I diversi modelli del capitalismo internazionale si confrontano sulle strategie di privatizzazione
Rita Martufi
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3. Le diverse strategie di privatizzazione nel contesto internazionale
Modelli neoliberisti e modelli d’impresa
In qualsiasi contesto capitalistico l’impresa ha come obiettivo
fondamentale quello di massimizzare il profitto attraverso l’ottimizzazione
degli indici di efficiacia e di efficienza in modo da soddisfare tutti i portatori
di interesse (stakeholders) che a vario titolo partecipano alla vita e alle
vicende dell’impresa stessa.
Sono tre le categorie di stakeholder diretti: gli azionisti,
i managers ei lavoratori; ma in contesti di capitalismo come quello renano e
nipponico alle tre classi di portatori diretti vanno aggiunti anche i fornitori,
le banche, i clienti, gli investitori finanziari e la pubblica amministrazione.
Se fra gli oppositori all’impresa, cioè i soggetti che hanno
interessi contrastanti rispetto agli obiettivi e alle finalità d’impresa vanno
sicuramente ricordati i concorrenti, gli azionisti ostili, le forze ostili di
natura politica, sociale e del mondo dell’informazione, si deve con altrettanta
chiarezza ricordare che i portatori di interesse positivo ( i veri e propri
stakeholders) hanno, a vario titolo, interesse alla partecipazione ai risultati
d’impresa, comunanza di obiettivi e solidarietà di intenti con l’impresa stessa
e a loro spetta il reale controllo aziendale. In tal senso il controllo
non va inteso in termini giuridico-formali (che di fatto spetta agli azionsiti
di maggioranza), ma si tratta di quel controllo gestionale messo in essere da
soggetti che decidono le strategie d’impresa e la misura e distribuzione dei
risultati economici conseguiti. Si tratta cioè di soggetti economici che guidano
effettivamente l’impresa determinandone e modificando se necessario le traiettorie
della pianificazione strategica.
In tale determinazione che ridefinisce gli stessi modelli d’impresa
gli azionisti diventano spesso spettatori e allora il controllo da formale diventa
sostanziale, dividendosi, in vario modo, fra gli stakeholder. Tale linea di
tendenza è maggiormente presente nel modello di capitalismo anglosassone in
cui forte è presente il modello di public company realizzando un capitalismo
manageriale in cui continua è la riallocazione fra proprietà e controllo.
In base alle modalità di gestione d’impresa, ai processi riallocativi
fra proprietà e controllo, alle scelte di collocazione del singolo paese nelle
aree di influenza del capitalismo internazionale molti studiosi sono giunti
ad individuare e distinguere tre forme principali di capitalismo. Con la prima
forma, più caratterizzata da forte competizione aziendale ed individuale, ci
si riferisce al capitalismo degli Stati Uniti che, sviluppatosi attraverso la
nascita della grande impresa, si caratterizza per la presenza di un efficiente
apparato manageriale, dotato di imponenti mezzi finanziari che vedono la prevalenza
di un mercato borsistico dominato da un elevato azionariato imprenditoriale.
Il modello di capitalismo personale-individualistico, riferito soprattutto al
capitalismo britannico, pur essendo per molti versi simile a quello americano,
è di natura più personale-familiare; la natura familiaristica e non manageriale
della proprietà ha portato in Inghilterra allo sviluppo di un sistema economico
e sociale chiuso che mira soprattutto alla conservazione dei privilegi acquisiti;
questo situazione non ha permesso la nascita di un efficiente e competitivo
sistema manageriale in grado di consentire uno sviluppo adeguato dell’economia
britannica. La Germania, e in modo simile il Giappone, invece, ha caratterizzato
il proprio sviluppo capitalistico su dei caratteri comunitari, nei quali l’impresa
è costituita da diversi soggetti economici che lavorano ognuno secondo i propri
ruoli per il perseguimento di uno scopo comune: lo sviluppo di lungo periodo.
Al profitto immediato richiesto dagli stakeholders americani viene sostituito
un incremento valoriale aziendale di lungo periodo, nel quale il profitto immediato
è minore ma più forte è la preoccupazione di una vita aziendale di più lunga
durata. Simile al capitalismo tedesco, come si è scritto, è il modello esistente
in Giappone, forse più basato sul senso di appartenenza alla “comunità nazione”,
e per molti studiosi il sistema esistente in questi due paesi viene denominato
modello renano-nipponico.
Vi sono comunque dei Paesi nei quali, più di altri, è interessante
analizzare i modelli di capitalismo operanti, in quanto oltre a rappresentare
delle situazioni proposte in aree territoriali molto estese, sono caratterizzati
a volte dal successo e comunque dall’originalità dei modelli stessi; tra questi
modelli meritano particolare attenzione i sistemi di gestione adottati negli
Stati Uniti ed Inghilterra (Public Company), in Giappone e Germania ( impresa
consociativa di stile renano e nipponico) e in Italia ( impresa padronale-familiare) [1].
Nel modello di capitalismo anglosassone le Public Companies
si caratterizzano, infatti, per la fluidità del capitale poiché gli investitori,
per minimizzare i rischi tendono a detenere i pacchetti azionari per poco tempo;
e il carattere prevalentemente speculativo dell’investimento volto a ottenere
risultati nel breve periodo fa si che gli investimenti che non producono rendimenti
immediati siano quindi comunque poco apprezzati.
E’ chiaro che l’incertezza minima caratteristica delle Public
Companies ha come principale conseguenza un minore redditività del capitale;
gli azionisti infatti sopportano un rischio minimo nei loro investimenti ma
realizzano anche una redditività inferiore a quella di investimenti caratterizzati
da alto rischio. Per supplire a questa carenza, diventa necessario l’intervento
di manager altamente qualificati in grado di assumersi la responsabilità degli
investimenti e dell’uso dei capitali acquisiti dall’impresa.
Ed è proprio in questo contesto di “rivoluzione manageriale”
che le Public Companies hanno caratterizzato il mercato. La distinzione tra
detentori di capitale e coloro che effettivamente esercitano il controllo dell’impresa
è favorita dalla capillarizzazione del capitale azionario; essendo il capitale
suddiviso tra una miriade di piccoli azionisti diventa impossibile stabilire
delle linee di comportamento da parte dei Consigli di Amministrazione; di qui
il ruolo fondamentale del manager che, svincolato dalla proprietà dei capitali,
condiziona e decide la politica d’azienda.
Gli obiettivi del top management sono comunque tendenti alla
realizzazione di profitti immediati, per meglio soddisfare le esigenze di redditività
degli azionisti i quali sono chiamati a fine esercizio a valutare l’operato
del manager confermandolo o meno alla guida dell’azienda. La conseguenza di
tale impostazione è che gli esigui investimenti destinati allo sviluppo futuro,
all’espansione caratterizzano queste imprese per un certo grado di immobilità
e rigidità.
In generale il modello di capitalismo anglosassone si è fondamentalmente
basato sul mercato finanziario, dove si realizzano in effetti forti processi
di finanziarizzazione dell’economia, poiché è la finanza che diventa autoreferente
ed è proprio su ciò che si basano i processi di globalizzazione. Infatti in
questa logica il capitale viene spostato dove rende di più, insegue il profitto
ad ogni costo e ad ogni condizione, utilizzando lavoro dove costa meno, realizzando
produzione laddove minori sono i controlli sull’impatto ambientale, assorbendo
risparmio e realizzando sempre più processi di separazione con l’economia reale.
Si viene così a creare una realtà in cui sempre più alta è la divaricazione
e lo sdoppiamento fra economia reale e finanza, anzi una realtà nella quale
la finanza premia gli andamenti negativi dell’economia reale (quali ad es. la
flessibilità dei salari e la riduzione dell’occupazione). Si tratta in un’ultima
analisi di un modello di capitalismo e di un corrispondente sistema d’impresa
che si concretizza in un’economia finanziaria fortemente speculativa che prevale
e affossa le esigenze della produzione e dell’economia reale; un sistema nel
quale globalizzazione significa dominazione del mondo attraverso l’usura del
capitale, l’espulsione dal mercato delle imprese deboli in termini di esclusiva
corsa al profitto, la crescita della disoccupazione e l’utilizzo sempre più
di lavoro supersfruttato, allargando le sacche e le aree in cui prevalente è
la miseria assoluta. [2]
Nell’impresa consociativa, tipica del sistema tedesco e giapponese,
caratterizzata da un orientamento all’incremento valoriale di lungo periodo,
dalla forte presenza di operatori finanziari tra gli azionisti e da una elevata
managerialità, vi è una struttura particolare della compagine azionaria: si
ha infatti il cosiddetto “nocciolo duro” costituito dagli azionisti stabili
i quali possiedono la maggiore quota del capitale, e una moltitudine di azionisti
minori che possiedono la parte di capitale effettivamente trattabile sul mercato.
Le banche, gli investitori finanziari ed i portatori di forti interessi aziendali,
come gli originari proprietari, detengono somme elevate di capitale; in questo
tipo di impresa però non vi è la possibilità per nessun azionista di raggiungere
posizioni di maggioranza assoluta. Di conseguenza nell’interesse dello sviluppo
e della crescita dell’azienda stessa assume una importanza fondamentale la figura
del manager che ha come obiettivo prioritario la massimizzazione del valore
d’impresa, nell’ottica dell’espansione, tentando di realizzare un mix ottimale
fra crescita aziendale, redditività del capitale investito e dinamiche dello
sviluppo complessivo.
La Germania si caratterizza per le numerose analogie con il
sistema d’impresa giapponese; in questo modello d’impresa si realizzano, infatti,
degli equilibri tra azionisti, strutture pubbliche e banche. Va rilevato, però,
che per quanto concerne la struttura azionaria nell’arco degli ultimi trenta
anni si è verificato un calo consistente nella presenza degli azionisti privati
e del settore pubblico a favore di una crescente presenza delle assicurazioni
e delle banche. Gli incroci azionari si verificano frequentemente tra le banche
e le imprese e tra le stesse imprese (vedi Tab.8).
Il
connotato principale che caratterizza il capitalismo tedesco è rappresentato
dal ruolo fondamentale svolto dalla “Banca Universale”.
In Germania il sistema bancario è caratterizzato dalla proprietà
privata delle banche; dall’esistenza della Hausbank, cioè di una relazione bancaria
fondamentale e fiduciaria, che nasce dalla convinzione che la stabilità dei
rapporti di finanziamento e di interscambio cooperativo fra banca e impresa
costituiscono un fattore imprescindibile per la crescita dell’impresa stessa;
dal conferimento diretto al sistema bancario di specifici importanti compiti
nei confronti del mercato del capitale di rischio; dalla presenza di dirigenti
dell’Hausbank nei Consigli di Sorveglianza d’impresa, in modo da ridurre le
asimmetrie informative migliorando e realizzando una più corretta valutazione
nel merito del credito e del suo relativo costo.
Va segnalato che il modello tedesco, al pari di quello giapponese,
è caratterizzato anche dalla presenza del sistema della “cogestione”; in sostanza
tra gli stakeholders presenti nella gestione vi sono anche i lavoratori, attraverso
i loro rappresentanti sindacali.
In pratica la corresponsabilità si applica attraverso i sindacati,
il Consiglio d’Azienda, nel quale vengono interpellati i lavoratori per le questioni
riguardanti il personale, e il Consiglio di Sorveglianza che nomina il direttivo,
ossia i manager responsabili della gestione.
Si determina in tal modo una compressione forzata dei conflitti
sociali e una quasi mancanza di conflitti interni all’azienda; il senso di appartenenza
e di cooperazione rendono l’organizzazione d’impresa tedesca molto stabile e
forte. I lavoratori che in questo contesto ottengono, in contropartita di una
concordata “pace aziendale e sociale”, dei salari più elevati e lavorando meno
ore rispetto alle medie anglosassoni, dimostrano un maggiore senso di “fedeltà”
all’impresa aumentando così la potenza del sistema economico tedesco [3].
A partire dagli anni ’80 negli Stati Uniti, ci si è resi conto
della necessità di limitare il potere eccessivo dei manager e si cerca di rendere
più stabile l’azionariato attraverso l’intervento di investitori stabili, in
grado di consentire una migliore concentrazione della proprietà. In quest’ottica
si è avuta una diminuzione degli investitori privati e la nascita delle “relationship investing”, società finanziarie che ottengono un ruolo diretto nella gestione
delle imprese attraverso l’acquisto di elevate quote azionarie di un’impresa.
Sempre nell’ottica di concentrare la proprietà si è pensato di trasformare i
managers in azionisti coinvolgendoli più direttamente nelle sorti aziendali,
stabilendo, inoltre, che il Consiglio di Amministrazione delle grandi società,
oltre a riunirsi più spesso, deve essere gestito in maniera da relazionarsi
direttamente ai proprietari, in presenza di solo uno o al massimo due managers [4].
La corsa neoliberista internazionale alle privatizzazioni
Il fenomeno delle privatizzazioni che ha caratterizzato questi
ultimi venti anni si è manifestato nei vari Paesi europei con diversa modalità
e intensità. E’ pertanto interessante analizzare più da vicino le differenti
modalità con le quali questo processo si è attuato.
Va ricordato, in primo luogo che sono diverse le tecniche
con le quali è possibile attuare l’operazione di privatizzazione.
Tra i sistemi più applicati dai vari paesi, in paricolare europei,
si colloca senza dubbio l’offerta pubblica di vendita. In Inghilterra,
in Francia e in Germania questo metodo è stato molto usato per le grandi privatizzazioni;
anche a livello internazionale si è avuta larga applicazione dell’OPV (basti
ricordare che tra il 1984 e il 1992 il 45% delle aziende privatizzate ed il
75% del valore complessivo delle operazioni è stato attuato attraverso questa
tecnica).
Inoltre è importante considerare che paesi quali l’Austria,
l’Olanda, il Giappone, la Francia, la Gran Bretagna, la Malesia, la Thailandia
e il Portogallo hanno raggiunto valori di dismissione attraverso le OPV pari
quasi al 100%.
Nei Paesi dell’Est europeo è stata invece usata molto di più
la procedura dell’asta pubblica; poichè tale metodo è infatti molto più
consono alle privatizzazioni di aziende di medie e piccole dimensioni; in questi
Paesi si è utilizzata anche la privatizzazione tramite “buoni cartolari” che,
dopo essere stati convertiti in azioni, sono stati distribuiti al pubblico a
prezzi vantaggiosi, realizzando una sorte di azionariato popolare.
Nei paesi caratterizzati da una situazione di estrema gravità
finanziaria e che necessitano di metodi di dismissione molto rapidi e semplici
è, invece, molto usata la trattativa privata. Questa procedura è stata
adottata da molti paesi dell’America Latina, quali il Messico, la Bolivia, l’Argentina,
il Cile, il Brasile e il Costarica.
L’employees buy out (ossia la cessione delle azioni
ai dipendenti e ai manager dell’azienda stessa) è stata utilizzata molto spesso
in Francia, in Cile, in Venezuela, in Inghilterra, in Argentina, in Costa d’Avorio,
negli Stati Uniti, in Portogallo, in Nigeria, in Pakistan.
Anche la concessione di attività in appalto ai privati,
pur essendo utilizzata a livello locale, ha trovato qualche applicazione in
Giappone, in Canada, negli Stati Uniti e in Inghilterra.
Per avere un quadro esemplificativo del peso delle varie operazioni
di privatizzazione è interessante mostrare quale sia stato l’importo dei ricavi
(Graf. 9) ottenuti dalla privatizzazioni negli anni 1982-1991 in alcuni
paesi dell’America Latina.
Prima
di esporre i diversi approcci al processo di privatizzazione così come si è
attuato in ambito internazionale, è opportuno fare alcune riflessioni di carattere
generale connessi o volutamente addotti per giustificare la cessione di imprese
pubbliche da parte dello Stato, anche se a volte presentavano buoni livelli
di efficienza economica.
Va immediatamente evidenziato che allo stato attuale qualsiasi
processo di privatizzazione ha realizzato senza dubbio effetti negativi quantitativi
e qualitativi sull’occupazione. Va ricordato, infatti, che molto spesso
le nazionalizzazioni sono avvenute proprio per consentire di mantenere il posto
di lavoro in imprese che attraversavano momenti anche di seria crisi e che rischiavano
di fallire ed uscire da un mercato selvaggio e non regolamentato. Si è trattato
spesso di affermare il principio keynesiano di uno Stato occupatore e garante
dei conflitti, di un mercato regolamentato e tendente alla piena occupazione.
Va inoltre tenuto conto che anche nei casi in cui, una privatizzazione ha successo,
(nel senso che si vengono a creare delle condizioni economiche generali di stabilità
che potrebbero quindi consentire l’assorbimento di alcune fasce di disoccupazione),
ciò si ripercuote comunque sulla riduzione dei costi diretti ed indiretti del
lavoro. Non va, ad esempio, dimenticato che nel migliore dei casi è fortemente
aumentata la mobilità, la flessibilità del lavoro e del salario, incidendo negativamente
sui ritmi, sulla condensazione e sui turni di lavoro. A ciò si deve aggiungere
che quasi sempre i processi di privatizzazione hanno provocato diminuzione di
garanzie e compressione dei diritti sindacali, fino a giungere, in particolare
in paesi a più bassi livelli di sviluppo economico e democratico, alla mancanza
completa di qualsiasi forma di garanzia reddituale, sindacale e a pienezza di
diritti per i lavoratori, favorendo forme di precariato, sottoccupazione, lavoro
nero e grigio e di supersfruttamento complessivo.
Anche l’opinione molto diffusa tra i sostenitori delle privatizzazioni
che queste consentano una riduzione del debito pubblico ed estero è
fortemente illusoria; infatti non va dimenticato che ”i vantaggi
di un programma di privatizzazione di imprese pubbliche possono derivare solo
dal fatto che esso riduce l’entità dei surplus primari futuri, necessari per
ripagare nel tempo il debito netto e non il debito totale. Se la privatizzazione
lascia inalterato il debito netto, altrettanto avverrà per i surplus di bilancio
che si renderanno necessari in futuro per ripagare gli interessi sul debito...in
caso di privatizzazione, la posizione patrimoniale netta del settore pubblico
non cambia nel presente (alla diminuzione dello stock di debito si associa una
diminuzione dell’attivo) e il beneficio economico è limitato all’esercizio in
cui si realizzano le eventuali plusvalenze connesse all’alienazione delle attività [5]”. Il rischio, anzi meglio ciò che la realtà internazionale ci dimostra,
di vendere le migliori aziende pubbliche, i gioielli di famiglia,
provoca l’effetto di ridurre il patrimonio statale senza averne effettivi
benefici a lungo termine.
Ed ancora: l’efficienza, la competitività e la migliore redditività
che la dismissione di un’azienda pubblica dovrebbe comportare sono anch’esse
illusorie e non comprovate dai fatti, soprattutto perché è molto difficile stabilire
una pertinenza tra la proprietà di un’azienda e la sua efficienza ed inoltre
perchè gli indicatori tipici di produttività, efficienza ed efficace aziendale
non sono quasi mai “trasportabili” seguendo semplici criteri quantitativi dal
privato al pubblico e viceversa. Non esistono mai regole precise, fisse, dogmi
economici; l’economia, in particolare quella aziendale, va studiata nei processi
interagenti fra realtà interne ed esterne, leggendo i legami reali, non quelli
determinati da forzature prettamente politico-partitiche-affariste, interpretando
cioè le dinamiche aziendali e le ricadute sociali che si sviluppano tra macrosistema
aziendale e macrosistema socio-ambientale.
Alcuni esempi: la società francese Rhone Poulenc si trovava
prima del 1982 (anno in cui è stata nazionalizzata) in una situazione economica
molto difficile e di crisi di prospettive strategiche; negli anni in cui è stata
di proprietà dello Stato (fino al 1991) è riuscita a capovolgere la propria
posizione, moltiplicando il fatturato e gli utili ed arrivando ai vertici mondiali
del settore in funzione di tutti i più importanti indicatori economici e finanziatori-patrimoniali.
Le società inglese Brooke Marine, la Swan Hunter e la Vospers
sono passate a maggioranza significativa di capitale private e dopo delle crisi
molto serie sono fallite; anche la British Steel dopo un momentaneo miglioramento
è stata duramente colpita da una dura crisi finanziario-economica. [6]
In sostanza, anche in questo caso vale la regola che l’efficienza
delle imprese pubbliche è strettamente collegata alle scelte di politica-economica,
allo stretto legame fra strategie macroeconomiche e conseguenti linee operative
microaziendali, pubbliche e private.
In conclusione anche attraverso le modalità attuative dei processi
di privatizzazione ci si accorge di come il neoliberismo internazionale si stia
rimodellando, in termini soprattutto finanziari, per comprimere le scelte e
le impostazioni di tipo pubblico-collettivo che avevano caratterizzato le cosiddette
economie miste. Infatti si assiste ormai ad un graduale riavvicinamento dei
due modelli opposti delle Public Companies e delle imprese consociative, in
quanto mentre negli Stati Uniti ci si avvia verso un azionariato più stabile,
in Giappone diminuisce l’incidenza degli incroci azionari e si tende ad allargare
la partecipazione e la dipendenza delle imprese direttamente dal mercato finanziario.
Considerato che nel modello renano si realizza una superiorità
economica e sociale sarebbe logico aspettarsi che questo sistema d’impresa diventi
prevalente a scapito del modello anglosassone, ciò non è affatto vero; nella
realtà infatti quest’ultimo tende a travolgere oltre ai modelli di impresa di
quei paesi che si trovavano ad adottare una via di mezzo tra l’uno e l’altro
anche gli stessi paesi nei quali si è originato il modello renano-nipponico [7].
[1] Su
tali argomenti si vedano anche vari articoli nel N. 0 di “Proteo”
[2] Cfr. R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”,
op. cit.
[3] Cfr. R.Martufi,
L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.
[4] Cfr.
R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.
[5] Cfr.
Niada M. “Le privatizzazioni degli altri”, il SOLE 24ORE Libri, Milano 1993,
p. 28.
[6] Cfr. Niada
M. “Le privatizzazioni....”, op. cit.
[7] Cfr.
R.Martufi, L.Vasapollo, “Sviluppo capitalistico...”, op. cit.