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Per la critica del capitalismo

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Ernesto Screpanti
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Professore, Università di Siena

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Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (I)
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Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (I)

Ernesto Screpanti

La prima parte di questo articolo è stata presentata nel numero precedente di Proteo

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Qui emerge comunque una contraddizione di fondo che può forse dar conto della debole stabilità istituzionale di questa forma capitalistica. In un sistema a capitalismo di stato i lavoratori dovrebbero rapportarsi allo stato in una duplice relazione: da una parte essi sono i cittadini da cui la classe politica deriva la propria legittimità, dall’altra sono lavoratori dipendenti che subiscono il comando dei funzionari di stato. Come possono i produttori controllare la produzione se devono obbedire ai manager e ai capi nel processo lavorativo? Ovviamente il controllo dei lavoratori sulla classe politica deve essere inefficace se i funzionari pubblici sono “funzionari del capitale”, cioè se devono perseguire lo sviluppo bilanciato della ricchezza nazionale.

Ed ecco il problema di instabilità istituzionale. Se ci sono molti partiti politici, nessuna classe politica può essere sicura nella conservazione del potere. I lavoratori continueranno a sentirsi oppressi e sfruttati finché sono sottoposti alla disciplina del lavoro orientata all’accumulazione del capitale, e tenderanno naturalmente ad identificare il proprio nemico di classe nel datore di lavoro governante. In un sistema del genere potrebbero verificarsi ricorrenti ricambi di élite, finché un qualche gruppo politico non decida, per stabilizzare il proprio potere, di abbandonare il ruolo di capitalista unico, di privatizzare i mezzi di produzione e di assumere la posizione di un attore politico socialmente neutrale. Nessuna classe politica può sentirsi a suo agio nel ruolo di principale nemico di classe del popolo da cui ottiene legittimazione.

L’unico modo per dissolvere, se non per risolvere, la contraddizione è di instaurare un sistema politico di partito unico. Ma una mossa del genere preclude ogni possibilità di legittimare il potere attraverso decenti procedure democratiche. Di conseguenza la legittimazione deve essere assicurata da una forte ideologia metafisica o metastorica. Il partito dirigente deve essere considerato come autorizzato a governare, non dal popolo o dal proletariato, ma da Dio o dalla Storia o da qualche altra entità trascendentale. E più forte è la presa ideologica del principio di legittimazione, più sicura e durevole sarà la presa politica della classe dirigente. [1] Se nonché, appena verrà meno la presa ideologica, i politici che non vogliano essere considerati come i principali nemici del loro popolo dovranno tornare a considerare la decisione di privatizzare i mezzi di produzione e democratizzare il processo di legittimazione. Ciò è accaduto in Unione Sovietica nel 1989, e sorprende non tanto il fatto che sia accaduto quanto che sia accaduto così tardi (Screpanti, 1999b). In ogni caso, che sia governato con un sistema multi-partito o con un sistema mono-partito, il capitalismo di stato è più instabile del capitalismo classico o di quello corporativo. [2] La ragione di ciò è che esiste in esso una contraddizione di fondo tra la sua struttura politico-legale, che fa dipendere la legittimità del potere statale dalla volontà popolare, e il suo sistema di utilizzazione del lavoro, che riduce il popolo a un’unica classe di lavoratori subordinati al datore di lavoro statale.

Tuttavia il capitalismo di stato può ben sopravvivere integrandosi con il capitalismo corporativo, dando così vita a un sistema misto. Un sistema misto di proprietà privata diffusa e proprietà pubblica può combinare i vantaggi dei due regimi, specialmente in presenza dei crescenti fallimenti del mercato cui va incontro il capitalismo contemporaneo. C’è da credere che una tale combinazione potrebbe rafforzare la stabilità istituzionale del sistema.

Esiste forse un’altra ragione alla base della intrinseca debolezza del capitalismo di stato, una ragione che è stata portata alla luce dalla recente débacle delle economie di tipo sovietico. È noto che un campo in cui questo tipo di economia ha fallito più miseramente è quello della competizione tecnologica con il capitalismo corporativo. La causa di un tale fallimento può essere capita facilmente se si accetta l’idea che quelle economie sono appunto forme di capitalismo di stato piuttosto che di socialismo. Come è stato messo in evidenza da Sutton (1968; 1971; 1973), l’economia Sovietica è cresciuta rapidamente fintanto che ha potuto avvantaggiarsi delle tecnologie importate dai paesi capitalistici più avanzati. Ma non appena è diventato necessario puntare sulla crescita endogena, sono emerse difficoltà insormontabili come conseguenza della debolezza delle capacità d’innovazione. La spiegazione di una tale debolezza è ormai conoscenza comune. Negli esperimenti storici di costruzione del capitalismo di stato sono stati eliminati molti degli stimoli e incentivi all’innovazione associati alla competizione di mercato e all’appropriazione privata dei frutti della scienza. D’altra parte, i tentativi di attivare gli stimoli non-economici generati dalle strutture di rete nella produzione di conoscenza sono stati fallimentari, segno lampante dell’assenza di contenuti propriamente comunisti dell’organizzazione sociale. Inoltre il forte clima burocratico degli apparati produttivi ha attivato quei “rendimenti decrescenti della gerarchia” (Boulding, 1971) che sono tipici delle grandi organizzazioni autoritarie, privando di ogni stimolo all’impegno innovativo tutti i lavoratori dipendenti delle imprese di stato. Bisogna dire comunque che non è accertato che questa sia una contraddizione fondamentale del capitalismo di stato, se non altro perché si tratta di un’esperienza storica ancora in corso, ad esempio in Cina.

10. Conclusioni: l’autonomia del capitale e l’essenza del capitalismo

Sorge spontanea la domanda: cosa hanno in come tutte le forme istituzionali illustrate nella seconda parte del saggio perché si possa parlare di casi particolari di un unico modo di produzione chiamato “capitalismo”. Ebbene, se è vero che l’anatomia della scimmia è spiegata dall’anatomia dell’uomo, una risposta a questa domanda può emergere da una lettura evolutiva dello schema di classificazione presentato in tabella 2, una lettura cioè che presenti le diverse forme istituzionali come stadi di un processo di sviluppo storico. Una tale lettura sembra suggerire che l’evoluzione delle economie moderne tenda alla realizzazione di una forma di “capitalismo puro” in cui finalmente si instaura l’autonomia del capitale.

Una delle caratteristiche più importanti del capitalismo fu portata alla luce da Marx, e consiste nella sua capacità di distruggere tutte le forme di relazioni umane basate su vincoli personali. La schiavitù e la servitù, ad esempio, sono considerate incompatibili col capitalismo: il rapporto di lavoro salariato presuppone la libertà contrattuale. Ma anche altre strutture sociali, come la famiglia, il clan o l’etnia, sono viste come sottoposte a processi di destrutturazione che annullano ogni cemento “naturale” della coesione sociale: i rapporti sociali devono essere rapporti tra individui legalmente liberi e l’aggregazione in gruppi, coalizioni e organizzazioni deve attuarsi per mezzo di transazioni regolate da istituzioni formali. Poiché la cellula fondamentale del modo di produzione capitalistico è la merce, tutte le relazioni sociali assumono la forma di transazioni o relazioni di scambio.

E tuttavia nel capitalismo classico l’essenza stessa del capitalismo, cioè il controllo del processo lavorativo da parte del capitale, è ancora basata su una sorta di relazione personale. Il lavoro vivo è dominato dal lavoro morto, ma quest’ultimo esiste come soggetto attivo solo in quanto è posseduto privatamente da una persona. L’impresa capitalistica non è una persona, ma una cosa appartenente a un individuo particolare. L’imprenditore ottiene il controllo del processo lavorativo in quanto è il proprietario dei mezzi di produzione. Di conseguenza la selezione, la disciplina e il finanziamento dell’imprenditore risultano fortemente condizionati da relazioni personali e familiari, le quali possono così riuscire a porre vincoli irrazionali all’allocazione efficiente del controllo. Infatti, sebbene la famiglia possa funzionare come apparato educativo per la trasmissione delle competenze imprenditoriali, non c’è nessuna garanzia che la trasmissione ereditaria del talento funzioni efficientemente. Come si è visto, questo problema diventa sempre più serio man mano che procede l’accumulazione e crescono le dimensioni d’impresa. Da una parte l’acquisizione di competenze imprenditoriali specifiche all’impresa è ottenuta sempre più frequentemente attraverso massicci investimenti in “capitale umano” del tipo che si accumula con l’esperienza e la carriera nella gerarchia d’impresa. Dall’altra la crescita delle ricchezze personali induce attitudini alla diversificazione del rischio che tendono ad indebolire l’affezione dei proprietari a un’impresa particolare.

La soluzione a questo problema fu trovata in un processo di evoluzione istituzionale che portò alla rottura di ogni forte legame tra i diritti residuali di controllo sull’impresa e i diritti al suo reddito residuale. Con lo sviluppo della società per azioni l’impresa diventa una persona giuridica dotata di obblighi e prerogative che non coincidono con quelli degli azionisti. D’altra parte, con la dispersione dell’azionariato i proprietari diventano rentier che risultano di fatto indistinguibili dai creditori dell’impresa, almeno per quanto riguarda i diritti di controllo, e formalmente distinguibili solo per il bene su cui si vantano diritti di proprietà, il profitto residuale e il capitale residuale di liquidazione rispettivamente. Lo stesso processo che tende a trasformare l’impresa in una persona indipendente dai proprietari trasforma i “funzionari del capitale” in agenti del “capitale in generale” e quindi quest’ultimo in un soggetto attivo. Un tale processo di trasformazione è stato spinto molto avanti dai sistemi di governance tedesco e giapponese.

Il keiretsu è una coalizione d’imprese tenuta insieme, oltre che da legami personali tra i manager, da complesse strutture di partecipazioni di minoranza e partecipazioni incrociate. Come è stato osservato da Iwai (1999), un gruppo di dodici imprese-guida che costituiscono il nucleo di un keiretsu possono diventare completamente autonome dal controllo degli azionisti esterni se ognuna di esse possiede il 5% delle azioni di ogni altra: la maggioranza delle azioni di ogni impresa sarebbe in tal caso posseduta collettivamente dalle altre imprese del gruppo. Di conseguenza i manager delle imprese-guida del keiretsu possono controllare legalmente l’intero gruppo senza possedere personalmente una sola azione. Basta che agiscano di concerto.

Il sistema tedesco è anche più rivoluzionario. In esso le imprese manifatturiere sono organizzate in strutture gerarchiche tenute insieme da legami finanziari e pacchetti azionari detenuti dalle banche. Ognuna di tali strutture è guidata da una banca principale, e gli azionisti esterni sono privati di ogni controllo. L’aspetto interessante di questo sistema è che la banca controllante è a sua volta controllata da altre banche. Così i manager delle banche, se agiscono di concerto, possono controllare l’intero sistema senza dover rendere conto ai rentier. In altri termini, sia nel sistema tedesco che in quello giapponese il capitale di controllo è auto-posseduto collettivamente.

Sorgono tre problemi teorici: Chi è il soggetto formale dei processi di produzione e d’accumulazione in questo tipo di capitalismo? Chi è quello materiale se quello formale non è un proprietario personale? Qual è l’istituzione fondamentale che sta alla base dello sfruttamento dei lavoratori se non è la proprietà privata dei mezzi di produzione?

Tutti e tre i problemi sono stati, se non risolti, almeno impostati lucidamente da Marx. Fondamentale è la tesi secondo cui la totalità del capitale, attraverso le leggi della competizione, costringe i proprietari particolari dei mezzi di produzione a servire il fine collettivo dell’accumulazione del capitale, cioè il fine di un soggetto astratto e universale. In questo modo i capitalisti individuali sono riguardati come “funzionari del capitale”. Marx chiarì anche che il capitale è una relazione sociale e non semplicemente, né tanto, una cosa: esso si costituisce come soggetto auto-valorizzante solo in quanto instaura una relazione sociale con il lavoro salariato. La difficoltà di queste tesi di Marx è che esse tendono a fare del capitale un soggetto irreale e ipostatizzato. Si può immaginare come opera, ma non si può vederlo. E non si può vederlo perché l’impresa, nel capitalismo classico, non è una persona ma una cosa appartenente a un individuo. Come può una cosa essere soggetto? E come può un individuo essere uno strumento di una cosa, peggio ancora, di una totalità di cose? Ebbene l’evoluzione del capitalismo ha confermato le tesi di Marx. Le ha confermate nel duplice senso che ne ha provato la validità e gli ha dato un contenuto reale.

Il soggetto formale dell’accumulazione nel capitalismo puro è l’impresa capitalistica, o piuttosto l’insieme delle imprese capitalistiche che sono collettivamente auto-possedute per mezzo delle partecipazioni incrociate. Queste imprese sono legalmente proprietarie dei propri rispettivi mezzi di produzione. Perciò non sono soggetti ipostatizzati ma vere entità sociali dotate di capacità contrattuale, e abilitate ad entrare in relazioni transattive con ogni altro soggetto. Ciò risolve il primo problema teorico.


[1] Lenin disse una volta che il Partito Comunista governava in Unione Sovietica in forza di un “diritto storico”. Sembra che avesse una concezione teleologica della storia, e piuttosto hegeliana, che gli faceva vedere nel gruppo dirigente del partito bolscevico l’incarnazione dello zeitgeist. L’avanguardia comunista aveva capito il senso della storia meglio di tutti gli altri raggruppamenti politici (come era stato dimostrato dalla sua abilità nella conquista del potere) e, a dispetto del fatto che quel senso consisteva in una concezione della storia come processo di presa di coscienza del proletariato, meglio dei proletari stessi (i quali infatti non avevano dimestichezza con gli sviluppi della filosofia occidentale). Perciò, nel loro interesse, i proletari dovevano essere diretti ed educati dal Partito Comunista.

[2] Così il capitalismo di Stato potrebbe risultare utile in molti casi di arretratezza economica nei quali è necessario avviare un forte e rapido decollo industriale per uscire dalla morsa del sottosviluppo. Esso, in forza della sua organizzazione totalitaria, può servire a rafforzare la spinta nazionale all’accumulo dei risparmi e all’aumento della produttività del lavoro, mentre, in virtù della sua instabilità istituzionale, può contribuire a renderla transitoria.