenti modalità con le quali questo processo si è attuato.

Va ricordato, in primo luogo che sono diverse le tecniche con le quali è possibile attuare l’operazione di privatizzazione.

Tra i sistemi più applicati dai vari paesi, in paricolare europei, si colloca senza dubbio l’offerta pubblica di vendita. In Inghilterra, in Francia e in Germania questo metodo è stato molto usato per le grandi privatizzazioni; anche a livello internazionale si è avuta larga applicazione dell’OPV (basti ricordare che tra il 1984 e il 1992 il 45% delle aziende privatizzate ed il 75% del valore complessivo delle operazioni è stato attuato attraverso questa tecnica).

Inoltre è importante considerare che paesi quali l’Austria, l’Olanda, il Giappone, la Francia, la Gran Bretagna, la Malesia, la Thailandia e il Portogallo hanno raggiunto valori di dismissione attraverso le OPV pari quasi al 100%.

Nei Paesi dell’Est europeo è stata invece usata molto di più la procedura dell’asta pubblica; poichè tale metodo è infatti molto più consono alle privatizzazioni di aziende di medie e piccole dimensioni; in questi Paesi si è utilizzata anche la privatizzazione tramite “buoni cartolari” che, dopo essere stati convertiti in azioni, sono stati distribuiti al pubblico a prezzi vantaggiosi, realizzando una sorte di azionariato popolare.

Nei paesi caratterizzati da una situazione di estrema gravità finanziaria e che necessitano di metodi di dismissione molto rapidi e semplici è, invece, molto usata la trattativa privata. Questa procedura è stata adottata da molti paesi dell’America Latina, quali il Messico, la Bolivia, l’Argentina, il Cile, il Brasile e il Costarica.

L’employees buy out (ossia la cessione delle azioni ai dipendenti e ai manager dell’azienda stessa) è stata utilizzata molto spesso in Francia, in Cile, in Venezuela, in Inghilterra, in Argentina, in Costa d’Avorio, negli Stati Uniti, in Portogallo, in Nigeria, in Pakistan.

Anche la concessione di attività in appalto ai privati, pur essendo utilizzata a livello locale, ha trovato qualche applicazione in Giappone, in Canada, negli Stati Uniti e in Inghilterra.

Per avere un quadro esemplificativo del peso delle varie operazioni di privatizzazione è interessante mostrare quale sia stato l’importo dei ricavi (Graf. 9) ottenuti dalla privatizzazioni negli anni 1982-1991 in alcuni paesi dell’America Latina.

Prima di esporre i diversi approcci al processo di privatizzazione così come si è attuato in ambito internazionale, è opportuno fare alcune riflessioni di carattere generale connessi o volutamente addotti per giustificare la cessione di imprese pubbliche da parte dello Stato, anche se a volte presentavano buoni livelli di efficienza economica.

Va immediatamente evidenziato che allo stato attuale qualsiasi processo di privatizzazione ha realizzato senza dubbio effetti negativi quantitativi e qualitativi sull’occupazione. Va ricordato, infatti, che molto spesso le nazionalizzazioni sono avvenute proprio per consentire di mantenere il posto di lavoro in imprese che attraversavano momenti anche di seria crisi e che rischiavano di fallire ed uscire da un mercato selvaggio e non regolamentato. Si è trattato spesso di affermare il principio keynesiano di uno Stato occupatore e garante dei conflitti, di un mercato regolamentato e tendente alla piena occupazione. Va inoltre tenuto conto che anche nei casi in cui, una privatizzazione ha successo, (nel senso che si vengono a creare delle condizioni economiche generali di stabilità che potrebbero quindi consentire l’assorbimento di alcune fasce di disoccupazione), ciò si ripercuote comunque sulla riduzione dei costi diretti ed indiretti del lavoro. Non va, ad esempio, dimenticato che nel migliore dei casi è fortemente aumentata la mobilità, la flessibilità del lavoro e del salario, incidendo negativamente sui ritmi, sulla condensazione e sui turni di lavoro. A ciò si deve aggiungere che quasi sempre i processi di privatizzazione hanno provocato diminuzione di garanzie e compressione dei diritti sindacali, fino a giungere, in particolare in paesi a più bassi livelli di sviluppo economico e democratico, alla mancanza completa di qualsiasi forma di garanzia reddituale, sindacale e a pienezza di diritti per i lavoratori, favorendo forme di precariato, sottoccupazione, lavoro nero e grigio e di supersfruttamento complessivo.

Anche l’opinione molto diffusa tra i sostenitori delle privatizzazioni che queste consentano una riduzione del debito pubblico ed estero è fortemente illusoria; infatti non va dimenticato che ”i vantaggi di un programma di privatizzazione di imprese pubbliche possono derivare solo dal fatto che esso riduce l’entità dei surplus primari futuri, necessari per ripagare nel tempo il debito netto e non il debito totale. Se la privatizzazione lascia inalterato il debito netto, altrettanto avverrà per i surplus di bilancio che si renderanno necessari in futuro per ripagare gli interessi sul debito...in caso di privatizzazione, la posizione patrimoniale netta del settore pubblico non cambia nel presente (alla diminuzione dello stock di debito si associa una diminuzione dell’attivo) e il beneficio economico è limitato all’esercizio in cui si realizzano le eventuali plusvalenze connesse all’alienazione delle attività [9]”. Il rischio, anzi meglio ciò che la realtà internazionale ci dimostra, di vendere le migliori aziende pubbliche, i gioielli di famiglia, provoca l’effetto di ridurre il patrimonio statale senza averne effettivi benefici a lungo termine.

Ed ancora: l’efficienza, la competitività e la migliore redditività che la dismissione di un’azienda pubblica dovrebbe comportare sono anch’esse illusorie e non comprovate dai fatti, soprattutto perché è molto difficile stabilire una pertinenza tra la proprietà di un’azienda e la sua efficienza ed inoltre perchè gli indicatori tipici di produttività, efficienza ed efficace aziendale non sono quasi mai “trasportabili” seguendo semplici criteri quantitativi dal privato al pubblico e viceversa. Non esistono mai regole precise, fisse, dogmi economici; l’economia, in particolare quella aziendale, va studiata nei processi interagenti fra realtà interne ed esterne, leggendo i legami reali, non quelli determinati da forzature prettamente politico-partitiche-affariste, interpretando cioè le dinamiche aziendali e le ricadute sociali che si sviluppano tra macrosistema aziendale e macrosistema socio-ambientale.

Alcuni esempi: la società francese Rhone Poulenc si trovava prima del 1982 (anno in cui è stata nazionalizzata) in una situazione economica molto difficile e di crisi di prospettive strategiche; negli anni in cui è stata di proprietà dello Stato (fino al 1991) è riuscita a capovolgere la propria posizione, moltiplicando il fatturato e gli utili ed arrivando ai vertici mondiali del settore in funzione di tutti i più importanti indicatori economici e finanziatori-patrimoniali.

Le società inglese Brooke Marine, la Swan Hunter e la Vospers sono passate a maggioranza significativa di capitale private e dopo delle crisi molto serie sono fallite; anche la British Steel dopo un momentaneo miglioramento è stata duramente colpita da una dura crisi finanziario-economica. [10]

In sostanza, anche in questo caso vale la regola che l’efficienza delle imprese pubbliche è strettamente collegata alle scelte di politica-economica, allo stretto legame fra strategie macroeconomiche e conseguenti linee operative microaziendali, pubbliche e private.

In conclusione anche attraverso le modalità attuative dei processi di privatizzazione ci si accorge di come il neoliberismo internazionale si stia rimodellando, in termini soprattutto finanziari, per comprimere le scelte e le impostazioni di tipo pubblico-collettivo che avevano caratterizzato le cosiddette economie miste. Infatti si assiste ormai ad un graduale riavvicinamento dei due modelli opposti delle Public Companies e delle imprese consociative, in quanto mentre negli Stati Uniti ci si avvia verso un azionariato più stabile, in Giappone diminuisce l’incidenza degli incroci azionari e si tende ad allargare la partecipazione e la dipendenza delle imprese direttamente dal mercato finanziario.

Considerato che nel modello renano si realizza una superiorità economica e sociale sarebbe logico aspettarsi che questo sistema d’impresa diventi prevalente a scapito del modello anglosassone, ciò non è affatto vero; nella realtà infatti quest’ultimo tende a travolgere oltre ai modelli di impresa di quei paesi che si trovavano ad adottare una via di mezzo tra l’uno e l’altro anche gli stessi paesi nei quali si è originato il modello renano-nipponico [11].

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4. Le diverse vie nazionali alle privatizzazioni

GRAN BRETAGNA

La Gran Bretagna è stato il primo paese europeo ad attuare una campagna di privatizzazioni che non ha eguali nell’occidente. L’inserimento nel programma di governo delle dismissioni di imprese pubbliche ha avuto come obiettivo principale la volontà di riorganizzare l’intero tessuto economico e produttivo britannico, operando nel contempo una forte svolta di natura politico-sociale.

Le operazioni effettuate sono state diverse e di varia entità; oltre alla vendita vera e propria di imprese pubbliche sono stati predisposti vari incentivi fiscali e finanziari per i privati fino a giungere ad un programma di deregolamentazione di alcuni servizi pubblici di interesse collettivo. [12]

Il programma di nazionalizzazione avviatosi in Gran Bretagna con le public corporation [13] (si tratta di enti pubblici con personalità giuridica autonoma) negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ha interessato vasti settori dell’economia (ferrovie, trasporti, elettricità, ecc.); lo scopo era in sostanza quello di garantire una serie di obiettivi sociali attraverso la gestione pubblica. L’elevato numero di imprese pubbliche (erano quasi cinquanta) impiegava quasi il 9% della forza lavoro, riguardava oltre l’11% del PIL e concorreva agli investimenti per oltre il 16%. Se si confrontano i dati relativi agli anni 1962-1979 si nota subito però come questi valori siano andati diminuendo nel corso degli anni, evidenziando una inziale inversione di rotta nelle sclete di politica economica (Cfr. Graf.10).

Le difficoltà incontrate nel corso degli anni dalle imprese pubbliche e soprattutto la ridefinizione del modello di capitalismo anglosassone, hanno portato nel 1980 ad una inversione di tendenza. Il programma di nazionalizzazione attuato dai governi laburisti è stato criticato dai conservatori che hanno sostenuto l’importanza di diminuire notevolmente il settore pubblico industriale a favore di un aumento dell’imprenditoria privata. Con la vittoria dei conservatori del 1979 si è attuato così negli anni ’80 uno dei più estesi processi di privatizzazione d’Europa.

Tra il 1979 e il 1983 sono state messe in vendita circa 600.000 abitazioni di edilizia popolare e diverse imprese pubbliche (basta ricordare la British Aerospace nel 1981, l’Amersham International nel 1982, la British Transport Hotel nel 1983, ecc.); il ricavo derivante dalla vendita del capitale azionario è stato di circa 500 milioni di sterline, per un’entrata complessiva derivante dalle dismissione pubbliche di oltre 2 miliardi di sterline. Va rilevato, però, che in questo periodo sono state vendute imprese di piccola e media dimensione e non si era ancora colpito il grande monopolio.

Il vero e proprio programma di privatizzazione sostanziale si è attuato dopo il 1983 (con la rielezione del Primo Ministro Thatcher); nel 1984 infatti sono state privatizzate diverse imprese operanti in regime di monopolio: il 50% della British Telecom, operante nel settore delle telecomunicazioni (la cui vendita ha fruttato oltre 3.900 milioni di sterline); la Enterprice Oil; la Jaguar; nel 1986 la British Gas (la vendita ha fruttato circa 5.400 milioni di sterline); nel 1987 la British Airways e la Rolls-Roice.

Nelle intenzioni del governo Thatcher questo programma aveva come obiettivo principale di infondere un forte impulso alla concorrenza, ritenuta indispensabile per il miglioramento della qualità dei beni e dei servizi, per la riduzione dei prezzi, per la restituzione ai consumatori di quella libertà di scelta che le aziende pubbliche avevano limitato. Oltre alla liberalizzazione del sistema economico vi era poi la volontà di ottenere una più elevata efficienza tecnica ed allocativa delle imprese, di incrementare le entrate dello Stato e di ridurre il fabbisogno del settore pubblico.

Ma il principale obiettivo del programma di privatizzazione era rappresentato dalla ferma volontà di promuovere un’apparente forma di capitalismo popolare e determinare un allargamento della base azionaria attraverso l’azionariato diffuso. A questo fine sono stati realizzati diversi tipi di incentivi quali agevolazioni fiscali, i bonus e i vouchers, la distribuzione gratuita di azioni ai lavoratori, ecc.

Va rilevato comunque che attraverso le privatizzazioni si è tentato di indebolire il potere dei sindacati che hanno assunto nella maggior parte die casi un atteggiamento contrario al programma. Lo slogan “Public: it’s yours; Private, it’s theirs” è diventato un punto fermo di opposizione al governo conservatore che è stato accusato di aver svenduto il patrimonio pubblico a cifre irrisorie e molto al di sotto del reale valore delle imprese dismesse.

A queste feroci critiche si è aggiunta anche l’autorevole voce dell’editorialista dell’Economist che in un articolo del 22 Novembre 1986 ha scritto che il programma di privatizzazioni del governo Thatcher sembrava “...theft disguised as generosity”. [14]

E’ vero comunque che nel momento in cui alcuni sindacati di categoria (ad es. il National Union of Ralway Men o del National Freight Corporation) diventano azionisti di alcune aziende dismesse, il loro atteggiamento cambia notevolmente ed adottano delle condotte molto diverse rispetto alle politiche conflittuali che il sindacalismo tradizionalmente dovrebbe tenere. In effetti questi sindacati diventano parte integrante di quel modello consociativo tanto caro alle recenti politiche neoliberiste.

Le privatizzazioni della Gran Bretagna hanno in sostanza rappresentato una “prova generale” (Cfr. Graf. 11) per le successive operazioni di vendita effettuate negli anni ’90, non solo in Europa ma che stanno interessando il riassetto del capitalismo nella scena internazionale.

Vincent Wright sostiene che le ragioni delle privatizzazioni possono essere ricondotte a cinque: “ideological, economic, managerial,political and financial”. Per quanto riguarda il motivo ideologico è chiaro che il governo conservatore della Thatcher abbia inteso ridurre la presenza dello Stato nel sistema produttivo inglese in quanto ritenuto dannoso per il mercato; il motivo economico si può ricondurre alla volontà di restituire efficienza all’economia soprattutto in quei settori dove era più presente l’azienda pubblica. I motivi manageriali sono da ricondurre all’intenzione di restituire ai managers delle imprese private una piena responsabilità delle scelte della gestione e un completo potere decisionale (in un contesto quindi di autonomia gestionale), scegliendo definitivamente il modello d’impresa manageriale.

Infine fra i motivi di opportunità politica e finanziaria: “Non può ... sottovalutarsi né la volontà dei conservatori di erodere i tradizionali baluardi del potere laburista /public housing estates, ad esempio), né il risultato di ricapitalizzazione della finanza pubblica ottenuto con il guadagno di ingenti somme e con la cessione di imprese i cui deficit avevano largamente gravato sui bilanci statali”. [15]

Nel 1987 il crollo della Borsa valori ha fatto si che il processo di privatizzazioni si sia rallentato notevolmente negli anni seguenti (dal 1987 al 1992) anche se vi sono state importanti vendite nei settori dell’automobile , dell’acciaio, dell’acqua e della telefonia (nel 1992 si è conclusa la vendita della British Telecom). (Si veda in proposito la Tab.9).

Le imprese dell’area anglosassone, inoltre, sottoposte alla concorrenza di quelle giapponesi e asiatiche in genere, per non essere escluse dal mercato, hanno dovuto abbandonare il loro comportamento caratterizzato dalla “pigrizia” nella ricerca di una migliore redditività di lungo periodo e di conseguenza a migliorare competitività strategica.

Va ricordato inoltre il ruolo svolto dagli investitori istituzionali detentori di quote elevate del capitale; questi azionisti riescono a vincolare ed orientare le strategie dell’impresa in quanto: “I proprietari istituzionali hanno la capacità di applicare il loro potere al mercato , comprando o vendendo titoli. Inoltre possono influenzare la società con altri mezzi, quali campagne di pressione rivolte a specifici problemi, e tentativi diretti di controllare il processo di decisione interna, magari in accordo con membri del consiglio di amministrazione”. [16]

Ed è proprio la presenza sempre più diffusa degli investitori istituzionali, rispetto ai privati, che, causando un crescente conflitto tra azionisti e managers, sta portando al lento declino di questo tipo d’impresa.

Le Public Companies sono ancora efficienti e produttive in campi quali l’elettronica, i settori farmaceutici, i settori dei computers, soprattutto perché in questo tipo di imprese aiutano e favoriscono opportunità di investimenti che non potrebbero essere sopportati dal solo flusso di cassa interno; invece nei settori della chimica, dell’acciaio, del legno ecc., caratterizzati da una crescita minima a lungo termine, questo tipo di impresa non è più utile come negli anni passati.

Va rilevato, pertanto, che questa forme di azionariato popolare sono, a nostro avviso, poco “spendibili” in una forma di capitalismo come quello inglese, americano caratterizzato da un liberismo selvaggio, nel quale l’uomo è considerato solo un mezzo all’interno delle amorali logiche di mercato. In questo tipo di società, di modello capitalistico, questo sistema di programmazione dell’azionariato popolare è stato gestito in modo tale da escludere del tutto i lavoratori dalla gestione decisionale dell’impresa, portando ad un aumento eccessivo del potere dei vertici aziendali, i quali, con la copertura di una sorta di “capitalismo dal volto umano”, hanno continuato indisturbati ad appropriarsi degli aumenti del profitto, senza redistribuirlo in modo più equo tra i diversi soggetti economici dell’azienda e senza che il processo distributivo abbia concorso ad una maggiore stabilità in termini economico-sociali [17].

Un elemento di distinzione del processo di privatizzazione della Gran Bretagna rispetto agli altri Stati si può ravvisare soprattutto nel massiccio passaggio da aziende nazionalizzate (public corporation) ad imprese aperte al mercato finanziario per quel che concerne il capitale. Sono stati però introdotti dei vincoli sulla proprietà: ad esempio gli stranieri possono detenere fino ad un massimo del 25% delle azioni, mentre l’azionista singolo in genere può partecipare per una quota che va dal 5 ad un massimo del 15%.

Vi è poi da ricordare l’introduzione della golden share [18] (azione d’oro) la quale, pur rappresentando una partecipazione simbolica per quanto riguarda l’entità, costituisce un aspetto molto importante all’interno delle imprese poiché consente allo Stato di conservare un potere decisivo nelle scelte strategiche delle aziende (in imprese come la British Oil, la Jaguar, la British Telecom lo Stato ha mantenuto la golden share). Il governo britannico ha utilizzato strumentalmente ad uso politico la golden share nel processo di privatizzazione, in modo da poter in apparenza dimostrare un connotato ancora sociale del suo operare. Infatti le fonti governative hanno posto l’obiettivo di mantenimento della golden share dimostrandolo utile soprattutto per mantenere inalterate quelle finalità sociali fondamentali nelle attività e nei servizi collettivi (il governo ha persino parlato di protezione dei consumatori e di finalità volte al raggiungimento dell’efficienza in settori strategici quali la telecomunicazione, l’energia, il gas ecc.

Va anche ricordato che spesso l’utilizzo della golden share è stato giustificato dalla necessità di proteggere gli interessi nazionali nei confronti di investitori stranieri, o ancora dall’esigenza di limitare il monopolio privato nel caso in cui le imprese privatizzate operavano in condizioni di monopolio pubblico.

Il programma di privatizzazione britannico, iniziato con l’obiettivo di mirare alla realizzazione di un liberismo sfrenato, voluto dal governo Thatcher, è stato giustificato con false motivazioni sociali, quali quelle di sviluppare l’azionariato diffuso popolare e di consentire ai piccoli risparmiatori, ai lavoratori di aumentare la loro partecipazione azionaria, realizzando così solo apparenti forme di democrazia economica.

I risultati raggiunti con il processo di privatizzazione non sono stati quelli attesi; le misure che il governo ha adottato per liberalizzare il sistema economico non sono state sufficienti a realizzare la concorrenza all’interno del mercato; le privatizzazioni hanno portato quasi sempre ad una sostituzione del monopolio pubblico con una sorta di monopolio privato (basta guardare il caso della British Telecom: il monopolio si è trasformato in duopolio con l’intervento della Mercury, la quale peraltro si occupa di aree e settori commerciali diversi da quelli coperti dalla British).

Il caso della British Telecom è emblematico anche per un altro aspetto: pur essendo infatti cresciuta la percentuale dei profitti ( si è arrivati anche a valori vicini al 40%) si è avuta però una diminuzione degli occupati (2000 lavoratori in meno) e una crescente insoddisfazione da parte dei consumatori. Va ricordato anche che, pur essendo state sottoscritte azioni da 2,1 milioni di investitori privati (promozione dell’azionariato popolare), un numero elevato di piccoli risparmiatori ha rivenduto in tempi brevissimi la propria partecipazione all’impresa privatizzata (solo nei primi dieci giorni seguenti l’emissione delle azioni British Telecom sono state rivendute 400mila azioni).

Va anche ricordato che la maggior parte delle imprese pubbliche appartenenti al settore industriale è stato ceduto attraverso la tecnica della privatizzazione sostanziale; altri servizi invece, quali i trasporti e le varie utenze pubbliche, sono stati dismessi soprattutto con le tecniche di privatizzazione funzionale e gestionale. Un dato merita ancora di essere ricordato: il Regno Unito è diventato, dopo il processo di privatizzazione, la parte dell’Europa occidentale con la minore incidenza del settore pubblico (Cfr.Graff.12 e 13).

Il caso britannico è comunque emblematico poiché :

“ In sintesi:

a) si è visto che l’inclusione dei proventi di privatizzazione nel saldo di bilancio è una operazione contabile giustificabile solo in relazione a previsioni di cassa a breve. Le stese previsioni di cassa a medio-lungo termine richiedono aggiustamenti in relazione alla possibilità di minori entrate future. Inoltre, sotto il profilo della valutazione del patrimonio netto dello Stato la prassi anzidetta è erronea o quanto meno ingannatrice, poiché trascura di valorizzare adeguatamente la diminuzione di attività reali connessa alla privatizzazione. Studi recenti, ancora di carattere esplorativo, suggeriscono che, nel caso britannico, a fronte di proventi netti positivi da privatizzazione, il patrimonio pubblico può diminuire;

b) effetti patrimoniali sfavorevoli sono tanto più probabili quanto più il governo concede premi al compratore sul prezzo di vendita di beni capitali......;

c) il caso britannico suggerisce che privatizzazioni su larga scala, in presenza di consistenti premi per i compratori iniziali, possono avere effetti di disturbo sul tasso di risparmio delle famiglie e sugli investimenti reali del settore privato, non compensati da investimenti pubblici e nelle imprese privatizzate. Il declino della domanda di investimenti e l’aumento di consumi privati, in mancanza di politiche fiscali di accompagnamento e in presenza di strozzature dell’offerta, possono favorire tensioni inflazionistiche e squilibri della bilancia commerciale;....

L’impatto macroeconomico delle privatizzazioni non marginali dovrà essere valutato caso per caso...questa valutazione va integrata con quella sugli effetti diretti a breve e a medio-lungo termine sullo stato della finanza pubblica e con considerazioni di economia del benessere”. [19]

Nel Graf.14 si evidenzia l’entità delle privatizzazioni in Gran Bretagna nel periodo che va dal 1981 al 1991; i dati, in milioni di sterline, mostrano quanto sia stata elevata l’entità del processo economico messo in atto dall’intera operazione.

 

La Tab.10 seguente invece focalizza l’attenzione sui ricavi ottenuti dalle maggiori privatizzazioni.

E’ interessante a questo punto concludere, sottolineando che:

“La foga con cui Margaret Thatcher ha cavalcato le privatizzazioni, il vento della deregulation dell’America di Reagan, il crollo dei regimi comunisti e le serie difficoltà attraversate nell’ultimo decennio dagli ideali socialdemocratici, spingono oggi a vedere le nazionalizzazioni come uno strumento antiquato, figlio di una concezione social-dirigista dell’economia. Ciò è in parte vero, ma sarebbe ipocrita non ricordare che molte sono state le nazionalizzazioni frutto dell’incapacità dei privati piuttosto che delle velleità dei governanti... Ciò che ci interessa sapere è se, in una democrazia avanzata con una solida economia, una legislazione profondamente civile e un mercato finanziario evoluto, è possibile lasciare ai privati la gestione di tutte le aziende di un Paese, compresi i monopoli naturali per eccellenza quali gas, acqua, elettricità, ferrovie e miniere...” [20].

I conservatori inglesi, ma anche se con poche diverse sfumature questa è anche la posizione del governo progressista di Blair, sono convinti che tutto può essere privatizzato se lo Stato continua ad esercitare alcune diversificate tipologie di controllo formale, e se l’impresa privatizzata rimane sempre sana dal punto di vista economico. Ma è proprio il modello di capitalismo anglosassone il maggior portatore delle gravi ricadute sociali sul piano internazionale, non ultime quelle riguardanti gli effetti negativi sull’occupazione, sull’abbattimento del welfare, sulla povertà crescente, sul danno ambientale, su un colossale divario Nord-Sud che si aggiunge alla totale precarizzazione della qualità della vita che interessa ormai anche tutti i paesi ad industrialismo avanzato.

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FRANCIA

La Francia si è distinta, rispetto agli altri Stati Europei, per il massiccio intervento di nazionalizzazioni che ha caratterizzato questo paese per oltre cinquanta anni. E’ opportuno ricordare che l’intervento pubblico si è attuato in tre diversi periodi: le prime grandi nazionalizzazioni si sono avute nel 1936 ad opera del fronte popolare, seguite dalle nazionalizzazioni del dopoguerra avvenute nel 1946 (si ricorda la Renault e l’Air France), ed infine nel 1982 con il governo socialista si è avuto il trasferimento al settore pubblico di grandi imprese industriali (quali la Saint Gobain, la Rhone Poulenc) e finanziarie (Suez, Paribas). L’obiettivo dell’intervento pubblico è stato quello di consentire al paese una rapida ricostruzione dopo le due guerre e di modernizzare la struttura produttiva nel modo più efficiente possibile, salvaguardando e rafforzando l’interesse collettivo.

Il caso della Francia presenta degli aspetti molto particolari: si è avuta, infatti, in periodi di tempo molto ravvicinati l’alternanza di due strategie di governo opposte fra loro. Da un lato il programma del governo socialista che ha dato il via ad un intenso programma di nazionalizzazioni (ad opera del Ministro Mauroy); dall’altro, a breve distanza di tempo, la politica del governo di Chirac che ha avviato un esteso processo di privatizzazioni e di abbattimento delle garanzie sociali collettive.

Nel 1986, infatti, il quadro politico della Francia è mutato con la vittoria dei partiti del centro-destra; il presidente Mitterand si è trovato a dover governare con una maggioranza ostile e ciò ha avuto, tra l’altro, come conseguenza l’avvio del processo di privatizzazione e il rafforzamento delle componenti ed istituzioni del capitale più marcatamente ad indirizzo antipopolare e a liberismo selvaggio. Considerato il fatto che la costituzione francese all’art.34 impone che per vendere una proprietà dello Stato è obbligatorio varare una legge, nel 1986 sono state emesse due leggi che indicavano le norme e le modalità per privatizzare 65 imprese nell’arco di cinque anni. Va rilevato, però, che quasi tutte le imprese privatizzate appartenevano ai settori bancari e finanziari in quanto la costituzione francese impedisce il passaggio ai settori privati di aziende considerate di pubblica utilità. Infatti la legge del 2 Luglio 1986 stabilisce dei principi secondo i quali “... l’impresa non deve essere fornitrice di pubblica utilità, salvo parere favorevole di delega del Consiglio Costituzionale; l’impresa non deve di fatto operare in condizioni di monopolio, avendo riguardo tanto alla concorrenza effettiva quanto alla potenziale struttura del mercato, ove non regolamentato” [21].

Per garantire la massima trasparenza nel processo di privatizzazione la legge, oltre ad istituire una Commissione di vigilanza di sette esperti nominati dal Governo ed in carica per cinque anni, ha realizzato la costituzione di un cosiddetto “nocciolo duro” di azionisti con lo scopo di garantire l’impresa da scalate ostili da parte di privati. In ogni operazione di vendita, infatti, agli investitori stranieri non poteva essere destinato più del 20%, il 10% del capitale doveva essere riservato ai dipendenti ed il residuo 70% era ripartito tra il nucleo stabile e l’offerta pubblica ai risparmiatori francesi; era previsto, infine, un limite di sottoscrizione per ciascun investitore del 5%.

Va evidenziato che non essendo state privatizzate le imprese che gestivano servizi pubblici di prima necessità, l’impatto sul mercato dell’intero processo di vendita si è rivelato molto più leggero se confrontato con quello di altri paesi (ad esempio la Gran Bretagna).

Nel 1986 si è avuto l’avvio del vero e proprio processo di privatizzazione con la vendita della società Saint Gobain, seguita dalla holding finanziaria Paribas nel gennaio 1987, dal Credit Commercial de France, dalla Compagnie Gènèrale d’Electricitè e dalla Sociètè Gènèrale e dalla Suez. Si è avuta poi la privatizzazione della Compagnie Gènèrale de Construction Tèlèphoniques (Cgct), della rete televisiva TF1 (Sociètè Nationale de Programme Tèlèvision Française 1), della Matra (azienda che produce sistemi di difesa, radiotelefoni ed altre apparecchiature elettroniche), della Caisse Nationale de Crèdit Agricole e dell’Institute de Dèveloppment Industriel (queste due ultime imprese non comparivano nell’elenco delle 65 imprese da privatizzare in base alla legge del 1986). Per una panoramica dei dati generali sul processo di privatizzazione francese si veda la Tab.11.

Nel 1988, a causa del cambiamento del governo, si è avuto un arresto del programma di privatizzazione che di fatto ha portato a termine circa la metà delle operazioni previste.

Va ricordato che il governo francese ha introdotto due meccanismi per consentire il controllo dello Stato nei settori privatizzati: le noyau dur e l’action spècifique.

L’action spècifique può essere paragonata alla golden share inglese ed in sostanza permette al Governo di porre un veto a chiunque intende acquistare una quota superiore al 10% del capitale azionario; l’azione specifica aveva una durata massima di cinque anni, trascorsi i quali diventava un’azione ordinaria.

Con la “noyau dur” (il nocciolo duro) si è voluta garantire la stabilità delle imprese attraverso l’acquisto di una quota del capitale (dal 20 al 30%) da parte di 10-20 grandi azionisti, ciascuno dei quali possiede una quota oscillante tra lo 0,25 e il 5% del capitale. Gli azionisti componenti il nocciolo duro, scelti dal Ministro delle Finanze, detengono una posizione privilegiata di controllo e per compensare questo privilegio pagano un prezzo superiore a quello pagato nell’offerta pubblica; la maggiorazione oscilla tra il 2 e il 10% del prezzo dell’offerta.

L’introduzione del noyau dur rappresenta una grande innovazione tecnica ed istituzionale delle privatizzazioni francesi; infatti

“Innovazione tecnica, perché è stato introdotto un meccanismo di vendita in due tempi che si è collocata a metà strada tra le privatizzazioni popolari, in cui l’intero capitale è stato ceduto ad una miriade di piccoli azionisti (caso più frequente in Inghilterra), e le vendite ai privati, in cui un’azienda di Stato è stata ceduta ad un solo azionista. Ma anche l’innovazione istituzionale, poiché il nucleo duro ha espresso una precisa strategia di intervento pubblico sulla costituzione del nucleo azionario; ha prefigurato un assetto desiderabile della proprietà di grandi gruppi privati, ha posto limiti, anche dopo la privatizzazione, alle leggi del mercato. In questo senso , le privatizzazioni francesi ( a differenza di quelle inglesi) hanno rappresentato altra cosa che non un semplice passaggio dal dominio dello stato a quello di Borsa” [22].

In definitiva, quindi, in Francia l’assetto proprietario si è configurato in termini molto diversi rispetto a quello britannico; in Inghilterra infatti, si è avuta una massiccia partecipazione delle famiglie attraverso investitori istituzionali mentre in Francia la proprietà si è concentrata soprattutto sotto il controllo di banche e imprese.

Va sottolineato un dato fondamentale: le privatizzazioni francesi non hanno stravolto le strategie aziendali delle imprese pubbliche, ritenute soddisfacenti, ma hanno invece cercato di equilibrare il più possibile il rapporto tra il settore privato e il settore pubblico.

Negli anni ‘90 è ripreso il processo di privatizzazione che si era interrotto nel 1988; l’obiettivo è stato di ultimare le vendite di tutte le imprese che non erano state concluse nel programma precedente.

In questa fase sono state alienate grandi banche come la Banque Nationale de Paris, la Credit Lyonnais, imprese di assicurazione come la Nap e la Gan, ed altri grandi colossi come la Rhone Poulenc e la Pèchiney. Nel programma di vendita sono state inserite anche imprese, escluse precedentemente perché operanti in regime di monopolio, come l’Air France. Questo programma di privatizzazione che ha preso l’avvio effettivo nel 1993 (con la legge del 19 Luglio,n.923), è stato caratterizzato dalla rapidità delle operazioni di vendita; dal momento della decisione di vendita al collocamento sul mercato, infatti, si è previsto di non superare i tre mesi di tempo.

In questa fase il governo, pur non rinunciando al nocciolo duro, ha cercato di indirizzare la maggior parte delle vendite al pubblico, con l’intento di creare una sorta di azionariato diffuso ( che si avvicini a quello inglese).

Un’altra novità rispetto al programma di privatizzazione del 1986 riguarda il ruolo della Commissione di Vigilanza che ora, oltre a fissare il prezzo minimo di trasferimento delle imprese, si pronuncia anche sulla scelta dei possibili componenti il nucleo duro di controllo.

Va inoltre considerato che mentre nel 1986 il programma di privatizzazioni era stato al centro di un dibattito molto sentito sul ruolo dello Stato , nel 1993 la discussione ha riguardato soprattutto gli aspetti prettamente finanziari delle privatizzazioni, le tecniche di attuazione e le connesse implicazioni monetarie. [23]

GERMANIA

La scarsa presenza del settore pubblico nell’economia della Germania ha caratterizzato questo Paese rispetto alle altre realtà europee; la mancanza di un piano di nazionalizzazione dopo la seconda guerra mondiale ha reso meno necessario l’avvio di un processo di privatizzazione. Ciò dipende anche dal modello che il capitalismo tedesco si è dato.

In Germania, infatti, le imprese chiedono i finanziamenti alle banche senza bisogno di ricorrere alla borsa o a finanziatori privati; basti pensare che la Bertelsmann, il primo gruppo editoriale europeo non è quotato in borsa. Tutto ciò è possibile perché le banche tedesche non sono limitate da regole, sono “universali” in quanto possono agire nei settori più diversi, sia concedendo crediti e raccogliendo depositi sia operando fusioni; in sostanza riescono ad ottenere con i loro clienti rapporti basati su una costante collaborazione, in modo da finanziare le imprese, assumendo in contropartita, oltre ad un ritorno di redditività dei finanziamenti, anche un ruolo importante nei Consigli di Amministrazione delle stesse, sia attraverso la proprietà di azioni sia attraverso i voti degli azionisti che accendono dei conti nella stessa banca.

Gli incroci azionari agiscono però anche in senso contrario in quanto spesso le imprese stesse possiedono una quota azionaria del capitale delle banche; questa situazione fa si che, oltre a garantire una maggiore certezza per il management determinata dalla stabilità degli azionisti, è possibile attuare politiche di sviluppo a lungo termine, senza essere costretti a raggiungere il massimo utile possibile in tempi brevi (come ad esempio avviene per gli speculatori operanti in borsa che tendono ad ottenere il massimo vantaggio possibile in pochi mesi).

Inoltre la fitta rete di incroci azionari garantisce all’intero sistema una “chiusura verso l’esterno difficilmente penetrabile”; in sostanza la Germania pur essendo aperta a ogni tipo di scambio commerciale è comunque chiusa e difesa da ogni interferenza finanziaria da parte di investitori stranieri.  [24]

Il confronto dei dati con quelli della Francia, del Portogallo, della Spagna e della Gran Bretagna fa risaltare il fatto che la Germania è il paese con il numero minore di imprese privatizzate (Cfr. Tab.12 e Graf.15).

Un vero e proprio processo di privatizzazione si è avuto verso la metà degli anni ’80; la politica seguita dal cancelliere Kohl ha dato l’avvio alla dismissione di alcune imprese che operavano in alcuni settori dei servizi pubblici; ma è nel 1990, con la riunificazione delle due Germanie che si assiste ad un vero e proprio processo di riconversione economica ed industriale: la legge affida al Treuhandanstalt il compito di vendere l’intero patrimonio dell’ex Repubblica Federale Tedesca (di questo organo si parlerà più diffusamente in seguito).

La dinamica della vendita di aziende si è sviluppata seguendo due tipologie di azione: la privatizzazione sostanziale e la privatizzazione formale.

Va ricordato innanzitutto che in Germania gran parte delle imprese pubbliche non dipendeva dal governo centrale ma dalle amministrazioni locali o regionali. La privatizzazione in questi casi è stata effettuata soprattutto per trarne benefici istituzionali; il privato è stato invogliato a sostituirsi al pubblico attraverso la costituzione di società soggette al diritto privato ma con l’autorità pubblica quale azionista di maggioranza (privatizzazione formale). In questo modo è stata affidata ai privati la gestione di ospedali, teatri, strade, porti, mense scolastiche, ecc., iniziando così a rompere quella tradizione “sociale e compartecipativa” del modello renano.

Nel caso invece di imprese soggette al controllo del governo centrale si è attuata una privatizzazione sostanziale; la responsabilità delle operazioni è stata affidata al Ministro delle Finanze (il quale aveva un potere di veto sulla gestione della vendita).

Il programma di privatizzazione, avviato nel 1986, ha interessato soprattutto il settore industriale ed alcuni settori del terziario (banche). Le vendite hanno interessato solo una parte delle azioni detenute dallo Stato per consentirgli di mantenere un certo controllo sulla proprietà [25]; l’unica eccezione si è avuta per la cessione della Volkswagen e della Veba nelle quali è stata venduta l’intera quota pubblica.

Va ricordato che uno degli obiettivi del programma di privatizzazione è stato il risanamento del bilancio statale finalizzato, almeno nell’apparenza, all’unificazione europea; tutti i proventi realizzati dalle vendite sono stati infatti utilizzati per la riduzione del debito pubblico.

Gli eventi degli anni pregressi, con la riunificazione della Germania hanno causato un elevato indebitamento del bilancio pubblico; la principale conseguenza di questo stato di cose ha portato ad intensificare il processo di privatizzazione, finalizzato a “far cassa” per affrontare i costi della riunificazione e per imporre l’esempio agli altri paesi europei di quale dovesse essere il modello liberista dominante per l’intero continente. I settori di attività economica maggiormente interessati alle privatizzazioni sono stati le banche, le assicurazioni, le telecomunicazioni, l’energia elettrica.

L’unificazione della Repubblica Federale con l’ex Repubblica Democratica, avvenuta nel 1990, ha portato all’unione di due realtà politico, culturali, economico e sociali molto diverse; questa situazione ha fatto sì che il processo di privatizzazione in Germania sia avvenuta molto bruscamente soprattutto perché di fatto le imprese dell’est si sono trovate a sostenere un confronto diretto con la concorrenza internazionale in un’ottica di mercato non sempre regolamentato e di liberismo sfrenato.

“Il paradosso del caso tedesco sta oggi nel fatto che la forza stessa dell’economia della Germania Occidentale, che si pensava potesse produrre una transizione più morbida ( in confronto a quella dei vicini dell’Europa centro-Orientale) si è rivelata, nel suo stadio iniziale, anche come fonte di problemi. In particolare, lo spettacolare aumento della domanda dei beni di consumo nei territori appena incorporati è stato affrontato in un primo tempo con l’espansione della produzione da parte delle imprese della Germania Occidentale. In tal modo, se nel lungo periodo potrebbe essere vero che il “fratello ricco” salverà la situazione comprando imprese, nel breve periodo esso ha cominciato col vendere prodotti ai suoi parenti più poveri e insoddisfatti. Non concorrenziali sul mercato mondiale, incapaci di vendere beni sul mercato tedesco-occidentale, ed ora non competitive sul loro territorio, le imprese della ex Germania Orientale hanno visto i loro mercati evaporare nel giro di settimane. Senza ordini e senza lavoro, milioni di dipendenti di queste imprese in via di fallimento hanno cominciato a ricevere sussidi di disoccupazione mascherati sotto forma di “lavoro a orario ridotto”,...Ma questo lavoro ad orario ridotto viene a cessare col 30 Giugno 1991.....” [26].

Ciò ha avuto come conseguenza principale una massiccio aumento del numero dei disoccupati, di precari, di nuove povertà e marginalità. Questa situazione ha avuto indirettamente delle ripercussioni anche nell’opera della Treuhandanstalt, l’organo che ha gestito il processo di privatizzazione.

La Treuhandanstalt si è distinta da istituzioni simili sorte negli altri Stati per l’elevato grado di autonomia e di potere che possiede nella conduzione delle operazioni di vendita. Questo ente, oltre alla vera e propria vendita di imprese pubbliche, e al decentramento delle varie strutture aziendali troppo concentrate, provvede anche al risanamento delle imprese o alla loro chiusura se queste vengono considerate senza prospettive. [27]

L’ente in oggetto è stato istituito con una legge del 1990, con la quale in sostanza tutto il patrimonio produttivo della ex Repubblica Democratica diventava di proprietà della Treuhandanstalt. Tutte le aziende che non sono state chiuse o vendute sono rimaste sotto il controllo di questo ente che provvede alla riorganizzazione anche attraverso eventuali sussidi. Questa operazione d’intensa privatizzazione ha portato alla chiusura di oltre 2.300 aziende ritenute senza prospettive, mentre circa 1.200 imprese sono rimaste sotto l’amministrazione della Treuhandanstalt.

La maggior parte delle cessioni è avvenuta attraverso vendita diretta; le piccole imprese sono state cedute per oltre il 70% ai residenti nelle provincie orientali. Va ricordato che dopo appena un anno dalla costituzione della Treuhandanstalt circa il 90% delle 19.000 piccole imprese era stato ceduto ai privati.

Sono inoltre state vendute 12.000 su 13.000 medie e grandi imprese; circa il 4.6% di queste imprese è stato ceduto ad investitori stranieri (soprattutto francesi e americani), mentre il 78,7% ha interessato investitori istituzionali della Germania occidentale; il restante 16,7% delle privatizzazioni si è svolto attraverso la tecnica del management buy-out. (vedi Graf.16)

Gli altri paesi dell’Europa Occidentale

E’ interessante a questo punto mostrare una panoramica delle principali operazioni di privatizzazione effettuate in diversi Paesi dell’Europa occidentale nel periodo che va dal 1988 al 1991.

Il confronto tra le altre varie realtà europee mostra chiaramente quanto sia stato rilevante l’intero programma di vendite dal settore pubblico ai privati per l’economia complessiva di questi Paesi; in particolare notare i dati della Gran Bretagna e del Portogallo che risultano essere stati molto influenzati dall’intero processo di privatizzazione. (Cfr. Graff. 17, 18, 19)

 

 

BELGIO

Da diversi anni in questo Paese sono stati dismessi ai privati alcuni servizi del settore della salute, delle assicurazioni, e dell’istruzione; di solito nei settori operanti in regime di monopolio è stata attuata la tecnica della concessione per consentire il mantenimento, da parte dello Stato, del controllo del monopolio e vincolare i privati sul grado di efficienza da seguire.

Nel 1993 il governo belga ha avviato un nuovo programma di privatizzazione con lo scopo di contenere il deficit di bilancio ai fini dell’unificazione europea secondo i parametri di Maastricht; sono state previste privatizzazioni nel settore dell’energia (Distrigaz), del traffico aereo (Sabena) delle telecomunicazioni (Belgacom) e bancario (Snci, Sni, Occh).

E’ stata invece conclusa la privatizzazione della Caisse Gènèrale d’Epargne et de Retraite (CGER), una holding che controlla una società bancaria (CGER Banque) e una società assicurativa (CGER Assurance). Questa holding è stata ceduta al gruppo belga olandese Fortis; ambedue le imprese facenti capo alla CGER sono state cedute per una quota pari al 49,9% con l’opzione di un ulteriore 0,1%. E’ prevista inoltre la possibilità per la Fortis di comprare un altro 9,8% delle due imprese; in questo modo vi sarebbe una eccezione al veto posto dalla legge di impedire la cessione della maggioranza assoluta ai privati.

OLANDA

Il programma di privatizzazioni in Olanda è iniziato nel 1988 con la vendita delle quote di minoranza della Hoogovens (settore siderurgico), della Post Bank, dello Middenstandsbank (settore bancario) e del gruppo DSM (settore chimico).

Pur essendo poco significativo in questo paese il fenomeno delle vendite di imprese appartenenti al settore pubblico, va rilevato che, negli anni ‘90, dopo aver ceduto le proprie partecipazioni alla Volvo (auto) e alla Rom (cantieri) e Fokker (aerei), il Governo olandese sta preparando un più articolato programma di privatizzazioni che interesserà soprattutto i settori dell’edilizia e dei servizi essenziali come il gas, l’energia, le comunicazioni, la sanità e i trasporti.

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AUSTRIA

Anche in questo Paese il programma di privatizzazioni ha origini lontane: già nel 1942 l’intero settore bancario è passato ai privati, mentre nel 1972 c’è stata la cessione del pacchetto di maggioranza della Siemens AG all’impresa madre tedesca. Vi è stata inoltre una notevole espansione delle “concessioni”, soprattutto per quel che riguarda le imprese municipalizzate.

Il programma del partito conservatore (OVP) si è incentrato su due fasi : nella prima si è trattato di attuare una privatizzazione parziale che ha interessato soprattutto i settori del credito e dei trasporti e nella quale lo Stato si è conservato una sorta di controllo sulle imprese; nella seconda fase poi si attua una privatizzazione totale che riguarda soprattutto le aziende del settore turistico.

Il progetto del partito socialista sulle privatizzazioni non è molto diverso da quello dei conservatori, sia sulle modalità da seguire sia per la sua attuazione anche in termini di scelte politico-economiche generali. Alcune differenze si possono trovare sugli obiettivi da raggiungere: i socialisti, infatti, tendono ad attuare, almeno nella intenzioni, una democrazia sociale che si ispira alla gestione comune dei mezzi di produzione da parte dei diversi operatori sociali ed economici. In questo senso anche la privatizzazione del settore pubblico deve garantire una reale rappresentatività delle varie figure sociali attraverso il mantenimento del controllo da parte dello Stato; un modello cioè compartecipativo ispirato al capitalismo renano nipponico.

Fino agli anni’80, comunque, il settore pubblico nell’economia austriaca ha rappresentato una quota considerevole del sistema produttivo (la percentuale era del 24% in termini di prodotto interno lordo); i campi di applicazione erano soprattutto quelli delle infrastrutture, dei trasporti, e delle telecomunicazioni.

In questi ultimi anni è stato avviato un nuovo programma di privatizzazione che riguarderà in particolare società del settore bancario ed energetico (BankAustria ed OMV).

SVEZIA

In questo paese il processo di privatizzazione è stato abbastanza limitato; dal 1982 al 1989 il passaggio dal settore pubblico al settore privato delle imprese si è svolto soprattutto nei settori industriale e bancario.

L’intero programma di privatizzazione ha realizzato entrate molto modeste (la cifra si aggira tra i 4 e i 5 miliardi di corone). Tra le principali imprese privatizzate in modo parziale vanno ricordate la SSAB (settore acciaio), la Luxor ( settore elettronico), la Procordia (settore farmaceutico e alimentare), la Kabivitrum di Stoccolma (settore farmaceutico) e due banche (la Pk Banken e la Nordbanken). Tutte le vendite hanno riguardato investitori istituzionali, con la sola eccezione della Luxor che è stata ceduta alla Nokia finlandese.

Nel 1990 è stato riformato l’assetto delle aziende pubbliche con la creazione di una holding di Stato, la Fortia, a cui è passata la proprietà di queste imprese. Lo scopo di questa operazione è stato sia quello di ottenere elevati introiti (circa 30 miliardi di corone) sia quello di realizzare un nuovo programma di privatizzazione con portata più estesa (su 60 imprese pubbliche 35 avevano la possibilità di essere alienate totalmente). Il forte disavanzo pubblico di questo paese spinge il Governo a cercare nuove entrate e quindi rende necessaria l’attuazione di questo nuovo processo di privatizzazione, allineandosi così alle tendenze volute delle grandi istituzioni internazionali del capitale.

Le imprese interessate a questo programma sono state aziende manifatturiere, gruppi industriali ed alcune banche. Ancora oggi è in atto il piano di dismissione iniziato nel 1990 e, oltre alle imprese già menzionate, riguarda il 100% del patrimonio pubblico della Gotabank (banca), della Luftfartsrerket (aereoporti), della Televerkel (telecomunicazioni), e della Celsius (tecnologia).

NORVEGIA

Anche questo paese non si è distinto per un significativo programma di privatizzazioni; finora sono state cedute solo quote di minoranza di società operanti nei settori petrolifero ed ingegneristico (Conberg, Statoil e Snoore).

E’ comunque prevista la vendita rispettivamente del 70 e del 100 per cento delle banche DNB e Christiana.

PORTOGALLO

L’obiettivo di “liberare” l’economia del paese dal potere delle imprese straniere ha portato il governo portoghese ad accrescere notevolmente la presenza del settore pubblico nel sistema produttivo; questa situazione si è protratta fino alla metà degli anni ’80.

Il programma di privatizzazione ha preso il via infatti solo dal 1987 con il governo socialdemocratico; pur restando di fatto in mano allo Stato le azioni di maggioranza delle imprese che forniscono i servizi pubblici primari (sono infatti state vendute solo quote di minoranza), si sono cedute ai privati molte società operanti nei settori elettrici, della siderurgia, di cantieristica, chimica ed informazione (Elettricità du Portugal, Siderurgica, Quichigal, Setenove, LDN, RECORD).

SPAGNA

Il processo di privatizzazione è iniziato in Spagna nel 1986 ed ha interessato soprattutto il settore industriale e dei servizi. L’INI (Instituto Nacional de Industria) [28] ha venduto ad imprese private straniere la Seat e la Purolator mentre, il 38% della Gesa ed il 98% della Endesa (ambedue operanti nel settore energetico) sono state alienate attraverso il mercato mobiliare.

Il governo spagnolo ha preparato un nuovo programma di privatizzazioni attraverso il quale mettere in vendita il gruppo bancario Argentina, l’Ence (settore di prodotti forestali) e la Tebacalera (settore alimentare e tabacco).

Sono previste entrate per circa 160 miliardi di pesetas.

PAESI DELL’EUROPA CENTRO-ORIENTALE ED ALTRI

Il processo di privatizzazione in questi paesi ha risentito molto della situazione politica e dei profondi mutamenti avvenuti in questi ultimi anni. il passaggio da una situazione in cui fino a poco tempo fa la produzione e gli scambi erano determinati da un sistema di pianificazione centralizzata (il settore pubblico rappresentava più del 90% in termini di prodotto interno lordo) fa assumere dei caratteri di assoluta unicità al processo di privatizzazione.

Va considerato che non è possibile effettuare confronti con le situazioni esistenti negli altri paesi europei, soprattutto perché in questi ultimi non si è trattato di riorganizzare i vari settori economici, quanto soprattutto di ristrutturali in base alle nuove situazioni.

E’ interessante comunque mostrare, per gli anni 1988-1991, una panoramica generale del totale delle privatizzazioni effettuate in Europa anche per evidenziare le differenze esistenti tra i paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa Orientale; va inoltre precisato che il grande numero di privatizzazioni attuate nell’Europa Orientale sono da attribuirsi in gran parte alle operazioni di vendita dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (si vedano la Tab.13 e il Graf. 20)

I problemi che il processo di privatizzazione ha comportato nei paesi dell’Europa Orientale sono molteplici e di vario genere: da un lato va considerato che le entrate statali delle imprese pubbliche non sono più praticabili in un contesto di mercato concorrenziale; è necessario quindi predisporre delle idonee misure fiscali che vadano a compensare la perdita delle entrate monetarie. Va ricordato poi che un rapido processo di privatizzazione attuato senza adeguati controlli può avere conseguenze molto negative sul livello dell’occupazione e sulla valutazione economica delle imprese pubbliche.

Le tecniche di privatizzazione hanno privilegiato la vendita diretta ai privati, pur se con modalità diverse da paese a paese. E’ necessario quindi fare una breve panoramica dei vari paesi interessati a questo processo per comprendere più compiutamente come, in che modo e se sono stati risolti i problemi derivanti da questa “rivoluzione (o involuzione) economica e politica”.

CECOSLOVACCHIA

Lo Stato deteneva fino a pochi anni fa il 90% delle imprese produttrici del Paese; il processo di privatizzazione ha quindi previsto la destatalizzazione della maggior parte di queste aziende con esclusione solo di quelle ritenute di interesse strategico nazionale.

Le principali leggi che hanno regolato il programma di privatizzazione sono del 1990 e del 1991; lo scopo di queste norme è stato soprattutto quello di diversificare il processo per le piccole e grandi imprese. Mentre la vendita delle piccole imprese ha comportato poche difficoltà, maggiori sono stati i problemi per la privatizzazione di grandi imprese; questo soprattutto perché si è cercato di non vendere quote elevate del patrimonio statale agli stranieri per paura di minare la struttura economica del paese.

Nel 1990 è stato approvata una legge che prevedeva la restituzione ai privati di circa 70.000 imprese, grandi e piccole, espropriate tra il 1955 e il 1961.

Tra le principali cessioni vanno ricordate quelle della Skoda (il 30% è stato venduto alla Volkswagen ed è prevista una ulteriore vendita fino al 70% del valore complessivo dell’azienda automobilistica); della Sklounion che opera nel settore della vetreria (il 70% è stato ceduto ad una società belga) e di altre imprese nei settori dei detersivi (acquistati dagli Stati Uniti) e del cemento (acquistati da società tedesche).

E’ stato inoltre predisposto un meccanismo attraverso il quale circa il 50% delle azioni delle imprese privatizzate (oltre 1000 aziende pubbliche) è stato distribuito quasi gratuitamente ai cittadini con età superiore ai 18 anni attraverso dei vouchers nominativi, imponendo dei vincoli temporali ed economici relativi ai termini di mantenimento e di partecipazione all’effettivo controllo d’impresa. E’ chiaro che questo strumento ha diminuito molto le entrate complessive dello Stato, ma si è rivelato efficace soprattutto perché la Cecoslovacchia non presentava un alto tasso di indebitamento.

POLONIA

Il programma di privatizzazioni in Polonia ha inizio nel 1989 nel momento in cui, a causa dei noti problemi politici esistenti, molti “apparatciki” si sono ritrovati a diventare proprietari di molte aziende scorporate dalle imprese statali. Il progetto del governo Mazowiecki di attirare gli investitori stranieri offrendo loro delle imprese pubbliche sane ed appetibili, si è rivelato infondato (soprattutto perché gli investitori stranieri hanno preferito di gran lunga orientarsi verso l’Ungheria) e di fatto l’unico obiettivo raggiunto dal Ministero per la Trasformazione della Proprietà è stato quello di liquidare le imprese che in sostanza sono state quasi tutte cedute a leasing ai dipendenti.

In seguito il governo Walesa ha avviato un nuovo massiccio programma di privatizzazione che nella prima fase ha puntato alla trasformazione di 400 aziende ; va ricordato che il 10% delle azioni di queste imprese sono andate a titolo gratuito ai Consigli Operai, mentre ogni cittadino polacco ha ricevuto gratuitamente dei buoni azionari.

La differenza con lo schema cecoslovacco si rileva soprattutto nel fatto che i cittadini polacchi, non potendo capitalizzare, ritirare o depositare a terzi soggetti le proprie azioni delle imprese in sostanza assumono un ruolo del tutto passivo nei confronti dell’intera operazione. Questo perché, nelle intenzioni del Governo, anche se la proprietà passerà ai privati, di fatto si vuole che la gestione economica delle imprese resti in mano a manager esperti. In sostanza quindi in luogo del “capitalismo popolare” ad azionariato diffuso e dei lavoratori, la realtà sta dimostrando come la Polonia abbia sposato un modello di capitalismo che cerca di mantenere una elevata concentrazione della proprietà. [29] Il programma di privatizzazione in Polonia si è sviluppato all’interno di un più ampio e massiccio piano di ristrutturazione industriale ed economica che ha coinvolto l’intero Paese. Le agenzie che si sono occupate della privatizzazione infatti hanno seguito due fasi : nella prima si è avuta una accurata analisi del settore oggetto di privatizzazione e si è definito un percorso da seguire per procedere alle vendite, nella seconda fase invece si è scelto lo strumento più idoneo per conseguire gli obiettivi delineati nella prima fase. In questo modo le vendite sono state effettuate con riferimento non alla singola azienda ma piuttosto all’intero settore interessato.

La legge del 1990 ha delegato al Ministero per la Trasformazione della Proprietà (MPT) il compito di occuparsi delle dinamiche di vendita. Il piano originario però che prevedeva la cessione di 400 imprese si è ampliato in modo straordinario essendo state identificate oltre 7000 imprese statali come possibile oggetto di vendita.

Anche in questo paese è stato scelto di permettere una larga partecipazione dei cittadini alle operazioni di vendita attraverso la distribuzione di buoni di partecipazione gratuiti a tutti i cittadini. Va comunque ricordato, però, che la gestione e il controllo sulla distribuzione e lo scambio di vouchers in azioni delle società privatizzate avviene attraverso il Fondo d’Investimento che rappresenta un “gestore delle proprietà “ istituito appositamente dallo Stato.

Il processo di privatizzazione ha per il momento interessato soprattutto le piccole imprese ( il 90% è stato già ceduto ai privati), mentre le medie e grandi imprese sono state cedute seguendo i criteri ritenuti più adatti dal Ministero per la Trasformazione della Società.

Questo programma di privatizzazioni ha incontrato dei problemi nella sua attuazione anche perché gran parte dei lavoratori (Comitati dei Lavoratori Autogestiti) non ha accettato l’istituzione del Fondi di Investimento e del Ministero per la Trasformazione della Società ritenuti strutture troppo burocratiche e poco trasparenti. Le lotte portate avanti dalla sinistra post-comunista hanno consentito di ottenere per i dipendenti delle imprese privatizzate un’altra quota delle azioni: il 10% gratis ed un 5% a prezzi preferenziali.

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EX UNIONE SOVIETICA

Nella primavera del 1990 si sono avuti i primi processi di privatizzazione, provocati soprattutto dal radicale mutamento di impostazione politica e dal conseguente dissesto economico che ha attraversato questo paese.

E’ stata varata una legge sull’imprenditorialità seguita da altre due leggi che riguardano le tecniche di privatizzazione e le misure antimonopolio; con la legge sull’imprenditorialità in sostanza, viene legalizzata l’appropriazione del profitto. Nell’ambito di queste privatizzazioni spontanee sono nate le Borse merci, organizzate come Borse moderne (ossia fornite di banche dati elettroniche, brokers) ma che gestiscono scambi di qualsiasi tipo di “prodotto”; nel 1991 erano sorte circa 200 Borse merci.

Sempre in questo periodo sono sorte anche le banche commerciali, il cui scopo principale era quello di raccogliere ed investire i risparmi dei cittadini e delle imprese, rafforzando l’idea del risparmio finanziario finalizzato al facile arricchire.

Il primo intervento legislativo si è avuto nel 1991, ed ha regolato le privatizzazioni utilizzando tutte le metodologie più in uso negli altri stati centrali europei (dai vouchers, alla cessione diretta ai cittadini di azioni gratuite, ecc.).

Va ricordato comunque che il metodo più utilizzato soprattutto in Russia è stato quello della “locazione di aziende con opzione di acquisto”. Questa procedura che prevedeva la concessione ai privati della locazione di un’impresa potenzialmente oggetto di vendita, aveva un duplice scopo: da un lato, infatti, in questo modo si manteneva il rapporto tra Stato e privato fino al momento effettivo della vendita, dall’altro si consentita ai privati di valutare nel periodo di locazione se effettivamente l’impresa poteva essere gestita con profitto.

Nel 1993 oltre 40.000 piccole aziende erano state vendute; per quanto riguarda le medie e grandi imprese invece va ricordato che le azioni sono state in parte vendute e in parte distribuite gratuitamente.

In Russia la privatizzazione è avvenuta attraverso la cessione tramite vouchers; come è accaduto per altri paesi dell’Europa centrale (es. Polonia) sono stati istituiti i Fondi di Investimento con lo scopo prioritario di salvaguardare gli interessi dei piccoli risparmiatori. Sono sorti più di 500 Fondi di Investimento in tutta la Russia ed hanno riscosso un notevole successo tra gli investitori.

Il processo di privatizzazione in questo paese ha comunque abbracciato tutti i settori economici dell’attività produttiva, agendo anche nel delicato settore dell’agricoltura.

UNGHERIA

L’Ungheria si è distinta dagli altri paesi dell’est europeo per il diverso approccio che ha avuto nei riguardi del programma di privatizzazione. Fin dal 1968 infatti, in questo paese, è stato abolito l’obbligo di seguire i piani di produzione decisi dallo Stato; questo ha permesso alle imprese di proprietà pubblica una gestione svincolata dalle scelte sostenute dalla struttura centralizzata. Questa situazione non ha portato però di fatto alla creazione di un’economia di mercato ed è stato necessario introdurre un vero e proprio programma di privatizzazione per decentralizzare il sistema produttivo del paese.

Come per gli altri paesi europei, in particolare nell’area orientale, anche in Ungheria le prime privatizzazioni non sono state supportate da leggi che le regolassero. Si è avuta così inizialmente una privatizzazione spontanea attraverso la quale l’impresa statale veniva trasformata in società per azioni; nel 1990 però sono state emanate due leggi che, oltre a regolare le precedenti privatizzazioni spontanee con la possibilità da parte dello Stato di riesaminare tutte le operazioni effettuate negli anni 1988 e 1989, hanno istituito l’Agenzia per la Proprietà Statale (APS).

Va ricordato che la APS non vende le imprese ma i diritti a gestire il processo della loro privatizzazione. L’Agenzia per la Proprietà Statale ha predisposto la vendita di oltre 600 imprese ed il processo di privatizzazione è tuttora in corso, con i suoi problemi e difficoltà.

Il processo di privatizzazione in Ungheria si caratterizza comunque per il suo connotato di riorganizzazione della proprietà attraverso una sorta di decentramento e “Qualunque sia il risultato, per ora possiamo osservare che la forma predominante di trasformazione dei rapporti di proprietà in Ungheria si presenta come l’esito di unacontrattazionesulla valutazione delle proprietà ed assume la forma di partecipazioni incrociate istituzionali all’interno delle quali i managers d’impresa usano risorse posizionali per estendere il loro effettivo esercizio dei diritti di proprietà. Per queste ragioni l’Ungheria ..... rappresenta l’intersezione di contrattazione, proprietà d’impresa e risorse posizionali”. [30]

ROMANIA

Il programma di privatizzazione di questo paese è stato condotto da un ente creato appositamente (l’Agenzia Nazionale per la Privatizzazione) che ha lo scopo di dirigere e controllare il trasferimento della proprietà pubblica ai privati. L’esecuzione e la distribuzione gratuita delle quote è demandata invece ai Fondi di Proprietà che emettono i certificati di partecipazione alle aziende privatizzate.

In Romania si è ancora all’inizio del vero e proprio processo di privatizzazione; il Governo ha stabilito per il momento che solo il 30% del patrimonio delle imprese pubbliche è da destinare alla vendita. Questa situazione dimostra che lo Stato è tuttora intenzionato a rimanere il principale azionista delle imprese pubbliche, limitando di fatto il percorso del processo di privatizzazione.

BULGARIA

In questo paese, pur non essendo stato delineato un vero e proprio processo di privatizzazione, sono stati adottati provvedimenti di liberalizzazione nel settore dell’agricoltura e del terziario. Nel 1989 sono stati venduti ai privati piccole imprese di proprietà dello Stato, ristoranti e piccoli negozi ed aziende del settore turistico.

TURCHIA

Le dimensioni ridotte del mercato mobiliare unite alla poca trasparenza della contabilità delle imprese e alla modesta posizione degli investitori interessati alla possibile acquisizione delle imprese pubbliche, ha portato in questo paese ad un modesto e quasi irrilevante processo di privatizzazione.

Merita comunque di essere ricordato che le imprese interessate al programma di privatizzazione sono state la Petrikim (settore petrolchimico), la Bogarici (trasporto aereo), la Teletas (telecomunicazioni), la Tourism Bank (settore alberghiero) e la Sunurbank ( settore tessile).

ISRAELE

E’ interessante per questo paese esaminare più da vicino le grandi privatizzazioni bancarie che si sono avute negli anni che vanno dal 1983 al 1994. Il sistema bancario in Israele era molto concentrato in quanto tre holding controllavano il settore bancario e dei servizi finanziari (Graf. 21); si tratta della Bank Leumi Le Israel (BLL), la Bank Hapoalim (BH, la Banca dei lavoratori) considerate tra le prime 200 maggiori banche del mondo, e la Israel Discount Bank (IDB).

Nonostante le dimensioni e l’importanza di questi tre gruppi bancari, va rilevato però che il governo israeliano manteneva il loro controllo attraverso la Banca d’Israele la quale assicurava la solvibilità e la stabilità dell’intero sistema bancario. Ciò dimostra in sostanza che il controllo statale sull’intero sistema bancario è sempre stato molto forte anche prima dell’effettiva acquisizione dei tre grandi gruppi bancari che si è avuta nel 1983.

Nel 1983, infatti, a seguito di speculazioni finanziarie degli investitori ( i quali anticipando una svalutazione della moneta iniziarono a comprare titoli stranieri e a vendere titoli bancari) il sistema bancario si è trovato a dover affrontare una situazione molto seria che poteva essere risolta senza l’intervento dello Stato.

Nell’ottobre 1983 il governo ha chiuso temporaneamente la borsa di Tel Aviv per evitare il completo tracollo delle azioni bancarie e contemporaneamente ha realizzato il cosiddetto “arrangement”, ossia l’acquisto delle principali istituzioni bancarie da parte dello Stato. L’accordo comportava, oltre al salvataggio degli azionisti, la ripresa della Borsa ed elemento principale, non prevedeva l’immediata nazionalizzazione delle banche in quanto lo Stato, pur finanziando l’intera operazione, non sarebbe apparso come proprietario né direttamente né indirettamente.

Va considerato che lo Stato non cercò in alcun modo di avere la proprietà delle banche essendo soddisfatto della situazione che si andava determinando. L’istituzione di una corporation governativa, la M.I. Holdings, infatti, con il compito di finanziare le trust companies, nuove sussidiarie delle banche, doveva assolvere il compito di riportare la situazione alla normalità. Questo però non è accaduto in quanto le banche non sono state in grado di ripagare i debiti che avevano con la M.I. Holdings; a questo punto si è pensato fosse giusto attuare una privatizzazione vera, a carattere sostanziale.

Alla fine del 1993, infatti, ha avuto inizio il vero e proprio programma di vendite che si è comunque caratterizzato per l’estrema lentezza delle operazioni. Questo è dovuto soprattutto al fatto che si è deciso di vendere le più grandi banche d’Israele per intero, senza alcuna suddivisione in settori di attività. Inoltre il processo di vendita deve coinvolgere solo compratori in grado di prendere il pieno controllo delle banche; quindi vendendo solo una esigua parte di azioni al pubblico dei piccoli risparmiatori in sostanza si è ceduta la proprietà delle banche ai gruppi di controllo originari. [31]

5. Le linee di tendenza

In conclusione qualunque sia il modello di capitalismo di riferimento la scelta dei processi di privatizzazioni diventano per il neoliberismo fondamentali per l’esaltazione del libero mercato nel quale, anche se in forme differenziate, prevale sempre e comunque l’economia finanziaria speculatrice a danno del fattore produttivo lavoro. Le privatizzazioni sono la linfa vitale del capitalismo e risultano determinanti per far emergere quei principi dominanti e quelle forze tese alla ricerca di obiettivi di guadagno, immediato o a medio lungo termine, che non si trasformano mai in processi di redistribuzione equa e di utilità sociale generale; gli equilibri, la stabilità, la redditività cercata dal sistema capitalistico internazionale attraverso le privatizzazioni si sono rivelati soltanto come processi di destabilizzazione degli equilibri politici, sociali e ambientali.

Si deve ormai porre all’ordine del giorno la capacità di sostenere, in termini non solo strettamente politici ma proprio da considerazioni macroeconomiche questa volta si di ordine globale, la necessità di un modello di sviluppo radicalmente diverso, capace di generare nuova e diversa occupazione, diversa ricchezza, un diverso modo di produrre e del vivere sociale. Un modello di sviluppo che punti alla distribuzione del lavoro, del reddito e dell’accumulazione del capitale, una modalità di sviluppo quindi ecocompatibile e solidale incentrato su forme di economia sociale capaci di creare diversa ricchezza e distribuire valore diffondendolo socialmente. A tal fine vanno riproposte le funzioni non solo di uno Stato regolatore, ma allo stesso tempo di Stato gestore ed occupatore che redistribuisca reddito e ricchezza attraverso gli investimenti produttivi e la creazione di posti di lavoro veri a pieni diritti; attraverso un’equità fiscale che colpisca l’evasione, la speculazione dei capitali ad investimento finanziario e forme di tassazione complessiva dei capitali da destinare alla lotta alle povertà e per le esigenze socio-ambientali ed occupazionali; attraverso un’equità distibutiva che rafforzi lo Stato sociale determinando un Welfare della socializzazione dell’accumulazione del capitale.

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Riferimenti Bibliografici ESSENZIALI

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Stark D., Le strategie di privatizzazione nell’Europa Orientale, in Stato e mercato, numero 34, aprile 1992.


[1] Parris H. et al.: “L’impresa pubblica nell’Europa occidentale”, Franco Angeli, Milano, 1988, pag. 14. In sostanza comunque l’impresa pubblica viene considerata nel Trattato dell’U.E. “.... in due distinte accezioni. Anzitutto è impresa pubblica quella in cui l’influenza dominante dei pubblici poteri si esercita attraverso diritti e facoltà inerenti alla proprietà od alla partecipazione finanziaria indipendentemente dall’attività svolta (si pensi alla miriade di società in partecipazione statale). In secondo luogo va considerata pubblica l’impresa esercente una attività ad inerenza pubblicistica per la quale l’ordinamento interno prevede la possibilità di deroghe al regime ordinario delle libertà di iniziativa sino al limite della sua completa soppressione, con il contestuale affidamento riservato (nel nostro ordinamento sicuramente trasporti, telecomunicazioni, energia, acquedotti, attività portuali, ecc.) ai pubblici poteri, i quali possono esercitarla direttamente (con amministrazioni a personalità indistinta) o a propria volta affidarne lo svolgimento (in esclusiva anche per singoli aspetti) ad enti costituiti appositamente, società in proprietà comune o di proprietà privata ( nel caso dello svolgimento delegato dell’attività in riserva i diritti speciali od esclusivi saranno per lo più conferiti utilizzando gli schemi organizzatori della concessione).”, in Amorelli G., “Le privatizzazioni nella prospettiva del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea”, CEDAM, Padova, 1992, p.28-29.

[2] “Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente Trattato.....”; le imprese di cui si parla nella norma sono quindi assoggettate alle regole della concorrenza.

[3] Cfr. Amorelli G.., “Le privatizzazioni...”, op. cit., pag.242-243.

[4] Va ricordato che questi dati si riferiscono solo alle aziende pubbliche intese in senso stretto, ossia le aziende autonome (Poste, Telefoni, ecc.) ed aziende municipalizzate (gas, trasporti, elettricità, ecc.).

[5] Su tali argomenti si vedano anche vari articoli nel N. 0 di “Proteo”

[6] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.

[7] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.

[8] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.

[9] Cfr. Niada M. “Le privatizzazioni degli altri”, il SOLE 24ORE Libri, Milano 1993, p. 28.

[10] Cfr. Niada M. “Le privatizzazioni....”, op. cit.

[11] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.

[12] Cfr. Bernini A.M. “Intervento statale e privatizzazioni”, Padova, CEDAM, 1996, p. 40 e segg.

[13] “...Tali imprese sono dotate di autonomia giuridica e gestionale, dipendono da enti pubblici economici che, in funzione dei settori di appartenenza, fanno capo ai rispettivi ministeri. Esse si connotano tuttavia per un elevatissimo grado di controllo da parte dell’organo propriamente pubblico, il ministero, anche a motivo del tipo di finanziamento del quale usufruiscono: la struttura finanziaria di tali imprese si costituisce di debiti finanziari - gravanti direttamente sul public sector borrowing requirement -, di versamenti in conto capitale statali - sui quali l’impresa corrisponde un dividendo - e, infine, di contributi statali a fondo perduto.”, in Dossena G., “Le privatizzazioni...”, op. cit. p.157.

[14] Cfr. Bernini A.M. “Intervento...”, op. cit. p.42.

[15] Cfr. Bernini A.M. “Intervento...”, op. cit. p.46.

[16] Cfr. Guatri L., Vicari S. “Sistemi d’impresa ...”, op. cit. p. 36.

[17] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.

[18] Si tratta di una particolare azione del capitale della società che il governo trattiene al valore simbolico di una sterlina, per ostacolare l’acquisizione del controllo da parte di investitori privati. Attraverso il possesso della golden share infatti lo Stato può esercitare il diritto di veto su determinate decisioni fondamentali nella gestione dell’impresa. In sostanza quindi lo Stato , anche se non possiede più la maggioranza delle azioni, attraverso questa speciale azione, può esercitare un controllo sull’andamento dell’impresa. L’emissione della golden share può avvenire in ogni momento a patto che il governo garantisca che la sua creazione è subordinata a fini di interesse pubblico; di solito questa azione è detenuta dal governo per un massimo di sei anni al termine dei quali la stessa può essere estinta del tutto o convertita in una azione ordinaria.

[19] Cfr. Florio M., “Privatizzazioni su larga scala: effetti di bilancio e impatto macroeconomico”, in Economia Pubblica, n.4-5, 1990, pag.190.

[20] Cfr. Niada M. “Le privatizzazioni degli ...”, op. cit., pag.16-17.

[21] Cfr. Dossena G., “Le privatizzazioni...”, op. cit. p. 202.

[22] Rampini F. “Privatizzazioni in Francia”, Queste Istituzioni, n. 83-84, 1990, pag.51.

[23] Cfr. Bernini A.M. “Intervento...”, op. cit. p.49.

[24] Cfr. Albert M, “ Capitalismo contro capitalismo”, Il Mulino/Contemporanea, Bologna,1993, p.122 e segg.

[25] Così come in Gran Bretagna si è istituita la golden share ed in Francia l’action spècifique, anche in Germania si è mantenuta una quota pubblica anche se minoritaria.

[26] Cfr.Stark D., “Le strategie di privatizzazione nell’Europa Orientale”, in “Stato e mercato”, numero 34, aprile 1992, pag.105.

[27] La Treuhandanstalt ha nelle intenzioni un compito limitato, poiché al termine delle operazioni di cessione questo organismo sarà sciolto; inoltre, pur essendo un ente autonomo, è soggetto al controllo del Ministro delle Finanze Federale.

[28] Questo ente di gestione è del tipo dell’IRI italiano.

[29] Cfr. Stark D., “Le strategie di...”, op. cit.

[30] Cfr. Stark D., “Le strategie di...”, op. cit., p.123

[31] Cfr. Prager J., “Le privatizzazioni bancarie in Israele, 1983-1994”, in Moneta e Credito, n.195, settembre 1996.