La via alle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. Un’indagine statistico-aziendale
Luciano Vasapollo
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1. Gli anni ‘80 e il forte impulso ai processi di privatizzazione
Generalità
Dagli inizi degli anni ’80, si è verificato in tutti i paesi
a modello capitalista, anche dove più marcata era la scelta per l’economia mista,
un processo di assestamento della presenza pubblica in economia; questo è avvenuto,
almeno nelle intenzioni dichiarate, soprattutto per tentare di adeguare la gestione
produttiva pubblica alle nuove condizioni della concorrenza internazionale.
Le motivazioni principalmente addotte, erano quelle, in sostanza, più legate
a ragioni politico-formali che a reali esigenze di efficienza economico-produttiva;
pertanto la motivazione di rendere maggiormente competitive le imprese pubbliche
si è poi necessariamente legata alle purtroppo reali lungaggini e controlli
burocratici che spesso non sono riuscite a consentire alle aziende pubbliche
un funzionamento più snello ed innovativo.
Il diverso ruolo assunto dallo Stato nelle regole della gestione
delle imprese pubbliche ha visto il rafforzarsi dei processi a ritmi intensi
di “privatizzazione”; sottolineando con questo termine un maggior ricorso al
privato anche per la soddisfazione dei bisogni collettivi prioritari. [1] Si giunge
così ad una conseguente riduzione del potere dello “Stato-imprenditore” e allo
stesso tempo a forzare il processo di privatizzazione dello stesso Welfare State,
imponendo un restringimento delle sue caratteristiche di universalismo delle
prestazioni pubbliche fondamentali (incentivando, così, un sempre maggior ricorso
alla sanità privata, all’istruzione e formazione a connotati aziendali, al ricorso
a forme pensionistiche integrative private, ecc.).
Il modello di capitalismo italiano prima delle privatizzazioni
degli anni’80
L’Italia si è caratterizzata, all’interno del contesto europeo,
per la diversa e variegata posizione che ha assunto fin dagli anni trenta nei
confronti dell’intervento pubblico nell’economia.
E’ così che si viene a creare un “via italiana al capitalismo”
del tutto peculiare.
L’economia italiana si è sviluppata con delle caratteristiche
particolari che comportano dei paradossi e delle contraddizioni.
Il boom economico degli anni ’50 ha visto la nascita di grandi
famiglie capitalistiche che, passate indenni al processo di trasformazione economica-sociale
post-conflitto mondiale, hanno inciso profondamente nelle modalità dello stesso
sviluppo complessivo. L’industrializzazione che caratterizza questi anni ha
comportato un divario tra il nord e il sud del paese, determinato soprattutto
dal fatto che mentre per il Settentrione si sono adoperate politiche di integrazione
con gli altri stati europei, il Mezzogiorno è invece rimasto sempre più isolato
economicamente e socialmente. Ed è stata quindi la famiglia padronale, sia essa
fondata su aristocrazie cittadine sia essa caratterizzata da un congiunzione
solidale, ad essere la principale protagonista dello sviluppo economico del
nostro paese. Si è passati dall’affermazione della piccola e media impresa familiare
allo sviluppo della grande impresa familiare che hanno rappresentato la colonna
portante del nostro sistema economico.
Lo scenario che si presenta nella realtà italiana è, quindi,
caratterizzato in primo luogo dalla presenza di grandi holding private (a carattere
familiare con il supporto del manager); ci sono poi le imprese pubbliche
che hanno sostenuto lo sviluppo ed infine un numero elevato di piccole e
medie imprese le quali per la loro innovatività si caratterizzano per un elevato
livello di efficienza. [2]
Il nostro Paese è comunque a tutt’oggi caratterizzato dalla
presenza di piccole e medie imprese, mentre le grandi aziende restano ancora
in numero molto ristretto; questa situazione è dovuta in gran parte a problemi
di natura politico-economica e storico-culturale. L’Italia, infatti è uno Stato
ancora giovane con alle spalle una storia molto frantumata e di conseguenza,
a differenza di altri paesi quali la Germania, l’Inghilterra caratterizzate
da sempre da burocrazie molto centralizzate, non ha acquisito una “cultura dell’organizzazione”
ed ha accentuato solo processi di sviluppo individualistici basati sulla creatività
e l’intraprendenza personale di alcuni componenti le grandi famiglie italiane.
E’ chiaro quindi che, per entrare a pieno titolo nei processi
di globalizzazione che ormai caratterizzano il sistema economico mondiale è
necessario adoperarsi affinchè si effettui una giusta conciliazione fra “famiglie
e clan manageriale”; è quindi necessario superare il conflitto esistente fra
famiglia e management per consentire una cooperazione tra queste due forze che
permettano all’Italia di ottenere uno sviluppo unitario e strutturale.
Si assiste in sostanza a tutt’oggi ad una forma di imprenditoria
di élite tipica delle grandi aziende, all’imprenditoria della piccola e media
impresa ed infine all’imprenditoria assistita. Questa situazione fa risaltare
lo storico problema delle “tre italie imprenditoriali”, in quanto gli imprenditori
d’élite sono concentrati nell’Italia settentrionale, al centro troviamo un tipo
di imprenditorialità diffusa, mentre al sud si trova il cosiddetto “imprenditore
assistito” legato in maniera più diretta e dipendente al sistema politico.
Considerando che l’Italia fino alla seconda guerra mondiale
era un paese basato su un’economia prevalentemente agricola, va segnalato che
lo sviluppo industriale avutosi tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 si è concentrato
solo su alcune zone senza estendersi alle aree più depresse.
Accanto alle imprese pubbliche tradizionali (Ferrovie,
Monopoli, Poste) sono sorti nella prima metà del secolo una serie di enti di
gestione (IRI,EFIM,ENI, ecc.) riuniti nel 1956 sotto il controllo del Ministero
delle Partecipazioni Statali e del Ministero dell’Industria; se si aggiungono
poi le varie imprese municipalizzate (gas, elettricità, trasporti) e le finanziarie
regionali si ha un quadro completo del vastità dei settori economici controllati
dallo Stato.
Le imprese a partecipazione pubblica sono state raggruppate
quindi in holding: ad esempio l’IRI controllava le partecipazioni industriali,
bancarie e altri servizi; l’EFIM controllava le partecipazioni nei settori
metallurgico e meccanico; l’ENI quelle petrolifere, tessili e petrolchimiche,
l’EAGG le imprese del settore cinematografico, l’EAGAT nel settore
termale e l’EGAM nel settore minerario. [3]
Negli anni ‘70 si attua il cosiddetto “decentramento produttivo”
che scorporando alcune fasi del processo produttivo le indirizza verso imprese
di minore dimensione; in questo senso la piccola impresa si caratterizza sempre
più per una elevata indipendenza dalla grande azienda committente, in quanto
si specializza e si caratterizza per la sua innovatività. Si realizza in sostanza
una forma di industrializzazione diffusa che ha il vantaggio di associare i
benefici della piccola dimensione con quelli della grande. [4]
L’intervento dello Stato nell’economia è derivato dalle
esigenze contingenti di compensare, integrare, ed in alcuni casi sostituire
la gestione privata in settori in difficoltà con lo scopo di tutelare l’interesse
collettivo. Va ricordato, infatti, che l’origine del sistema delle partecipazioni
statali risale al 1933, anno in cui è stata costituito provvisoriamente l’IRI
(divenuto nel 1936 un ente permanente) con l’obiettivo di acquisire parte delle
tre banche miste italiane in evidente difficoltà e garantire quindi i depositi
e il risparmio dei cittadini.
Nella situazione italiana che realizza quel sistema di gestione
aziendale, chiamato da alcuni studiosi di tipo “padronale”, sono presenti
forti limiti finanziari; il management deve tener conto delle risorse finanziarie
già immediatamente disponibili prima di effettuare gli investimenti a meno di
ricorrere a forti indebitamenti. Vi sono inoltre limiti economici perché si
verifica un alto costo del capitale dovuto alle esigue possibilità degli azionisti
di diversificare il proprio portafoglio di investimenti; infine anche la classe
manageriale sovente è poco dotata di professionalità in quanto i ricambi del
vertice seguono logiche dinastiche, politico-clientelari e non professionali.
Gli obiettivi di redditività di breve periodo hanno portato
a scarsi investimenti nello sviluppo tecnologico e quindi a una limitata competitività
delle imprese italiane nei confronti delle altre aziende europee.
L’impresa familiare ha sempre frenato lo sviluppo della
cultura manageriale e quindi lo sviluppo competitivo dell’impresa stessa; questo
accade perché ereditare un’azienda non presuppone la continuità dello sviluppo
della stessa. Un’azienda non può fondarsi su fattori di continuazione genetica
ma deve invece avere uno management attivo, dinamico, capace di promuovere strategie
efficienti. La famiglia padronale ha sempre condizionato la vita stessa dell’azienda
non riuscendo quasi mai a operare in sintonia con i managers.
La gestione dell’azienda in Italia, sempre avvenuta nell’interesse
di pochi soggetti economici, sta portando sicuramente ad un sua perdita di importanza
per le strategie di globalizzazione finanziaria del capitale internazionale.
Il capitalismo italiano non è stato in grado di realizzare imprese con caratteristiche
nuove, dotate di dinamismo, di autonomia, con facile accesso ai finanziamenti
e soprattutto tali che non siano guidate da vertici ristretti ma piuttosto da
una varietà di soggetti economici. [5]
E’ in tale contesto che per il capitalismo italiano, e per
le stesse modalità di uno sviluppo equilibrato dell’economia del Paese, che
si è reso fondamentale, addirittura indispensabile, l’intervento dello Stato;
ciò per realizzare quel modello di “economia mista” in grado di compensare le
inefficienze strutturali tipiche del capitalismo familiare italiano, e di garantire
nel contempo una salvaguardia minima di quegli interessi collettivi che un modello
di tal genere a caratterizzazione oligopolistica avrebbe senz’altro trascurato
e compresso.
Sempre con tali finalità, e con lo scopo di salvare le imprese
più deboli non in grado di reggere all’impatto oligopolistico delle grandi famiglie,
evitando nel contempo la costituzione di monopoli in settori economici strategici
del Paese, si capisce il ruolo fondamentale ed irrinunciabile assunto dall’ENI,
dall’ENEL e dall’EFIM.
Per meglio comprendere l’importanza di questi enti di gestione
basti ricordare che nel decennio 1971-1981 l’IRI, l’ENI e l’EFIM erano, in termini
di occupazione, ai primi posti nell’elenco dei dieci più importanti gruppi industriali
italiani (Cfr. Graf.1)
Si noti anche nelle rispettive Tab.1 e Graf.2
l’importante apporto occupazionale offerto dalle Partecipazioni Statali (dati
1960-1980), e le significative percentuali nel Mezzogiorno.
[1] “...
La natura privata o pubblica della proprietà si definisce in base al soggetto
che ha il diritto di disporre dell’impresa in tutti i modi che non siano esclusi
dai contratti e dalle norme vigenti. Le due forme private dell’impresa, privata
e pubblica, sono dunque, rispettivamente: quella di un’azienda gestita direttamente
da uno o più proprietari privati o da managers su delega dei proprietari privati;
quella di un’azienda gestita da funzionari pubblici che rispondono a organi
dell’Amministrazione statale..... Alcuni intendono come privatizzazione ogni
iniziativa volta a ridurre la presenza pubblica nella proprietà o nella gestione
dell’impresa. In questa accezione del termine rientrano allora la cessione a
privati di quote di minoranza...la deregolamentazione di aspetti di attività
dell’impresa; l’abbandono di attività accessorie prima integrate nella gestione
in favore dell’acquisto sul mercato di quei beni o servizi....”; in Padoa-Schioppa
T.,”Il processo di privatizzazione:sei esperienze a confronto”, Rivista italiana
di ragioneria e di economia aziendale, genn.-febbr. 1992, p. 3.
[2] Tali considerazioni sul modello di capitalismo italiano,
come alcune altre successive, sono tratte da : R. Martufi e L.Vasapollo, “Sviluppo
capitalistico e modelli d’impresa”, in “Altra Europa”, anno 3, n.8, Luglio-Settembre
1997.
[3] Va ricordato che nel 1977 l’EGAM
è stato sciolto come pure l’EAGG e l’EAGAT (sciolti agli inizi degli anni ‘80);
l’EFIM è stato liquidato recentemente mentre l’IRI e l’ENI nel 1992 sono state
trasformate in società per azioni.
[4] Cfr.R.Martufi e
L. Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.
[5] Cfr.R.Martufi e L. Vasapollo, “Sviluppo
capitalistico...”, op. cit.