Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (I)

Ernesto Screpanti

La prima parte di questo articolo è stata presentata nel numero precedente di Proteo

II. Forme istituzionali di capitalismo

1. Regimi di proprietà

Un regime di proprietà è un sistema di istituzioni che regola la distribuzione della ricchezza e del reddito e stabilisce quali sono gli attori sociali che hanno titolo a incamerare il plusvalore. L’osservazione della storia del capitalismo mostra che sono esistiti tre principali tipi di regimi di proprietà.

Il primo è un regime di proprietà privata concentrata. La ricchezza è ammassata nelle mani di individui che appartengono a una specifica classe sociale, la borghesia, mentre gli individui appartenenti alle classi lavoratrici non detengono alcuna ricchezza. In tale regime, che è quello prevalente ai tempi di Smith e di Marx, è la distribuzione della ricchezza che crea le condizioni per lo sfruttamento dei lavoratori, i quali sono costretti dalla povertà ad accettare di lavorare sotto il comando dei proprietari dei mezzi di produzione.

Il secondo è un regime di proprietà privata diffusa ed è quello che predomina nel capitalismo contemporaneo. In questo caso una vasta massa di individui ha avuto accesso alla ricchezza, sia come proprietari di azioni che come creditori o beneficiari di vari tipi di istituzioni finanziarie, banche, fondi d’investimento, fondi pensione ecc. Inoltre molti tipi di attività finanziarie, obbligazioni, depositi, titoli di stato e simili qualificano i risparmiatori a percepire parte del plusvalore prodotto nelle imprese capitalistiche. Sembra che il capitalismo contemporaneo, almeno quello “avanzato”, tenda a trasformare tutti i cittadini in capitalisti finanziari.

Il terzo è un regime di proprietà di stato. In esso la diffusione della proprietà è spinta all’estremo poiché la ricchezza pubblica è, formalmente, proprietà di tutti i cittadini, i quali posseggono i mezzi produzione collettivamente. Questo regime di proprietà non è necessariamente socialista, se un sistema socialista è inteso come uno in cui i produttori controllano la produzione. Se il controllo non è accessibile ai lavoratori e le decisioni di produzione e d’investimento sono prese in funzione dell’accumulazione del capitale, allora si tratta di un sistema capitalista.

2. Strutture di governo dell’accumulazione

Le strutture di governo dell’accumulazione sono dei sistemi di istituzioni che regolano l’uso del plusvalore in funzione dell’accumulazione del capitale. Una struttura di governo svolge tre funzioni sociali, una disciplinare, una selettiva e una finanziaria.

Con la funzione disciplinare viene regolata la distribuzione di premi e punizioni in relazione alle performance dei decisori, in modo tale che le attività che favoriscono l’accumulazione vengono incoraggiate mentre quelle che la ostacolano vengono scoraggiate. Con la funzione selettiva si regola l’assegnazione dei soggetti tra le mansioni e le posizioni sociali in modo da collocare in ogni posto gli individui più adatti e rimuovere quelli meno adatti. Con la funzione finanziaria si regolano i flussi di finanza facendoli affluire ai decisori che mostrano di saperli usare meglio in vista dell’accumulazione.

Esistono fondamentalmente due differenti tipi di strutture di governo, le reti e le gerarchie. I mercati sono le forme tipiche di reti economiche. In essi tutti gli attori sociali sono soggetti indipendenti e dotati di libertà contrattuale, e interagiscono attraverso relazioni di scambio. Le funzioni disciplinare, selettiva e finanziaria si estrinsecano nella competizione di mercato. Le imprese invece sono le forme tipiche di gerarchie economiche. In esse è la competizione organizzativa che svolge le funzioni disciplinare, selettiva e finanziaria. Gli attori sociali sono tra loro legati da vincoli formali di subordinazione e interagiscono attraverso relazioni di comando. Un vincolo formale di subordinazione è un relazione regolata da istituzioni (leggi, regolamenti, contratti, consuetudini) in forza delle quali un attore dominato ha l’obbligo di eseguire decisioni prese da un attore dominante.

Si distinguono due principali tipi di mercato: i mercati delle merci, nei quali consumatori e imprese compaiono come soggetti che si scambiano beni reali, moneta e credito; e i mercati delle imprese, o mercati per il controllo delle imprese, nei quali le imprese stesse sono trattate come oggetti di scambio. D’altra parte si distinguono due principali tipi di gerarchie: le gerarchie interne, che sono strutture di relazioni che legano i membri di una stessa organizzazione; e le gerarchie esterne, che consistono in strutture di potere e subordinazione tra organizzazioni.

3. Le gerarchie interne

L’esistenza di una struttura gerarchica di potere è una condizione necessaria per l’estrazione di plusvalore dal processo produttivo in ogni forma di capitalismo. La gerarchia è la base organizzativa delle strutture di governo della produzione, le quali servono per monitorare l’attività produttiva, far fronte a vari tipi di asimmetria informativa, incentivare i dipendenti a dare il meglio di sé, attivare provvedimenti disciplinari. Su questo uso delle gerarchie di potere non è possibile soffermarsi qui. [1]

È necessario soffermarsi invece sulla funzione svolta dalle gerarchie di potere come strutture di governo dell’accumulazione. Questa funzione coinvolge non l’intera struttura organizzativa dell’impresa, ma solo i suoi livelli superiori, gli strati alti della gerarchia che organizzano i quadri e i manager.

La gerarchia di comando di un’impresa è normalmente strutturata nella forma di “mercati” del lavoro interni (Doeringer e Piore, 1971; Edwards, 1979). I funzionari sono assunti negli strati più bassi della gerarchia di comando, e sono assunti con contratti a lungo termine o a tempo indeterminato. Gli stipendi sono fissati non da condizioni di mercato ma sulla base delle funzioni di potere, di responsabilità ed efficienza assegnate alle posizioni gerarchiche. Una classe diversa di stipendio è associata ad ogni strato gerarchico. Benché paghe incentivanti possano dar titolo alla percezione di redditi differenziati all’interno di ogni strato, gli aumenti stipendiali più consistenti possono esser ottenuti attraverso la promozione (Lazear e Rosen, 1981; Lambert, Larcker e Weigelt, 1989).

Inoltre il potere assegnato ad ogni specifico funzionario è tanto maggiore quanto più alta è la sua posizione nella scala gerarchica. E il potere in sé è desiderato dai manager e dai funzionari (Pagano, 1998; Screpanti, 2001), i quali sono perciò fortemente incentivati a scalare la struttura organizzativa dell’impresa. Ci può essere una qualche forma di mobilità dei manager tra imprese. Ma per la gran parte dei quadri è la mobilità verticale all’interno di una data impresa che motiva le scelte e l’impegno. In altri termini la gerarchia funziona come ambiente competitivo e selettivo. Poiché ci sono sempre molti candidati alla promozione ad ogni posizione, la competizione è forte e prende la forma di tornei. E la strada più diretta per la promozione è la buona performance.

Una gerarchia svolge tutte e tre le funzioni di una struttura di governo dell’accumulazione. La funzione finanziaria opera attraverso l’attribuzione dei flussi di cassa interni alle divisioni e ai dipartimenti che esibiscono migliori opportunità di profitto e di crescita. Tali attribuzioni forniscono le risorse per il successo. Allo stesso tempo sono percepite dai manager come premi per le loro performance attuali e stimoli per quelle future. La funzione disciplinare opera attraverso premi - nella forma di paghe incentivanti e più alti stipendi assegnati alle posizioni più elevate nella scala gerarchica - e punizioni - nella forma di rallentamenti o arretramenti della crescita dei redditi causati da retrocessioni, trasferimenti e licenziamenti. La funzione selettiva opera anch’essa attraverso il sistema delle promozioni e delle retrocessioni. Poiché nella competizione organizzativa si vince per mezzo dell’abilità e delle buone performance, i vincitori di ogni posizione risultano normalmente essere le persone più adatte ad essa. Ai funzionari inefficienti si impedisce di raggiungere alte posizioni nella scala gerarchica.-----

In che senso una gerarchia funziona come struttura di governo dell’accumulazione? La buona performance per un direttore o un funzionario spesso consiste nell’abilità ad esercitare il controllo sull’attività produttiva in modo da ottenere aumenti di produttività. Ma spesso implica anche la capacità di far crescere l’output e la quota di mercato, in altre parole, la dimensione dell’impresa. E crescita delle dimensioni significa crescita del capitale. Ciò è particolarmente vero per i direttori di divisione nelle imprese multidivisionali. Il successo nel dirigere una divisione o un dipartimento attrae fondi interni e contribuisce ad allocare le risorse verso usi che favoriscono l’accumulazione.

Il problema è: quando i manager hanno raggiunto il top della scala gerarchica e non hanno ulteriori prospettive di promozione interna, cosa motiva il loro impegno e come è disciplinata e premiata la loro performance? I manager non sono normalmente motivati dai profitti, ma dal potere, il prestigio e la paga. Tipicamente queste tre variabili sono isomorfiche e variano tutte nella stessa direzione in funzione della posizione nella scala gerarchica. E poiché il numero totale di subordinati ad ogni data posizione è tanto maggiore quanto più alta è la posizione, potere, prestigio e paga crescono al crescere del numero di subordinati (Lydall, 1968; Simon, 1979; 1982). Ma il numero di subordinati e l’altezza della scala gerarchica crescono con le dimensioni dell’impresa. Così il modo migliore per massimizzare gli obbiettivi dei manager è di far cresce le dimensioni, cioè alimentare l’accumulazione del capitale. Inoltre, poiché i manager sono interessati non tanto a incrementi transitori di potere, prestigio e paga, quanto ad aumenti permanenti, ciò che essi cercano di conseguire è la crescita di lungo periodo. Una gerarchia interna funziona da struttura di governo dell’accumulazione anche perché l’ampiezza della gerarchia è un valore in sé dal punto di vista dei manager. La sua crescita è un premio per l’abilità nel farla crescere, la sua contrazione è una punizione.

4. Le gerarchie esterne

La funzione disciplinare basata sulla competizione organizzativa è ancora più efficace quando un’impresa è parte di una gerarchia esterna di gruppi industriali. Questo è il tipo di struttura di governo prevalente nel keiretsu giapponese e nel sistema tedesco di controllo bancario. Le imprese fanno parte di gruppi industriali organizzati in coalizioni piramidali in cui pacchetti azionari, vincoli di debito, interdipendenze tecnologiche, regole consuetudinarie e formali e vari altri tipi di legami istituzionali sono usati dalle imprese dominanti per supervisionare, controllare e disciplinare quelle dominate.

Tali gruppi industriali sono normalmente guidati da una “banca principale” che possiede, direttamente o indirettamente, piccoli ma efficaci interessi nelle strutture proprietarie e creditizie delle altre imprese. Per di più le banche principali intrattengono relazioni di clientela con i membri del gruppo. Infine dei loro rappresentanti siedono nei consigli di amministrazione (o negli Aufsichtsrat) delle imprese supervisionate. In questo sistema i controllori “esterni” di un impresa non sono propriamente degli outsider, poiché detengono rilevanti informazioni interne, supervisionano l’attività dei manager, finanziano le loro decisioni d’investimento, li assistono nelle operazioni di aumento di capitale e possono perfino promuoverli o rimuoverli dalle loro posizioni. Ciononostante i manager supervisionati sono dotati di ampia autonomia decisionale.

La funzione disciplinare in questa struttura di governo opera attraverso il sistema della promozione dei buoni manager dalle piccole alle grandi imprese, mentre i manager inefficienti, non solo sono puniti dal rallentamento della crescita delle imprese da essi dirette, ma possono essere declassati, licenziati o sidestepped. Così la funzione selettiva è associata a quella disciplinare, in quanto il sistema della promozione-rimozione assicura anche la migliore allocazione del personale tra le imprese: buoni manager alle imprese grandi e dinamiche; cattivi manager a quelle piccole e pigre. La funzione finanziaria infine opera attraverso le politiche finanziarie delle grandi banche che manovrano le concessioni di credito e assistono le imprese supervisionate nelle operazioni di aumento di capitale e nell’emissione di debito con lo scopo di favorire la crescita di lungo periodo delle imprese più promettenti.

5. I mercati delle imprese e i mercati delle merci

Diversa è la struttura di governo dell’accumulazione basata sui mercati delle imprese, che è quella prevalente negli USA, specialmente nella forma che ha dato il meglio di sé negli anni ’80. [2] Le grandi imprese in questo sistema hanno un azionariato molto disperso e sono effettivamente controllate dai manager. I capitalisti finanziari sono normalmente poco interessati a controllare gli insider, né hanno la necessaria competenza e la forza per farlo. Tuttavia i mercati finanziari esercitano un certo controllo, in quanto i manager che palesemente dispregiano gli interessi degli azionisti possono essere costretti a rispondere agli scalatori. Una variabile cruciale in questa struttura di governo è il valore dell’impresa. Le performance dei manager si riflettono nelle valutazioni di mercato delle loro imprese ed è attraverso queste valutazioni che operano le funzioni disciplinare, selettiva e finanziaria.

La finanza esterna affluisce facilmente alle imprese di alto valore. Infatti, non solo tali imprese possono far ricorso con successo all’emissione di nuove azioni, ma possono anche ottenere credito senza bisogno di alzare il rapporto d’indebitamento. Non così per le imprese con cattiva performance e bassa valutazione di mercato. In altri termini la funzione finanziaria in questa struttura di governo tende a rinforzare gli effetti positivi che la crescita e la profittabilità hanno sui flussi di cassa e l’autofinanziamento.

La valutazione di mercato funziona anche come meccanismo selettivo e disciplinare. Innanzitutto fornisce segnali sull’abilità dei manager che contribuiscono alla loro reputazione e aumentano le loro opportunità di trovare posti più prestigiosi e meglio pagati in nuove imprese. Come è noto, la mobilità orizzontale dei manager è più alta nel sistema americano che in quelli giapponese e tedesco. In secondo luogo le paghe incentivanti sono molto usate in quel sistema e spesso assumono la forma di schemi di remunerazione in parte legati al valore dell’impresa. Così i buoni manager - buoni dal punto di vista del mercato - sono pagati meglio dei cattivi e le differenze nelle paghe tendono a riflettere differenze nelle valutazioni di mercato (Abowd, 1990; Rosen, 1990; Jensen e Murphy, 1990). In terzo luogo, e soprattutto, i manager sono costantemente sotto la minaccia delle scalate ostili. Tale minaccia può essere tenuta a bada da un alto valore di mercato, tende però a mordere i manager incapaci, quelli che non riescono a mantenere il valore dell’impresa all’altezza del suo potenziale.

La struttura di governo più diffusa nel mondo è quella basata sul funzionamento dei mercati delle merci. Opera in tutte le economie moderne, comprese quelle a capitalismo di stato, in quanto regola l’accumulazione nelle piccole imprese e nei settori del commercio, dell’agricoltura e dei servizi. Era la struttura dominante nel diciannovesimo secolo e lo è ancora nelle economie dei paesi sottosviluppati.

I mercati delle merci sono qui definiti con riferimento sia ai beni reali che al credito, ma escludendo la compravendita di azioni. La funzione finanziaria opera attraverso l’allocazione dell’autofinanziamento e del credito bancario. Le imprese che hanno successo nei mercati delle merci godono di alti profitti e abbondanti flussi di cassa. Perciò possono autofinanziare il proprio sviluppo. Inoltre la loro profittabilità assicura un accesso facile e non costoso al credito esterno oltre che la capacità di ripagare il debito. Al contrario le imprese inefficienti vanno incontro a difficoltà finanziarie e rallentamento dello sviluppo. La funzione disciplinare è basata sui premi e le punizioni forniti dai profitti e le perdite. I manager efficienti godono di alti profitti e alto sviluppo e perciò vedono aumentare il proprio reddito, il potere e il prestigio. Quelli incapaci sono puniti con le perdite e la diminuzione della reputazione. Infine la funzione selettiva opera attraverso al competizione di mercato, un ambiente in cui la lotta per la sopravvivenza è regolata dalla legge della giungla rafforzata dalle leggi sul fallimento. Le imprese strutturalmente inefficienti devono affrontare perdite permanenti e prima o poi sono espulse dal mercato. Quelle più efficienti vincono nella lotta per la sopravvivenza, e crescono anche mangiandosi le perdenti. La sopravvivenza implica la crescita, in un ambiente caratterizzato dall’auto-valorizzazione del capitale. Così gli imprenditori più adatti dal punto di vista dell’accumulazione crescono, quelli meno adatti vengono eliminati.-----

6. Una classificazione delle forme capitalistiche

Nella tabella 2 viene presentata un classificazione di tipi ideali di capitalismo sulla base di alcune possibili combinazioni di diversi regimi di proprietà e strutture di governo dell’accumulazione. I tipi ideali sono basati sull’osservazione storica, ma aspirano alla modellizzazione. Poiché i casi storici concreti non combaciano perfettamente con i modelli, questi non aspirano a sostenere una interpretazione storiografica dello sviluppo capitalistico. Aspirano in realtà a molto di più. Lo schema infatti è aperto anche a configurare possibili forme nuove e alternative. E comunque, in vista dell’interesse prevalentemente classificatorio, si indulgerà alquanto nell’astrazione. Così alcuni casi storici di forme capitalistiche verranno depurati da ogni tipo di promiscuità istituzionale in modo da concentrare l’attenzione sulle istituzioni che sono considerate veramente fondamentali.

Ora va detto che, sebbene la tabella non miri a fornire uno schema per l’interpretazione storica, può tuttavia essere usata anche in questo modo. E nelle conclusioni si farà un tentativo del genere. Il che rende necessaria una precisazione. La storia evolve non solo attraverso il cambiamento ma anche nella longue durée. Si danno periodi di instabilità strutturale, rivoluzione, cambiamento catastrofico, nei quali prevalgono i movimenti caotici, le forme organizzative sono in subbuglio e varie e contrastanti istituzioni convivono le une accanto alle altre. E si verificano lunghi periodi di stabilità, durante i quali il cambiamento è lento e graduale e le istituzioni sono organizzate in forme coerenti in modo da autosostenersi e resistere alla competizione delle innovazioni istituzionali, assimilare le novità che possono essere assimilate ed eliminare o prevenire quelle che non lo possono. Così la storia può essere letta sia come un processo di cambiamenti strutturali ricorrenti sia come una successione di stadi di sviluppo in cui forme stabili di organizzazione prevalgono per lunghi periodi.

7. Il capitalismo classico

La prima forma istituzionale da prendere in considerazione è quella definita dal modello di “capitalismo classico” che si può trovare in molti moderni testi di microeconomia o in qualsiasi compendio della teoria marxista ortodossa. È basata sulla combinazione di un regime di proprietà privata concentrata e di una struttura di governo dell’accumulazione che fa affidamento sul ruolo dei mercati delle merci. Il controllo del lavoro nel processo produttivo è fondato su un contratto relazionale in cui un datore di lavoro individuale acquista il comando sul lavoratore in cambio di un salario. Poiché lo svolgimento del processo lavorativo richiede l’uso di mezzi di produzione, una condizione affinché i lavoratori accettino di entrare in un rapporto di lavoro dipendente è che essi siano privi di ricchezza. Una condizione affinché il controllo sia esercitato da un datore di lavoro capitalista è che questi abbia la proprietà dei mezzi di produzione. La ricchezza è concentrata nelle mani di una classe di individui che mirano a usarla per fare profitti. L’impresa capitalistica è una cosa, un’attività patrimoniale posseduta da una persona che assume una responsabilità illimitata per gli effetti del suo uso. Le imprese sono di piccole dimensioni, le gerarchie di fabbrica sono semplici. La società è suddivisa in due gruppi di individui: la classe capitalistica, o borghesia, che include tutti i proprietari di mezzi di produzione, e la classe lavoratrice, o proletariato, che comprende tutti i lavoratori dipendenti.

La borghesia controlla lo stato, ad esempio attraverso un suffragio elettorale ristretto che può privilegiare i maschi, i contribuenti, i cittadini alfabetizzati, i proprietari o un elettorato definito da una combinazione di tali condizioni, e comunque esclude la classe lavoratrice dal diritto di voto. Lo stato sanziona e protegge i diritti di proprietà e gli altri diritti dei cittadini ad essi connessi. In particolare garantisce la libertà contrattuale in tutte le transazioni, non solo de jure, ma anche de facto. E poiché la libera concorrenza, la perfect liberty - come la chiamava Adam Smith - è considerata una delle condizioni della libertà, l’azione economica dello stato mira a limitare le pratiche monopolistiche. Tale azione è particolarmente forte nel cosiddetto “mercato del lavoro”, dove l’intervento dello stato tende ad assicurare la mobilità e la flessibilità dei lavoratori e a proibire e punire le “coalizioni operaie” (Polanyi, 1944). Come già Adam Smith aveva ben capito, è questa specie di “concorrenza” nel mercato del lavoro - una concorrenza per cui i capitalisti sono organizzati nello stato e i lavoratori sono disorganizzati dallo stato - che assicura le condizioni economiche e sociali che favoriscono la concentrazione della ricchezza e costringono i lavoratori ad accettare un salario di sussistenza. Così i diritti di proprietà garantiscono le condizioni microeconomiche e microsociali per il controllo del processo lavorativo, mentre lo stato garantisce le condizioni macroeconomiche e macrosociali per l’esercizio dei diritti di proprietà.

Il controllo della produzione è esercitato dai proprietari delle imprese. Il plusvalore in queste prodotto appartiene ai proprietari, i quali quindi hanno interesse ad esercitare il controllo con il fine della produzione di plusvalore. Lo scopo dei proprietari è estrarre plusvalore e valorizzare il proprio capitale. D’altra parte, poiché la “concorrenza” nel mercato del lavoro spinge i salari al livello di sussistenza, questi non sono correlati alla produttività. Di conseguenza la concentrazione della ricchezza tende ad aumentare nel tempo. La riproduzione sociale funziona attraverso un meccanismo che consente ai proprietari di aumentare la propria ricchezza attraverso l’accumulazione del plusvalore e costringe i lavoratori ad aumentare l’offerta di lavoro attraverso la spesa del salario.

La concentrazione della ricchezza svolge inoltre la funzione di aumentare la propensione media al risparmio, contribuendo anche per questa via ad alimentare l’accumulazione (Screpanti, 1992): il consumo dei lavoratori è molto basso, essendo inchiodato al livello della sussistenza, mentre il loro risparmio è nullo; i capitalisti invece risparmiano gran parte del proprio reddito, che è molto alto. I mercati del credito rinforzano questo meccanismo. Le banche offrono finanza alle imprese più profittevoli che investono più di quanto guadagnano, attingendo risparmio dalle imprese meno profittevoli che investono meno di quanto guadagnano. Le banche fanno profitti trasformando il credito dei risparmiatori nel debito degli investitori, e offrono finanza selezionando i debitori sulla base della profittabilità dei loro investimenti e della disponibilità di attività offerte a garanzia. Di conseguenza il credito affluisce alle imprese che crescono rapidamente, sostenendo in tal modo il processo di accumulazione, mentre fugge dai lavoratori, rinforzando in tal modo la riproduzione della struttura sociale.

Infine i mercati delle merci e del credito contribuiscono a selezionare e disciplinare i capitalisti. Gli imprenditori efficienti espandono i propri mercati e sono premiati con alti profitti e potere crescente. Quelli inefficienti invece sono puniti con le perdite, il rallentamento della crescita e, spesso, il fallimento. Le leggi della concorrenza favoriscono il successo degli imprenditori efficienti mentre ostacolano la crescita delle imprese inefficienti ed espellono gli imprenditori incapaci.

Opera anche una condizione tecnica della riproduzione sociale. La competenza degli imprenditori che sono premiati dal mercato è un’attività specifica all’impresa familiare. È acquisita con l’esperienza e consiste in una serie di abilità particolari sviluppate sia con l’educazione familiare sia con la pratica nell’impresa. D’altra parte la scelta delle tecniche è una prerogativa dell’imprenditore, che l’esercita per estrarre il plusvalore e accumulare il proprio capitale. L’esperienza storica insegna che i processi di meccanizzazione stimolati dall’accumulazione tendono a dequalificare il lavoro manuale e a impoverire le abilità dei lavoratori (Braverman, 1974; Marglin, 1974; 1991; Gordon, Edwards e Reich, 1982). I dipendenti sono privati di ogni abilità specifica all’impresa. In queste condizioni è socialmente efficiente assegnare il controllo produttivo agli imprenditori (Grossman e Hart, 1986; Hart e More, 1990). In altre parole, mentre la struttura di governo dell’accumulazione basata sul mercato tende ad attribuire il controllo agli imprenditori più efficienti, il regime di proprietà concentrata abilita questi ultimi a scegliere le tecniche che favoriscono e giustificano il loro controllo (Pagano, 1991a; 1991b; Pagano e Rowthorn, 1994).

La stabilità istituzionale del capitalismo classico è assicurata proprio da questa azione di rinforzo che il regime di proprietà concentrata e la struttura di governo basata sul mercato esercitano l’uno sull’altra. E tuttavia il processo d’accumulazione così sostenuto genera a lungo andare le condizioni del cambiamento istituzionale. La storia ha provato che il capitalismo classico è instabile nel lunghissimo periodo. Il suo collasso finale è stato causato da tre tendenze principali: la crescita della ricchezza personale, la crescita delle dimensioni delle imprese e la crescita del movimento operaio.

Le grandi fortune accumulate in uno sviluppo secolare inducono i capitalisti a diversificare il rischio. Da una parte le imprese familiari o personali tendono a trasformarsi in società per azioni. D’altra i capitalisti individuali tendono a investire la ricchezza finanziaria in molte imprese. Così si forma una classe di capitalisti finanziari che specializzano le proprie competenze nella gestione di portafoglio.

La crescita delle imprese, che si verifica attraverso intensi processi di concentrazione e centralizzazione (Marx, 1964, I), porta all’espansione delle gerarchie interne. L’educazione familiare non è più sufficiente per addestrare gli imprenditori. Inoltre il vecchio meccanismo di selezione è esposte alle tare ereditarie e alle dispute familiari (Barca, 1994b). Le abilità imprenditoriali diventano sempre più specifiche con lo sviluppo delle imprese e la formazione delle capability aziendali, e diventano acquisibili solo attraverso una lunga esperienza di carriera nelle gerarchie interne. Ciò porta alla formazione di una classe di manager che si specializzano nella gestione delle organizzazioni, dell’attività produttiva e delle decisioni d’investimento reale. Così accade che quella della società per azioni risulta esser la forma più efficiente di struttura proprietaria nelle grandi imprese. È la più efficace nel garantire la formazione delle abilità manageriali, in quanto consente ai manager di crescere senza dover sottostare all’arbitrarietà di un proprietario. Ma è la più efficace anche nell’assicurare lo svolgimento delle funzioni selettiva e disciplinare, come si mostrerà nel prossimo paragrafo.-----

Infine la crescita del movimento operaio tende a minare progressivamente il funzionamento del vecchio tipo di “concorrenza” nel mercato del lavoro. La pressione sindacale porta gradualmente alla legalizzazione di vari tipi di azione e organizzazione operaia. Inoltre, l’azione politica - come quella organizzata dal movimento cartista in Gran Bretagna e da vari tipi di partiti democratici e socialisti in Europa e America - porta all’estensione del suffragio elettorale, allo sviluppo di legislazioni di protezione del lavoro e alla crescita della forza operaia. Il tempo di lavoro viene gradualmente ridotto, le condizioni di lavoro migliorate. I salari vengono fissati attraverso la contrattazione collettiva e tendono a crescere oltre il livello della sussistenza, almeno per una parte consistente della classe operaia. Il mutuo soccorso, l’assistenza pubblica e gli schemi pensionistici contribuiscono a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, i quali sono messi in condizione di offrire una parte, per quanto piccola, del risparmio nazionale.

8. Il capitalismo corporativo

Questa forma di capitalismo è basata su un regime di proprietà privata diffusa. Le grandi corporation che subentrano alle piccole imprese familiari sono costituite come società per azioni, hanno un azionariato molto disperso e una struttura di controllo produttivo articolata nella forma di ampie e complesse gerarchie organizzative. L’impresa non è più una cosa che appartiene a una persona o a un gruppo di persone che detengono il controllo residuale, ma è essa stessa un soggetto economico, cioè un’entità sociale dotata di personalità giuridica e capace di entrare in rapporti contrattuali con tutti gli altri tipi di agenti economici (Iwai, 1999). Gli imprenditori sono manager che, formalmente, agiscono sia come agenti degli azionisti sia come funzionari dell’impresa. Il loro obiettivo, nel primo ruolo, è il valore dell’impresa, nel secondo, la sua crescita. In linea di principio non c’è contraddizione tra i due obiettivi, poiché lo sviluppo è uno degli argomenti della funzione di valutazione dell’impresa (Screpanti, 1999a; 2001, cap. 6). Tuttavia, come si mostrerà tra poco, una contraddizione può sorgere a causa del modo in cui la struttura di governo dell’accumulazione disciplina i manager.

I lavoratori, i quadri e i funzionari sono governati entro gerarchie interne. I salari sono abbastanza alti da consentire ai lavoratori di risparmiare un po’ del loro reddito e accumulare ricchezza. Così questi diventano rentier e, direttamente o indirettamente, proprietari di una parte del capitale delle imprese. Tuttavia, nella misura in cui i proprietari sono deprivati di ogni capacità di controllo, i lavoratori restano dipendenti che lavorano sotto il comando dei manager e come tali possono essere sfruttati.

La riproduzione sociale è sostenuta da tre condizioni. La prima, che è la stessa che opera nel capitalismo classico, consiste nella non neutralità delle tecniche. Il cambiamento tecnico è diretto dai manager e incorpora una funzione di classe: il processo lavorativo è strutturato in modo tale da rendere efficiente il comando dei manager sui lavoratori e inefficiente il controllo operaio.

La seconda condizione consiste in una interazione particolare tra la struttura di governo dell’accumulazione e il regime di proprietà. Il capitalismo corporativo è istituzionalmente stabile soprattutto perché la sua struttura di governo, dato un regime di proprietà diffusa, assegna il controllo e la finanza a manager efficienti, mentre questi agiscono in modo da rinforzare il regime di proprietà stesso. Lo fanno: 1) alimentando la crescita delle imprese, cosicché diventa sempre più difficile esercitare il controllo proprietario unificando le azioni nelle mani di pochi rentier; 2) sostenendo la crescita del reddito tra tutte le classi sociali, cosicché la diffusione del risparmio e della ricchezza spinge a una crescente diversificazione degli investimenti tra i rentier; 3) lanciando e sostenendo progetti di azionariato operaio, fondi pensioni e simili, cosicché aumenta ancor più la dispersione dell’azionariato. In questo modo la struttura di governo dell’accumulazione e il regime di proprietà si sostengono l’un l’altro.

La terza condizione consiste in una specie di razionamento di classe del credito (Graziani, 1989; Bowles e Gintis, 1996). Le banche e i mercati finanziari prestano moneta per fare profitti, ma tenendo sotto controllo il rischio. Perciò tendono a privilegiare debitori che: 1) sono dotati di sostanziose ricchezze da offrire a garanzia dei prestiti; 2) propongono progetti d’investimento che sono molto profittevoli e relativamente poco rischiosi; 3) hanno una reputazione di abilità manageriale. I manager delle imprese esistenti sono normalmente dotati di queste tre qualità, i lavoratori no. Così i primi godono di un facile ed economico accesso al credito. Non i secondi. Il che contribuisce a stabilizzare la struttura di classe.

Ci sono due tipi di capitalismo corporativo, uno orientato al mercato e uno orientato alle banche, uno che combina il regime di proprietà diffusa con una struttura di governo basata sui mercati delle imprese e uno che la combina con una struttura di governo basata sul controllo bancario.

Nel capitalismo corporativo orientato al mercato gli speculatori finanziari svolgono un ruolo molto importante, in quanto si specializzano nella raccolta e l’elaborazione delle informazioni sulle performance aziendali, in altri termini nella valutazione delle imprese. I mercati finanziari godono di un alto grado di efficienza informativa “debole” nel senso di Fama, cosicché le valutazioni degli speculatori si riflettono immediatamente nei valori di mercato delle imprese. Perciò le imprese efficienti, oltre a godere di crescenti flussi di cassa propri, sono premiate con alte valutazioni di mercato e non hanno difficoltà a raccogliere finanza esterna con emissione di azioni e obbligazioni.

Un’altra categoria di operatori che svolge una importante funzione di governo è quella degli scalatori, i quali sono specializzati nella valutazione del divario tra la profittabilità potenziale e quella effettiva, in altri termini dell’efficienza dell’azione dei manager. Quando questo divario è percepito come positivo, cioè quando il valore di mercato dell’impresa è considerato inferiore ai valori fondamentali, i manager sono giudicati inefficienti. Allora scatta la scalata. Gli scalatori cercano di riunificare la proprietà e ritrasformare l’impresa in una cosa (Iwai, 1999). Una volta acquisito il controllo, essi cercano di realizzare il pieno potenziale del valore d’impresa smembrandola o licenziando i manager (Milgorm e Roberts, 1992; Barca, 1994a; 1994b). Questo processo funziona sia come strumento disciplinare che come meccanismo selettivo. I manager infatti devono continuamente fronteggiare il rischio di scalata. Se sono efficienti, sono premiati non solo con lo sviluppo e la disponibilità di finanza esterna, ma anche con un potere crescente (apportato dallo sviluppo), un buona reputazione e un alto prestigio (apportati dallo sviluppo e dalla valutazione di mercato), la sicurezza del loro posto (assicurata da una valutazione a prova di scalata) e alte paghe (che sono spesso legate al valore di mercato). Se sono inefficienti, il mercato mette a rischio la loro paga, il potere, il prestigio, la reputazione e, soprattutto, il loro posto di lavoro.

I principali difetti di questo tipo di struttura di governo sono noti. Il valore di mercato delle imprese è fortemente influenzato dalle aspettative degli speculatori. Ma questi, che solitamente hanno una buona esperienza nella gestione di portafoglio e nel trading, non sono insider delle imprese e non hanno informazioni migliori di quelle dei manager sulle prospettive di profittabilità e di crescita, specialmente la profittabilità e la crescita di lungo periodo. Perciò formano le proprie aspettative sulla base di variabili informative di breve periodo, profittabilità immediata, pagamento dei dividendi, bilanci, rapporti price-earning e simili. Questo fenomeno è responsabile del cosiddetto shortermism dei manager, cioè della loro predisposizione ad adeguarsi alle aspettative degli speculatori privilegiando obiettivi di breve termine a detrimento degli investimenti più innovativi e rischiosi e delle prospettive di crescita di lungo periodo (Stein, 1989; Zeckhauser e Pound, 1990; Bresnahan, Milgrom e Paul, 1991). Inoltre, poiché gli speculatori hanno un orizzonte di breve periodo, essi non sono nemmeno interessati alla formazione di aspettative a lungo termine, e spesso concentrano la propria attenzione nella stima delle aspettative degli altri speculatori piuttosto che nella valutazione dei fondamentali. Il che immette volatilità nei valori di mercato. Di conseguenza il capitalismo corporativo orientato al mercato, benché sia istituzionalmente stabile, esibisce una certa fragilità finanziaria e una tendenza all’instabilità dinamica. Bolle speculative e crash di borsa spesso producono effetti che travalicano i mercati finanziari e colpiscono l’economia reale, in tal modo intensificando la ciclicità dello sviluppo.

Il capitalismo corporativo orientato alle banche differisce da quello orientato al mercato in quanto funziona con una struttura di governo basata sulle gerarchie esterne. Pacchetti di controllo, anche minoritari, vengono usati per formare delle “coalizioni” piramidali di imprese guidate dalle banche. Una “banca principale” domina una coalizione usando un insieme variegato di strumenti, oltre al controllo azionario: le deleghe di voti dei suoi clienti, il potere esercitato nell’assistenza alle operazioni di aumento di capitale ed emissione di obbligazioni, l’influenza dei suoi membri nei consigli di amministrazione (o gli Aufsichtsrat), lo scambio e il prestito di deleghe con altre banche e simili. Le banche hanno rapporti di clientela, monitoraggio e supervisione con le imprese sottoposte, e sono capaci di raccogliere attendibili informazioni sulle performance dei loro manager, le opportunità d’investimento e le prospettive di crescita. In altre parole sono insider e, in quanto tali, sono meglio equipaggiate degli speculatori e degli scalatori per valutare i fondamentali e il potenziale di sviluppo di lungo periodo. Il management di una banca principale esercita un notevole potere di controllo sui manager delle imprese sottoposte, fino al punto di poterli licenziare, e tuttavia gli concede normalmente ampia autonomia decisionale e si limita per lo più a valutarne e disciplinarne l’efficienza nella performance di lungo periodo.

Una gerarchia esterna è in grado di assolvere a tutte e tre le funzioni di una struttura di governo. Quella finanziaria opera attraverso l’assegnazione selettiva del credito e l’assistenza negli aumenti di capitale. Le banche sono interessate alla profittabilità di lungo periodo dei loro investimenti. Perciò usano le loro informazioni interne per canalizzare i flussi di finanza alle imprese efficienti, innovative e dinamiche, mentre tendono a razionare il credito a quelle inefficienti e molto rischiose. In questo modo la finanza contribuisce a sostenere l’accumulazione del capitale. Le funzioni disciplinare e selettiva operano non solo attraverso l’assegnazione differenziale del potere, delle paghe e del prestigio assicurata dai differenziali di sviluppo, ma anche attraverso un sistema di promozioni e rimozioni dei manager tra le imprese controllate.

Il capitalismo corporativo orientato alle banche ha molti vantaggi rispetto a quello orientato al mercato, il più importante dei quali è che protegge i manager dall’influenza degli speculatori miopi, evitando in tal modo lo shortermism, e inducendoli a concentrare i propri sforzi sullo sviluppo di lungo periodo. Inoltre, controllando i flussi di credito, le banche contribuiscono anche a ridurre la fragilità finanziaria del sistema. Infine, dato che le disponibilità finanziarie non sono condizionate dalla volatilità causata dalla speculazione, anche l’instabilità dinamica è fortemente ridotta. La stabilità istituzionale, d’altra parte, è rinforzata dalla capacità delle banche di tenere sotto controllo la struttura proprietaria delle imprese soprattutto per quanto riguarda le scalate ostili.

Ci sono segni che inducono a pensare che le due strutture di governo, quella orientata al mercato e quella orientata alle banche, tendano a integrarsi nel capitalismo contemporaneo. Ciò è suggerito, ad esempio, dalla tendenza a rinforzare e sviluppare i mercati della corporate governance nel sistema giapponese e in quello tedesco, da una parte e, dall’altra, dalla tendenza degli investitori istituzionali, soprattutto i fondi pensione, a svolgere un ruolo più attivo nel controllo delle grandi imprese nel sistema anglo-sassone. Potrebbe così accadere che gli sviluppi futuri del capitalismo portino alla formazione di un nuovo sistema di governo dell’accumulazione che combini gli aspetti migliori degli altri due. Ma è ancora presto per poter teorizzare un nuovo modello di forma capitalistica.

9.Il capitalismo di Stato

In un sistema a capitalismo di stato la proprietà privata è abolita o ridotta a un’istituzione spuria e marginale. Il capitale produttivo è proprietà pubblica. Poiché lo stato “esprime la volontà e gli interessi degli operai, dei contadini e degli intellettuali, dei lavoratori di tutte le nazioni e i gruppi etnici del paese”(URSS, 1978, art.1) [3], la proprietà dei mezzi di produzione assume la forma di “proprietà statale (di tutto il popolo)” (art.10). “La proprietà statale è patrimonio comune di tutto il popolo” (art. 11). Perciò (quasi) tutti i cittadini sono lavoratori dipendenti dallo stato. Essi hanno “il diritto di scegliere la professione, il genere d’occupazione e il lavoro in conformità della vocazione, della capacità, della preparazione professionale e dell’istruzione” (art. 40). Ma hanno anche un dovere al “rigoroso rispetto della disciplina del lavoro” (art. 60). Il datore di lavoro, d’altra parte, cioè “lo Stato, esercita il controllo della misura del lavoro” (art. 14) e, “combinando gli incentivi materiali e morali” (art. 14), “assicura l’incremento della produttività del lavoro, l’aumento dell’efficienza della produzione e il miglioramento della qualità del lavoro” (art. 15). I salari non sono fissati attraverso il mercato o la negoziazione, ma sono determinati dallo “stato, basandosi sull’aumento della produttività del lavoro” (art. 23).

Evidentemente una prima condizione perché si tratti di un sistema capitalistico è assicurata: il rapporto di lavoro è l’istituzione fondamentale che regola l’utilizzazione del lavoro. Ma anche una seconda condizione è assicurata: la libertà contrattuale è riconosciuta a tutti i cittadini-lavoratori.

Tuttavia perché si tratti di un sistema capitalistico vero e proprio si deve verificare un’altra condizione: il comando del lavoro nel processo produttivo deve essere finalizzato all’estrazione di un plusvalore da usare per sostenere l’accumulazione del capitale. E in effetti lo stato “assicura l’aumento della produttività del lavoro” in forza dell’autorità che esercita nel processo produttivo. Esso inoltre ha “la direzione dell’economia”, che attua “sulla base dei piani statali di sviluppo economico [...] combinando la gestione centralizzata con l’autonomia economica e l’iniziativa delle aziende [...] A tal fine fa attivo uso del calcolo economico, del profitto, dei costi di produzione, di altre leve e stimoli economici” (art. 16). L’obiettivo economico principale dell’azione statale è “l’aumento della ricchezza sociale” (art. 14) ovvero, per essere precisi, “lo sviluppo dinamico, pianificato e proporzionale dell’economia” (art. 15), in altre parole, l’accumulazione bilanciata del capitale.

La struttura di governo dell’accumulazione è basata su gerarchie interne ed esterne che possono esser combinate in vari modi. Ad una estremità c’è la possibilità di concedere un’ampia autonomia ai manager delle imprese di stato, che possono essere dotati di estese prerogative di comando sul processo lavorativo e sulle decisioni d’investimento, ma anche sul processo di mercato, potendo fissare i prezzi dei propri prodotti e scambiarli liberamente nei mercati delle merci. Lo stato si occupa dello sviluppo e dell’efficienza complessivi monitorando i manager, assegnandogli eventualmente norme di prezzo o quantità, assistendoli finanziariamente, imponendogli vincoli di bilancio e orientandoli con la pianificazione indicativa e/o negoziata. Le imprese possono essere legate le une alle altre e allo stato attraverso varie forme di gerarchie esterne, anche di natura finanziaria. Questo è il modello del capitalismo di stato decentralizzato. Ad esso sembra approssimarsi la Cina d’oggi.

All’altro estremo c’è la possibilità di una completa internalizzazione della gerarchia, con l’economia nazionale ridotta a una singola immensa impresa e i manager locali ristretti al ruolo di direttori di divisione privi di ogni vera capacità decisionale sui processi di produzione, d’investimento e di mercato. In questo caso solo i beni finali sono venduti sul mercato, mentre i beni d’investimento sono scambiati a prezzi amministrati in uno spazio economico di pseudo-mercati interni. La finanza affluisce attraverso i canali gerarchici nel processo di esecuzione delle decisioni centralizzate. Questo è il modello del capitalismo di stato centralizzato. È stato approssimato storicamente dall’Unione Sovietica staliniana. In entrambi i modelli, comunque, quello centralizzato e quello decentralizzato, le funzioni selettive e disciplinari sono svolte attraverso la struttura gerarchica del potere e delle remunerazioni, in un modo non dissimile da quello vigente nelle strutture di governo del capitalismo corporativo orientato alla banca.

Insomma, se si guarda all’istituzione fondamentale che regola l’utilizzazione del lavoro e alla struttura di governo dell’accumulazione, il capitalismo di stato è una forma di capitalismo perfettamente definita.

Certo ci sono ancora alcuni che credono che una tale sistema cesserebbe di essere capitalista e diventerebbe socialista se il controllo dello stato, cioè del proprietario dei mezzi di produzione, fosse affidato al partito dei lavoratori. Ma sembra legittimo avere dei dubbi a tale proposito. Tanto per cominciare, se persiste una divisione del lavoro fondamentale tra una classe lavoratrice che ha l’obbligo del “rigoroso rispetto della disciplina del lavoro” e una classe politica specializzata nell’attività “amministrativa”, e se vengono perpetuate alcune forme di disuguaglianza basilari nella distribuzione dell’informazione, della conoscenza, della competenza politica, del reddito ecc., [4] difficilmente si può credere che i produttori siano in grado di controllare la produzione o anche soltanto il “partito dei produttori”.-----

Qui emerge comunque una contraddizione di fondo che può forse dar conto della debole stabilità istituzionale di questa forma capitalistica. In un sistema a capitalismo di stato i lavoratori dovrebbero rapportarsi allo stato in una duplice relazione: da una parte essi sono i cittadini da cui la classe politica deriva la propria legittimità, dall’altra sono lavoratori dipendenti che subiscono il comando dei funzionari di stato. Come possono i produttori controllare la produzione se devono obbedire ai manager e ai capi nel processo lavorativo? Ovviamente il controllo dei lavoratori sulla classe politica deve essere inefficace se i funzionari pubblici sono “funzionari del capitale”, cioè se devono perseguire lo sviluppo bilanciato della ricchezza nazionale.

Ed ecco il problema di instabilità istituzionale. Se ci sono molti partiti politici, nessuna classe politica può essere sicura nella conservazione del potere. I lavoratori continueranno a sentirsi oppressi e sfruttati finché sono sottoposti alla disciplina del lavoro orientata all’accumulazione del capitale, e tenderanno naturalmente ad identificare il proprio nemico di classe nel datore di lavoro governante. In un sistema del genere potrebbero verificarsi ricorrenti ricambi di élite, finché un qualche gruppo politico non decida, per stabilizzare il proprio potere, di abbandonare il ruolo di capitalista unico, di privatizzare i mezzi di produzione e di assumere la posizione di un attore politico socialmente neutrale. Nessuna classe politica può sentirsi a suo agio nel ruolo di principale nemico di classe del popolo da cui ottiene legittimazione.

L’unico modo per dissolvere, se non per risolvere, la contraddizione è di instaurare un sistema politico di partito unico. Ma una mossa del genere preclude ogni possibilità di legittimare il potere attraverso decenti procedure democratiche. Di conseguenza la legittimazione deve essere assicurata da una forte ideologia metafisica o metastorica. Il partito dirigente deve essere considerato come autorizzato a governare, non dal popolo o dal proletariato, ma da Dio o dalla Storia o da qualche altra entità trascendentale. E più forte è la presa ideologica del principio di legittimazione, più sicura e durevole sarà la presa politica della classe dirigente. [5] Se nonché, appena verrà meno la presa ideologica, i politici che non vogliano essere considerati come i principali nemici del loro popolo dovranno tornare a considerare la decisione di privatizzare i mezzi di produzione e democratizzare il processo di legittimazione. Ciò è accaduto in Unione Sovietica nel 1989, e sorprende non tanto il fatto che sia accaduto quanto che sia accaduto così tardi (Screpanti, 1999b). In ogni caso, che sia governato con un sistema multi-partito o con un sistema mono-partito, il capitalismo di stato è più instabile del capitalismo classico o di quello corporativo. [6] La ragione di ciò è che esiste in esso una contraddizione di fondo tra la sua struttura politico-legale, che fa dipendere la legittimità del potere statale dalla volontà popolare, e il suo sistema di utilizzazione del lavoro, che riduce il popolo a un’unica classe di lavoratori subordinati al datore di lavoro statale.

Tuttavia il capitalismo di stato può ben sopravvivere integrandosi con il capitalismo corporativo, dando così vita a un sistema misto. Un sistema misto di proprietà privata diffusa e proprietà pubblica può combinare i vantaggi dei due regimi, specialmente in presenza dei crescenti fallimenti del mercato cui va incontro il capitalismo contemporaneo. C’è da credere che una tale combinazione potrebbe rafforzare la stabilità istituzionale del sistema.

Esiste forse un’altra ragione alla base della intrinseca debolezza del capitalismo di stato, una ragione che è stata portata alla luce dalla recente débacle delle economie di tipo sovietico. È noto che un campo in cui questo tipo di economia ha fallito più miseramente è quello della competizione tecnologica con il capitalismo corporativo. La causa di un tale fallimento può essere capita facilmente se si accetta l’idea che quelle economie sono appunto forme di capitalismo di stato piuttosto che di socialismo. Come è stato messo in evidenza da Sutton (1968; 1971; 1973), l’economia Sovietica è cresciuta rapidamente fintanto che ha potuto avvantaggiarsi delle tecnologie importate dai paesi capitalistici più avanzati. Ma non appena è diventato necessario puntare sulla crescita endogena, sono emerse difficoltà insormontabili come conseguenza della debolezza delle capacità d’innovazione. La spiegazione di una tale debolezza è ormai conoscenza comune. Negli esperimenti storici di costruzione del capitalismo di stato sono stati eliminati molti degli stimoli e incentivi all’innovazione associati alla competizione di mercato e all’appropriazione privata dei frutti della scienza. D’altra parte, i tentativi di attivare gli stimoli non-economici generati dalle strutture di rete nella produzione di conoscenza sono stati fallimentari, segno lampante dell’assenza di contenuti propriamente comunisti dell’organizzazione sociale. Inoltre il forte clima burocratico degli apparati produttivi ha attivato quei “rendimenti decrescenti della gerarchia” (Boulding, 1971) che sono tipici delle grandi organizzazioni autoritarie, privando di ogni stimolo all’impegno innovativo tutti i lavoratori dipendenti delle imprese di stato. Bisogna dire comunque che non è accertato che questa sia una contraddizione fondamentale del capitalismo di stato, se non altro perché si tratta di un’esperienza storica ancora in corso, ad esempio in Cina.

10. Conclusioni: l’autonomia del capitale e l’essenza del capitalismo

Sorge spontanea la domanda: cosa hanno in come tutte le forme istituzionali illustrate nella seconda parte del saggio perché si possa parlare di casi particolari di un unico modo di produzione chiamato “capitalismo”. Ebbene, se è vero che l’anatomia della scimmia è spiegata dall’anatomia dell’uomo, una risposta a questa domanda può emergere da una lettura evolutiva dello schema di classificazione presentato in tabella 2, una lettura cioè che presenti le diverse forme istituzionali come stadi di un processo di sviluppo storico. Una tale lettura sembra suggerire che l’evoluzione delle economie moderne tenda alla realizzazione di una forma di “capitalismo puro” in cui finalmente si instaura l’autonomia del capitale.

Una delle caratteristiche più importanti del capitalismo fu portata alla luce da Marx, e consiste nella sua capacità di distruggere tutte le forme di relazioni umane basate su vincoli personali. La schiavitù e la servitù, ad esempio, sono considerate incompatibili col capitalismo: il rapporto di lavoro salariato presuppone la libertà contrattuale. Ma anche altre strutture sociali, come la famiglia, il clan o l’etnia, sono viste come sottoposte a processi di destrutturazione che annullano ogni cemento “naturale” della coesione sociale: i rapporti sociali devono essere rapporti tra individui legalmente liberi e l’aggregazione in gruppi, coalizioni e organizzazioni deve attuarsi per mezzo di transazioni regolate da istituzioni formali. Poiché la cellula fondamentale del modo di produzione capitalistico è la merce, tutte le relazioni sociali assumono la forma di transazioni o relazioni di scambio.

E tuttavia nel capitalismo classico l’essenza stessa del capitalismo, cioè il controllo del processo lavorativo da parte del capitale, è ancora basata su una sorta di relazione personale. Il lavoro vivo è dominato dal lavoro morto, ma quest’ultimo esiste come soggetto attivo solo in quanto è posseduto privatamente da una persona. L’impresa capitalistica non è una persona, ma una cosa appartenente a un individuo particolare. L’imprenditore ottiene il controllo del processo lavorativo in quanto è il proprietario dei mezzi di produzione. Di conseguenza la selezione, la disciplina e il finanziamento dell’imprenditore risultano fortemente condizionati da relazioni personali e familiari, le quali possono così riuscire a porre vincoli irrazionali all’allocazione efficiente del controllo. Infatti, sebbene la famiglia possa funzionare come apparato educativo per la trasmissione delle competenze imprenditoriali, non c’è nessuna garanzia che la trasmissione ereditaria del talento funzioni efficientemente. Come si è visto, questo problema diventa sempre più serio man mano che procede l’accumulazione e crescono le dimensioni d’impresa. Da una parte l’acquisizione di competenze imprenditoriali specifiche all’impresa è ottenuta sempre più frequentemente attraverso massicci investimenti in “capitale umano” del tipo che si accumula con l’esperienza e la carriera nella gerarchia d’impresa. Dall’altra la crescita delle ricchezze personali induce attitudini alla diversificazione del rischio che tendono ad indebolire l’affezione dei proprietari a un’impresa particolare.

La soluzione a questo problema fu trovata in un processo di evoluzione istituzionale che portò alla rottura di ogni forte legame tra i diritti residuali di controllo sull’impresa e i diritti al suo reddito residuale. Con lo sviluppo della società per azioni l’impresa diventa una persona giuridica dotata di obblighi e prerogative che non coincidono con quelli degli azionisti. D’altra parte, con la dispersione dell’azionariato i proprietari diventano rentier che risultano di fatto indistinguibili dai creditori dell’impresa, almeno per quanto riguarda i diritti di controllo, e formalmente distinguibili solo per il bene su cui si vantano diritti di proprietà, il profitto residuale e il capitale residuale di liquidazione rispettivamente. Lo stesso processo che tende a trasformare l’impresa in una persona indipendente dai proprietari trasforma i “funzionari del capitale” in agenti del “capitale in generale” e quindi quest’ultimo in un soggetto attivo. Un tale processo di trasformazione è stato spinto molto avanti dai sistemi di governance tedesco e giapponese.

Il keiretsu è una coalizione d’imprese tenuta insieme, oltre che da legami personali tra i manager, da complesse strutture di partecipazioni di minoranza e partecipazioni incrociate. Come è stato osservato da Iwai (1999), un gruppo di dodici imprese-guida che costituiscono il nucleo di un keiretsu possono diventare completamente autonome dal controllo degli azionisti esterni se ognuna di esse possiede il 5% delle azioni di ogni altra: la maggioranza delle azioni di ogni impresa sarebbe in tal caso posseduta collettivamente dalle altre imprese del gruppo. Di conseguenza i manager delle imprese-guida del keiretsu possono controllare legalmente l’intero gruppo senza possedere personalmente una sola azione. Basta che agiscano di concerto.

Il sistema tedesco è anche più rivoluzionario. In esso le imprese manifatturiere sono organizzate in strutture gerarchiche tenute insieme da legami finanziari e pacchetti azionari detenuti dalle banche. Ognuna di tali strutture è guidata da una banca principale, e gli azionisti esterni sono privati di ogni controllo. L’aspetto interessante di questo sistema è che la banca controllante è a sua volta controllata da altre banche. Così i manager delle banche, se agiscono di concerto, possono controllare l’intero sistema senza dover rendere conto ai rentier. In altri termini, sia nel sistema tedesco che in quello giapponese il capitale di controllo è auto-posseduto collettivamente.

Sorgono tre problemi teorici: Chi è il soggetto formale dei processi di produzione e d’accumulazione in questo tipo di capitalismo? Chi è quello materiale se quello formale non è un proprietario personale? Qual è l’istituzione fondamentale che sta alla base dello sfruttamento dei lavoratori se non è la proprietà privata dei mezzi di produzione?

Tutti e tre i problemi sono stati, se non risolti, almeno impostati lucidamente da Marx. Fondamentale è la tesi secondo cui la totalità del capitale, attraverso le leggi della competizione, costringe i proprietari particolari dei mezzi di produzione a servire il fine collettivo dell’accumulazione del capitale, cioè il fine di un soggetto astratto e universale. In questo modo i capitalisti individuali sono riguardati come “funzionari del capitale”. Marx chiarì anche che il capitale è una relazione sociale e non semplicemente, né tanto, una cosa: esso si costituisce come soggetto auto-valorizzante solo in quanto instaura una relazione sociale con il lavoro salariato. La difficoltà di queste tesi di Marx è che esse tendono a fare del capitale un soggetto irreale e ipostatizzato. Si può immaginare come opera, ma non si può vederlo. E non si può vederlo perché l’impresa, nel capitalismo classico, non è una persona ma una cosa appartenente a un individuo. Come può una cosa essere soggetto? E come può un individuo essere uno strumento di una cosa, peggio ancora, di una totalità di cose? Ebbene l’evoluzione del capitalismo ha confermato le tesi di Marx. Le ha confermate nel duplice senso che ne ha provato la validità e gli ha dato un contenuto reale.

Il soggetto formale dell’accumulazione nel capitalismo puro è l’impresa capitalistica, o piuttosto l’insieme delle imprese capitalistiche che sono collettivamente auto-possedute per mezzo delle partecipazioni incrociate. Queste imprese sono legalmente proprietarie dei propri rispettivi mezzi di produzione. Perciò non sono soggetti ipostatizzati ma vere entità sociali dotate di capacità contrattuale, e abilitate ad entrare in relazioni transattive con ogni altro soggetto. Ciò risolve il primo problema teorico.-----

Anche il secondo problema è stato risolto dall’evoluzione del capitalismo. I capitalisti, cioè i soggetti materiali dell’accumulazione, sono i “funzionari del capitale”, i manager delle imprese. Essi non sono più i proprietari dei mezzi di produzione, né fattualmente gli agenti degli azionisti. Nella misura in cui le imprese sono entità legalmente e collettivamente auto-possedute, essi sono dei funzionari delle imprese. Un’organizzazione può essere un soggetto formale, se tale è riconosciuta dalla legge; ma non può essere un soggetto materiale poiché in quanto organizzazione non ha una mente propria e non può prendere decisioni. La sua mente è la mente dei manager. Le sue decisioni e i suoi scopi sono le decisioni e gli scopi dei manager. E poiché questi ultimi, in virtù di un personale interesse al potere, alla paga e al prestigio, mirano alla crescita dell’impresa, si può dire che gli “scopi dell’impresa” coincidono con l’accumulazione del capitale. Per di più gli interessi personali dei manager non possono essere arbitrari: la loro attività è regolata da strutture di governo dell’accumulazione che disciplinano, selezionano e finanziano gli individui in modo tale che questi devono servire l’accumulazione del capitale. Solo i manager che definiscono correttamente i propri fini e li perseguono efficientemente sono selezionati e premiati.

Infine l’evoluzione del capitalismo ha anche contribuito a portare alla luce il contenuto reale della visione del capitale come “relazione sociale”. Marx dava due diversi significati a questo concetto. Da una parte lo intendeva nei termini della relazione di autorità costituita attraverso lo scambio di lavoro salariato, dall’altra come la relazione funzionale per cui il lavoro morto sussume quello vivo nel proprio processo di valorizzazione. Ma la relazione di autorità stabilita col contratto di lavoro nel capitalismo classico è ancora una relazione tra un datore di lavoro e un lavoratore personali, e conserva molti dei caratteri della hegeliana dialettica servo-padrone. Peggio ancora, non è una relazione d’autorità in senso stretto, cioè una relazione di potere costituita formalmente come funzione di una posizione entro una struttura gerarchica. Per di più, nella misura in cui non è il lavoro morto in quanto tale a sottoscrivere il contratto di lavoro, non si capisce come esso possa sussumere alcunché sotto se stesso. Nel capitalismo classico non è il lavoro morto, ma il suo proprietario privato a costituire la controparte che cerca di sussumere il lavoro vivo.

Tale difficoltà teorica viene dissipata non appena ci si rende conto che il lavoro morto non è altro che l’impresa capitalistica. Questa può realmente sussumere il lavoro vivo nel proprio processo di valorizzazione se è un soggetto legale auto-posseduto e dotato di capacità contrattuale: sussume i lavoratori assumendoli. E lo fa per mezzo del contratto di lavoro, il quale può essere ora inteso non come una transazione tra due persone, bensì come una istituzione che costituisce le relazioni sociali in cui l’impresa consiste. Entrando in un rapporto di lavoro, il lavoratore assume un obbligo a lavorare sotto il comando della controparte. Quest’ultima paga un salario in cambio della prerogativa di comando nel processo lavorativo. Ma è un’organizzazione. È strutturata nella forma di una gerarchia di posizioni funzionali dotate di autorità e vincolate da obblighi. La sua struttura reale è la struttura di relazioni sociali in cui consiste il capitale. L’impresa capitalistica si costituisce realmente con i contratti di lavoro che sottoscrive, poiché senza lavoratori non esiste come entità capace di auto-valorizzarsi. Sono le relazioni di potere costituite con questa istituzione che le danno vita. Come già osservato, l’impresa capitalistica è un nesso di contratti di lavoro. Così la relazione che lega il lavoratore al capitale non è una relazione tra persone. I funzionari dell’impresa che esercitano il comando sul lavoro non lo fanno nella forma di un potere personale, ma in virtù di un ruolo che gli è assegnato dall’organizzazione, cioè in una forma legittimata da una posizione d’autorità. Il loro potere è delegato legalmente dall’impresa, cosicché il lavoro morto risulta consistere realmente e formalmente nell’organizzazione. Ora è possibile capire qual è il senso profondo per cui il capitale è una relazione sociale: esso è il sistema di obbligazioni, prerogative e vincoli che regolano l’attività lavorativa nell’impresa capitalistica.

Conviene concludere con una ridefinizione e una esplicitazione. Una teoria generale del capitalismo deve essere una teoria minima. Poiché aspira ad essere applicabile a molte forme istituzionali specifiche, deve definire solo poche caratteristiche essenziali che sono comuni a tutte le forme. Sulla base dell’analisi sviluppata sopra, si può dire che tali caratteristiche essenziali si riducono a tre.

Innanzitutto, ogni relazione sociale nel capitalismo è una relazione di scambio, cioè una transazione tra soggetti che sono tutti egualmente dotati di libertà contrattuale. Ciò esclude le forme di vincoli di subordinazione personali, schiavitù, servitù, patria e maritale potestà e simili. Marx sviluppò questa idea a partire dall’assunzione che il capitalismo è un’”immane raccolta di merci” e che tutte le relazioni sociali che in esso si danno sono basate sullo scambio di merci. A dire il vero, quest’ultima tesi è eccessivamente restrittiva. Infatti esistono transazioni tra controparti autonome che non sono riducibili alla compravendita ma consistono in forme di contratti relazionali, cioè transazioni che costituiscono rapporti sociali e legali, come ad esempio i rapporti di mandato e fiduciari. E tuttavia la tesi di Marx coglie l’essenza del capitale.

In secondo luogo, il più importante contratto relazionale nel capitalismo è il contratto di lavoro, l’istituzione che genera l’obbligo operaio all’obbedienza nel processo lavorativo e, allo stesso tempo, costituisce l’impresa come una persona legale che è dotata dell’autorità necessaria per governare il processo lavorativo. Ovviamente l’obbedienza non è assoluta, sia perché le leggi, le consuetudini e i contratti fissano dei limiti all’autorità, e sia perché molti tipi di asimmetrie informative possono minare l’efficacia del comando e del controllo capitalistico del lavoro. La relazione d’autorità è comunque una condizione necessaria per lo sfruttamento capitalistico nel processo produttivo.

In terzo luogo, infine, una condizione sufficiente è che il plusvalore estratto venga usato per sostenere la valorizzazione e l’accumulazione del capitale. Perciò le decisioni d’investimento devono essere fuori della portata dei lavoratori. Quando ciò accade si può dire che il capitale è il motore primo dei processi di produzione e d’accumulazione. Una tale condizione può essere assicurata da diversi sistemi istituzionali. In effetti le differenze principali tra le varie forme di capitalismo risiedono nelle loro strutture di governo dell’accumulazione e, di conseguenza, nelle diverse figure sociali che svolgono il ruolo di funzionari del capitale. Ma resta vero che tutte le varie strutture di governo devono avere una proprietà in comune: la capacità di regolare l’uso del plusvalore per servire l’accumulazione del capitale.

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[1] Si veda Screpanti (2001, cap. 5) per una trattazione delle strutture di governo della produzione.

[2] Dato il prevalente interesse classificatorio di questa sezione, non è il caso di fare qui confronti di efficienza tra i vari sistemi di governance, né di discutere i cambiamenti che li stanno oggi trasformando.

[3] Tutte le citazioni che compaiono in questo paragrafo sono tratte dalla Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del 1977 (URSS, 1978).

[4] Sul ruolo svolto da queste forme di asimmetria nell’assicurare la riproduzione di un sistema di potere e sfruttamento di classe si rinvia a Screpanti (2001, capp. 2, 3).

[5] Lenin disse una volta che il Partito Comunista governava in Unione Sovietica in forza di un “diritto storico”. Sembra che avesse una concezione teleologica della storia, e piuttosto hegeliana, che gli faceva vedere nel gruppo dirigente del partito bolscevico l’incarnazione dello zeitgeist. L’avanguardia comunista aveva capito il senso della storia meglio di tutti gli altri raggruppamenti politici (come era stato dimostrato dalla sua abilità nella conquista del potere) e, a dispetto del fatto che quel senso consisteva in una concezione della storia come processo di presa di coscienza del proletariato, meglio dei proletari stessi (i quali infatti non avevano dimestichezza con gli sviluppi della filosofia occidentale). Perciò, nel loro interesse, i proletari dovevano essere diretti ed educati dal Partito Comunista.

[6] Così il capitalismo di Stato potrebbe risultare utile in molti casi di arretratezza economica nei quali è necessario avviare un forte e rapido decollo industriale per uscire dalla morsa del sottosviluppo. Esso, in forza della sua organizzazione totalitaria, può servire a rafforzare la spinta nazionale all’accumulo dei risparmi e all’aumento della produttività del lavoro, mentre, in virtù della sua instabilità istituzionale, può contribuire a renderla transitoria.