Cinque anni fa fu pubblicato un libro, redatto da me e da
Guglielmo Carchedi. In questo libro spiegai quello che pensavo fosse per Marx il
lettore ’ingenuo’. "A tale lettore, forse un idealista, scontento
dell’oppressione e ingiustizia, desideroso di cambiare il mondo e per questa
ragione di capirlo", Marx dice, in breve: ci sono persone che hanno
proprietà e persone che non ce l’hanno. Le seconde creano la ricchezza senza la
quale le prime non esisterebbero. I ricchi mantengono questa ingiustizia con la
oppressione, la falsità, la corruzione e la forza. Essi lottano per il bottino,
affliggendo il mondo con mali e sofferenze. Ma l’oggetto del loro desiderio (i
creatori di ricchezza) sfugge periodicamente ai loro controlli, provocando
disastri sia per i colpevoli che per gli innocenti con indifferenza o tragica o
comica. Tuttavia, tale processo dà a coloro che creano ricchezza l’opportunità
di rovesciare questo ordine di cose e fondarne uno migliore, se si organizzano
consapevolmente a tal fine.
L’opinione che comunemente ci si fa della teoria economica di
Marx, includendo l’opinione della stragrande maggioranza degli economisti
Marxisti, è che tale visione ingenua non possa essere vera. Gli autori nel
nostro libro dimostrarono invece che può essere vera. Noi dichiarammo senza
mezzi termini: "Gli stessi sostenitori di Marx hanno annunciato il
fallimento del suo progetto," quello di "rivelare la leggi del
movimento economico della società moderna".
Questa comune ma sbagliata opinione ha avuto un impatto
incalcolabile su come Marx è percepito dal non-specialista, dal militante,
dall’uomo di parte o soltanto dal lettore disinteressato e onesto delle sue
opere. L’opinione comune fra gli intellettuali è che, qualunque siano i meriti
teorici di Marx nel campo delle scienze politiche e sociali, le sue teorie
economiche sono sbagliate. I contributi in questo libro dimostrano che queste
accuse sono manifestamente e profondamente false. Non solo le accuse di
incoerenza sono infondate, ma non è necessario ’rivedere’ o ’correggere’ Marx
per dimostrare ciò. Da questo punto di vista, il nostro libro differisce dagli
altri tentativi di difendere la teoria di Marx dai suoi critici che cercano di
cambiare o ’correggere’ la sua teoria. Nessuno degli autori sostiene che Marx è
immune da errori o che un ulteriore sviluppo del suo pensiero dovrebbe essere
evitato; ma Marx non commise gli errori dei quale è stato accusato.
La debolezza decisiva della recente discussione sul valore,
come finora condotta nelle riviste italiane, è che, tranne alcune eccezioni,
non avendo fatto riferimento a questo dibattito, non è riuscita a presentare il
punto di vista di Marx. Si sta vivendo nel passato; si sta ripetendo e
rimaneggiando un dibattito che è vecchio di venti anni senza tenere in
considerazione i progressi che sono stati fatti in questi venti anni e che
radicalmente ribaltano le idee che Sraffa, Coletti e Napoleoni diedero per
scontate.
La nostra opinione è chiara: quello che la ricerca moderna
ha dimostrato è che la teoria di Marx non è sbagliata. Non c’è incoerenza
logica. La sua spiegazione della trasformazione è del tutto internamente
coerente, la sua legge della tendenza della caduta tendenziale del saggio di
profitto è, in termini del concetto di valore che noi abbiamo mostrato essere
il suo, senza alcun errore logico. I cosiddetti ’errori’ di Marx non sorgono
dalla sua teoria, ma da un’interpretazione specifica e erronea di quella teoria.
Tale interpretazione ebbe la sua origine in von Bortkiewicz, fu introdotta al
mondo Occidentale da Sweezy, e fu resa matematicamente rigorosa da Seton, da
Morishima e infine da Sraffa. Questa teoria soffre di un difetto fatale: non è
quella di Marx.
Naturalmente, come in ogni discussione scientifica, noi non
asseriamo questo senza prova. Gli articoli che apparvero nel nostro libro, e gli
articoli che noi stiamo proponendo per un dibattito in questa rivista,
presentano il nostro punto di vista che è già disponibile in inglese in un
numero crescente di pubblicazioni. Tale punto di vista è già a disposizione
degli interessati in italiano negli scritti di pionieri di questa
interpretazione, come Paolo Giussani e lo stesso Guglielmo Carchedi. Purtroppo,
è stato grandemente (e scandalosamente) ignorato da troppi partecipanti a
questa discussione.
Noi non chiediamo che i partecipanti al dibattito accettino i
nostri argomenti, che sono chiaramente estremamente controversi, senza
esaminarli o discuterli. Noi chiediamo che essi riconoscano che questo punto di
vista esiste. Nella misura in cui essi non lo fanno, è nostra opinione che il
dibattito non può essere considerato scientifico e che il risultato di tale
dibattito è che non è riuscito a presentare al pubblico italiano gli argomenti
di Marx adeguatamente. Lo scopo di questa breve introduzione è quello di
spiegare perché, secondo me, tutto ciò sia importante.
Prima di tutto, quale è la sostanza della questione?
Cavallaro, secondo me, la identifica correttamente. ’In terzo luogo’, scrive
sulla opinione tradizionale del concetto di valore di Marx, ’scontando la
diversità di composizione organica del capitale nei diversi settori della
produzione, si deve determinare il saggio di profitto come rapporto tra il
plusvalore totale e la somma del capitale costante e capitale variabile, e, una
volta dato quest’ ultimo, provvedere a rettificare i prezzi dell’output... agli
input si debbono applicare gli stessi prezzi dell’output; prezzi relativi e
saggio di profitto vengono ora determinati simultaneamente a la Sraffa.’
Il problema è chiaro: Marx non ha mai determinato i prezzi o
i valori in tal modo e non è concepibile che lo avesse potuto fare. La
supposizione che i prezzi degli inputs e degli outputs dovessero essere uguali
(altrimenti noto come, e matematicamente identico a, l’assunzione di equilibrio
economico) fu imposta solamente da scrittori posteriori. Bortkiewicz stesso, che
introdusse questa asserzione, non l’attribuì a Marx, presentandola invece come
una correzione necessaria di Marx al fine di renderla coerente con la teoria di
Walras, il fondatore della moderna teoria economica neoclassica. Come Gattei
(1982) testimonia, la prima lettera di Bortkiewicz a Walras il 9 Novembre 1887
finisce con le parole seguenti: ’I suoi scritti, signore, hanno risvegliato in
me un interesse vivace nella applicazione della matematica alla economia
politica, e mi hanno indicato la strada da prendere nella mia ricerca sulla
metodologia della scienza economica.’ Di Marx, Bortkiewicz scrisse inoltre:
"Alfredo Marshall disse una volta di Ricardo: ’Egli non
afferma chiaramente, e in alcuni casi forse non si rese conto pienamente e
chiaramente come, nel problema di valore normale, i vari elementi si governino
reciprocamente l’un con l’altro, e non successivamente, in una lunga catena di
cause". Questa descrizione vale ancora di più per Marx... [che] fu
fermamente dell’opinione che gli elementi di cui si tratta debbono essere
considerati come una specie di catena causale nella quale ciascun collegamento
è determinato, nella sua composizione e la sua dimensione, solamente dai
collegamenti precedenti... Le teorie economiche moderne stanno incominciando
gradualmente a liberarsi dal pregiudizio succesivista, e il merito principale è
dovuto alla scuola matematica di Léon Walras."
Bortkiewicz aveva chiara in mente una questione che
successivamente fu offuscata: la sua intenzione non era quella di interpretare
le idee di Marx ma di cambiarle. Egli voleva rimpiazzare il concetto di Marx del
non-equilibrio con un concetto di equilibrio Walrasiano. Tuttavia l’idea che si
è imposta nelle interpretazioni moderne, a cominciare da Paul Sweezy che
dichiarò che il quadro teorico di Marx è quello dell’ Equilibrio Generale, è
che questo concetto dell’equilibrio del valore è quello di Marx. Questa è
l’origine di tutte le confusioni che circondano i suoi supposti errori.
È nostra opinione che tutti tali errori, e tutte tali
incoerenze, non sorgano da Marx ma dal tentativo di interpretare Marx come se
fosse un economista dell’equilibrio economico. Il "nodo Gordiano" deve
essere tagliato. È ora di smetterla di interpretare Marx - il cronista più
ardente del fallimento del capitalismo qualsiasi sia il raggiunto equilibrio -
come l’esponente di una teoria il cui punto iniziale è quello di supporre
l’opposto di questo ovvio stato delle cose.
Se ciò è fatto, le inconsistenze svaniscono e la via è
aperta ad una ricerca completamente nuova: invece di indagare su ciò che è
sbagliato in Marx, finalmente possiamo incominciare a indagare su ciò che è
giusto in Marx. Ovviamente, la sua teoria non è empiricamente giusta per il
semplice fatto che essa è logicamente coerente. Il compito della investigazione
scientifica è quello di indagare su questo punto attraverso un confronto fra la
teoria e i fatti empirici. Il punto è che se questa indagine non fosse colpita
da ostracismo, Marx non potrebbe più essere escluso dalla ricerca scientifica;
la ’preistoria’ della teoria economica Marxista potrebbero finire e Marx
potrebbe essere accettato come un teorico legittimo le cui idee costituiscono
una alternativa perfettamente valida alle idee dogmatiche e fondamentaliste che
costituiscono l’ortodossia odierna.
Tuttavia ciò non accade. Perfino i Marxisti, dibattendo
seriamente la concezione accademica degli ’ errori’ di Marx e di cosa possa
essere salvato di essa, ignorano gli argomenti e l’evidenza empirica che ci
condurrebbero a considerare almeno la possibilità che Marx non commise nessuno
di tali errori. Perché? Questo è ciò a cui dedicherò il resto di questa
breve introduzione.
Recentemente fui invitato a Roma dalla Facoltà di Scienze
Statistiche dell’Università La Sapienza. La statistica è sempre stata uno dei
miei interessi principali ed è la materia di cui sono responsabile al governo
di Londra. Ovviamente la responsabilità dei pareri che esprimo qui, e questo
vale per tutta questa introduzione, è solo mia e non del governo di Londra né
di qualsiasi dei suoi dipartimenti.
Mi concentro su un punto che gli studiosi di statistica
prendono molto seriamente: l’importanza dei concetti analitici. Collegherò
questo punto al ruolo, nel pensiero economico, dell’ipotesi dell’equilibrio.
Consideriamo prima di tutto la questione dei concetti. Carchedi ha affermato
altrove che il requisito più importante, ma assente, nell’analisi
politico-economica è la struttura concettuale che è usata per abbordare tale
analisi. Questa è un’idea controversa, dato che l’economia positiva suppone che
la sua struttura concettuale è ’data’; non si trova nei suoi scritti nessuna
nozione che questa struttura deve essere interpretata criticamente, una volta
affermata. È semplicemente una nozione comune nella scienza economica.
Generalmente, non si capisce o non si riconosce che un
cambiamento nella struttura analitica conduce a un cambiamento nelle
conclusioni. Soprattutto, il mio argomento è che tale cambiamento conduce a un
cambiamento nelle nostre spiegazioni causali di ciò che osserviamo. In altre
parole, se si adotta un insieme diverso di concetti, si ottiene una teoria
diversa.
Consideriamo il concetto economico più ovvio, quello di
output produttivo. Per esempio, l’output della Turchia è cresciuto negli ultimi
dieci anni? E in quale rapporto è con la crescita di quello degli Stati Uniti?
Se lo si misura in denaro, è indubbiamente cresciuto più velocemente. Nel 1991
era di 638 miliardi di Lire turche e nel 1999 di 838 mila miliardi, una crescita
del 1290%. Se lo si misura in dollari, tuttavia, è cresciuto da $125 miliardi a
$153 miliardi, una crescita del 22%. Così abbiamo una prova semplice che il
prodotto nominale è un concetto inadeguato di produzione perché non ben
definito; esso dipende dalla valuta usata. Questa prova sorge senza qualsiasi
bisogno di una riflessione concettuale circa la natura dell’inflazione, sorge
dalla presentazione stessa dei dati, dalle statistiche che otteniamo dagli
studiosi di statistica.
È quindi chiaro che, dietro le molte diverse misurazioni
nominali della produzione, ci deve essere qualche cosa di più definitivo, più
stabile. Gli economisti hanno perciò sviluppato la nozione di ‘produzione
reale’, accettando con ciò l’idea talvolta considerata eretica che l’essenza è
diversa dalla sostanza. Il concetto di ’produzione reale’ è un tentativo di
esprimere l’idea che dietro al prezzo vi è qualche cosa altro che è
indipendente dal prezzo, e che noi possiamo concepirlo come una certa quantità
di produzione, come una dimensione fisica.
Tuttavia, anche questo è sbagliato. Di nuovo, la
dimostrazione può essere fatta senza ricorso a riflessioni concettuali,
considerando i dati stessi. Se per esempio si misura la produzione della Turchia
in ’dollari reali’ si scopre che è cresciuta del 2.3% negli ultimi dieci anni.
Ma se la si misura in ’Lire reali’ è cresciuta del 31%. E c’è anche un
argomento forte in favore della misurazione della produzione della Turchia in
Euro reali, il che condurrebbe di nuovo ad un altro dato. Così, di nuovo,
qual’è la misura della produzione ’veramente reale’?
Quando pongo questi problemi ai miei colleghi economisti, una
reazione comune è quella che si tratta di un problema di misurazione. Si
presume che vi sia una unico e coerente concetto di ’output’ e l’unica
difficoltà sia quella di ottenerne una buona stima.
Questo però non regge. Il prezzo di una pizza non è solo un
modo diverso per misurare la sua dimensione; esso esprime una proprietà diversa
della pizza. Ugualmente, il valore ’reale’ in dollari della produzione turca
esprime qualche cosa di diverso del suo valore ’reale’ in Lire, esprime in un
certo senso il potere d’acquisto della produzione turca sul mercato mondiale, in
contrapposizione al mercato nazionale. Queste non sono misure diverse dello
stesso concetto ma sono un’unica misura di due concetti diversi, e entrambi a
loro volta differiscono da un terzo concetto, il prezzo nominale di questa
produzione. Tuttavia, la teoria economica procede felicemente come se vi fosse
una, e solamente una, cosa, ’la produzione reale’ che può, contro tutta
l’evidenza statistica, essere quantificata in una sola maniera, così che le
leggi della dinamica economica possono essere espresse unicamente in questi
termini.
Inoltre questo non è un problema puramente quantitativo; ha
conseguenze qualitative. Se ci venisse chiesto ’la Turchia è cresciuta più
velocemente degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni?’ noi risponderemmo ’si’
se usassimo un concetto di produzione, e ’no’ se ne usassimo un altro.
Il punto più importante è che tutto ciò conduce a
spiegazioni causali diverse, ovvero, a teorie diverse. Se uno desidera spiegare
perché o se l’economia della Turchia è cresciuta, è ragionevole indagare sul
collegamento causale tra crescita e investimento. Ma in questo caso, in che
termini dovrebbe essere espresso questo collegamento causale? Cerchiamo di
spiegare l’alto tasso di crescita della Turchia in Lire reali, o il suo più
basso tasso di crescita in dollari reali? E che cosa intendiamo per
’investimenti’? Intendiamo investimenti in dollari, investimenti in dollari
reali, investimenti in Lire reali, investimenti a costo storico, a costo
corrente? Qual’è lo stock di capitale? della Turchia, in confronto alle
giacenze degli Stati Uniti? Studiosi di statistica disputano su ciò
continuamente; gli economisti formulano teoremi apparentemente rigorosi nei
quale il problema è trattato come se non esistesse.
La teoria economica comunemente accettata sostiene che il
capitale è uno dei due fattori centrali della produzione. Tuttavia, se
esaminiamo questa semplice idea (che è quotidianamente incorporata in centinaia
di modelli econometrici ed è il perno della moderna teoria della crescita
economica), ci rendiamo conto che conduce a conclusioni che, se esaminate più
da vicino, dipendono criticamente da come sono concepiti i dati immessi in
questi modelli. Lo stesso concetto di ’capitale’ è molto più problematico di
quanto non appaia a prima vista.
Inoltre, la maggior parte di questi modelli econometrici
incorporano una costruzione teorica nota come la funzione della produzione.
Nella funzione della produzione troviamo il lavoro oltre al capitale. Si presume
che il lavoro e il capitale possano essere sostituiti a vicenda. Ma ciò
presuppone che hanno qualche cosa in comune, e questo qualche cosa deve essere
quantificabile. È un passo ovvio (ed è in verità un obiettivo degli
economisti nel misurare tali concetti come ’ produttività multifattoriale’)
quello di tentare di esprimere entrami gli inputs nelle stesse unità, non
fossaltro che per avere un’idea del loro impatto relativo.
Abbiamo visto che vi sono grandi difficoltà nell’esprimere
la nozione di capitale unicamente in termini della sua ’dimensione reale. Questi
problemi crescono, piuttosto che diminuire, se tentiamo di misurare il lavoro
nello stesso quadro teorico, in termini del costo di acquisto.
Ma il lavoro ha una misura sua propria che non è soggetta
alle stesse difficoltà del capitale: il tempo. Il tempo è una caratteristica
universale, perfettamente quantificabile, di ogni processo produttivo (con
insignificanti, relativistiche, differenze tra il tempo di una persona e quello
di un altra). Nulla potrebbe essere più vicino dell’ideale ricardiano di una
misura invariante. Perché, allora, non esprimere il capitale in termini della
misura naturale del lavoro? Questa sembra essere un’ovvia linea di ricerca anche
in termini della teoria neoclassica.
Una disciplina che si rifiuta di investigare una possibilità
teorica non può essere considerata scientifica, dato che non considera una
possibile spiegazione. Per comportarsi come una scienza dovrebbe esaminare tutte
le spiegazioni possibili e confrontarle con l’osservazione empirica. La mancata
investigazione di una fondata possibilità teorica indebolisce considerevolmente
la pretesa dell’economia di essere una scienza e in particolare di essere una
scienza ’positiva’.
Ciononostante, l’economia neoclassica rigetta questa linea
di indagine, al punto, con rare eccezioni, di rifiutare perfino di insegnarla,
di pubblicarla, di dare agli studenti della materia economica accesso a essa e,
in molte occasioni, di dare lavoro a coloro che la accettano. Una esclusione
così sistematica equivale ad una forma di censura ed è paragonabile in un
certo senso al livello di esclusione della Chiesa nei confronti dell’eresia
Copernicana.
Quali motivi adduce la teoria economica per non perseguire
una ovvia linea di ricerca? Quando la domanda è posta, ci si trova di fronte a
due argomenti. Il primo è spesso che la misurazione del prodotto in termini di
tempo di lavoro è superata o screditata.
Ma che cosa ha a che fare la verità di una teoria con la sua
età? La teoria di Galileo dell’universo fu inventata nel 250 prima di Cristo da
Aristarco di Samos, che fu chiamato al tempo di Copernico’ il ’Copernico’ greco.
La sua teoria era sbagliata perché aveva 1800 anni? Nella teoria della luce,
teorie atomistiche e le teorie dell’onda si avvicendano con qualche regolarità
e secondo la teoria moderna la luce deve essere concepita come una combinazione
di entrambe le teorie. Sarebbe stato davvero un fisico imprudente colui che
all’inizio di questo secolo e alla vigilia della moderna teoria dei quanti
avesse abbandonato la teoria delle particelle, vecchia di 200 anni, perché
’superata’.
Se la teoria economica, nella sua forma moderna, fosse in
grado di spiegare adeguatamente tutti i fenomeni che noi osserviamo, potrebbe
essere giustificabile abbandonare le teorie per motivi di età. Ma come tutti
sanno, e come è ammesso dagli stessi economisti, la teoria economica non spiega
né predice gli eventi più elementari, come la attuale recessione. Si dice
scherzosamente che gli economisti prevedono il passato perfettamente. Ma gli
esperti più di buon senso non si azzardano nemmeno ad indovinare quanto
profonda o lunga sarà la recessione attuale, e i fatti hanno dimostrato che la
maggior parte di coloro che si sono azzardati a fare tali previsioni hanno
sbagliato.
E infine quegli stessi economisti che scartano le teorie
basate sul tempo di lavoro per motivi di età non hanno nessun problema con
teorie più vecchie e empiricamente molto più problematiche come quella dei
vantaggi comparati, o quella della mano invisibile.
Passiamo ora al secondo argomento, cioè che il concetto di
produzione e del capitale in termini di tempo di lavoro è stata screditata.
Come abbiamo visto, questo argomento è logicamente erroneo, perché dipende
dall’idea che per fare tale misurazione si deve usare l’approccio
dell’equilibrio di Sraffa. Ma come gli articoli che appaiono in questo rivista
dimostrano, e come altri già pubblicati provano, se si fa la misurazione che
usa l’approccio del non-equilibrio di Marx, si arriva a risultati completamente
coerenti.
Allora, che cosa è stato veramente dimostrato da tutti
questi studi? Di fatto, la seguente asserzione: che se si definisce il valore di
un prodotto presupponendo che il suo valore non cambia durante il corso della
produzione, si incontrano contraddizioni insolubili. Inoltre, si trova che la
quantità della produzione, così definita, è identica, a parte un numéraire
(un coefficiente universale) a una quantità data completamente dal consumo
fisico e dalla produzione di prodotti. Su questa base, si sostiene che la
misurazione della produzione in termini di tempo di lavoro è screditata e
ridondante.
Bene. Un scienziato concluderebbe come segue:
1 o che non è possibile misurare la produzione in termini di
tempo di lavoro (ciò sarebbe soltanto un riformulazione ridondante della
produzione in termini di valore d’uso, ovvero, del prodotto fisico o ’reale’);
2 o che non è possibile concettualizzare adeguatamente la
produzione in termini di tempo di lavoro scrivendo una serie di equazioni
simultanee che presuppongono che l’economia si riproduce perfettamente, e che il
prezzo e i valori rimangano costanti durante produzione.
Prima facie, la prima idea manca di credibilità. Dopo
tutto, chiunque sa che un’ora di tempo di lavoro produce molto di più, o molto
di meno, a seconda della tecnologia usata. Sarebbe quindi piuttosto strano se
risultasse che il numero di ore di lavoro in un prodotto fosse sempre
proporzionale alla dimensione del prodotto. Un studioso di statistica che si
imbattesse in un tale risultato tornerebbe sui suoi passi e controllerebbe i
suoi dati, perché i fatti stessi dimostrano che la teoria non può essere vera.
Prima facie, la conclusione più ovvia è che questo metodo per
determinare la produzione col tempo di lavoro è un metodo sbagliato, che non fa
quello che pretende di fare.
Una quantità crescente di studi, largamente ignorati
dall’attuale dibattito italiano, ha provato questo punto, e ha investigato
invece la seconda, trascurata, linea di ricerca che conduce a una determinazione
diversa e coerente della dimensione della produzione in termini di tempo di
lavoro usando l’interpretazione che è diventata nota come il Sistema Singolo
Temporale (SST). Sebbene ci sono molti motivi di cautela, studi statistici
incominciando a suggerire che questa determinazione offre, o conferma,
spiegazioni causali molto diverse e trascurate di alcuni dei più importanti
fenomeni delle economie moderne.
In particolare, e concluderò su questo punto, il metodo
usato dagli studi sopramenzionati suggerisce che le fasi prolungate di
contrazione a livello mondiale del tasso di crescita della produzione (comunque
misurato), come quello che stiamo attraversando, può essere spiegato come una
conseguenza dello stesso processo di crescita, come un limite che
l’accumulazione pone a se stessa. Tale metodo suggerisce che la crisi, e il
fallimento del mercato, non sono un risultato di una interferenza esterna nel
mercato, o una conseguenza di una regolamentazione insufficiente del mercato, ma
sono il risultato del funzionamento del mercato stesso.
Secondo me, il fatto stesso che questa linea di ricerca è
stata rigettata e anzi soppressa, è l’evidenza storica più chiara che
l’economia non è una scienza. Questo comportamento non corrisponde a quello che
dovrebbe essere la scienza, il libero scontro di posizioni, spiegazioni
contrastanti della realtà empirica. Non corrisponde alla pratica delle altre
scienze, per quanto imperfette.
La risposta, secondo me, va cercata nei meccanismi secondo i
quali questa disciplina è organizzata e finanziata. L’economia influenza più
di qualsiasi altra scienza sociale le scelte di politica economica e le leve di
comando che azionano quei meccanismi che indirizzano il mercato mondiale; prima
di tutto il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale per il
Commercio, le tesorerie delle grandi potenze e così via.
Gramsci disse una volta che il progresso sorge da
un’alleanza tra quelli che pensano perché soffrono e quelli che soffrono
perché pensano. Sfortunatamente molti di coloro che sono pagati per pensare
finiscono per tentare di provare che nessun altro ha il diritto di fare lo
stesso. Secondo me, questa è la funzione del paradigma dell’equilibrio; deve
convincere quelli che pensano perché soffrono che non c’è alcuna possibilità
di porre fine alla loro sofferenza. Questo è perché, se uno adotta il
paradigma dell’equilibrio, la possibilità che la nostra realtà possa cambiare
è stata definitivamente tolta dal modo in cui è permesso pensare.
Una delle grandi falsità che sorgono dal paradigma
dell’equilibrio, cioè dalla la struttura teorica e concettuale dell’equilibrio,
è questa: non c’è nulla da fare. La grande ’macchina della
globalizzazione’ è il risultato di un meccanismo automatico che non può essere
fermato, una parte dell’ordine naturale delle cose tanto inattaccabile, e
inaccessibile, quanto il grande Ordine Divino dell’universo medioevale che
Galileo e Copernico riportarono sulla terra e di cui i comuni mortali poterono
divenire parte.
Tuttavia, il mondo reale, e il mercato reale, come Mazzetti
ha indicato altrove, non è in equilibrio, non si riproduce perfettamente,
cambia continuamente i suoi prezzi, non riesce continuamente a vendere i suoi
prodotti. La possibilità della crisi è sempre immanente in tale sistema. Se si
teorizza le variabile chiave di questo sistema (produzione, investimenti,
capitale) in termini di tempo di lavoro, si trova una spiegazione del fatto che
questa possibilità non è soltanto latente, ma di fatto si manifesta nel mondo
in recessioni periodiche, fasi lunghe di declino con turbolenze politiche e alta
disoccupazione e, di grande importanza, la costante e secolare polarizzazione
del mondo in un gruppo piccolo di nazioni ricche e uno molto più grande di
nazioni povere.
La teoria dell’equilibrio elimina la possibilità della
crisi. La ragione decisiva, secondo me, del perché la teoria dell’equilibrio
è preferita alla teoria del non-equilibrio in pressoché ogni ramo della teoria
economica, è che nel quadro teorico dell’equilibrio è di fatto impossibile
formulare una teoria della crisi. Invece, la crisi è sempre vista come il
risultato di fattori esogeni; del cattivo governo, della cattiva politica
monetaria, della politica tecnologica, del sistema di regolamentazione, dei
sindacati, dei comunisti, dei terroristi, degli sceicchi del petrolio - di
qualsiasi cosa, di fatto, tranne che del sistema stesso.
Eppur si muove. Il sistema produce le crisi. Stiamo
attraversando quello che io penso sia la 28esima recessione periodica del
capitalismo e la sua quarta onda lunga di declino di accumulazione. Tali eventi
si sono manifestati con la regolarità delle comete, con ogni combinazione
concepibile di politiche monetarie, di regimi di regolamentazione, di governo
politico. Attribuire eventi così regolari, la cui forma è ripetuta più o meno
in ciascun caso distinto, a cause storiche e effimere o transitorie mi sembra
essere del tutto non scientifico. Chiaramente queste cause esterne interagiscono
con, e hanno un impatto profondo sul corso di, queste crisi ma penso che noi
dobbiamo considerare almeno la possibilità che il loro determinante ultimo sia
il mercato stesso, e questa è l’idea che è intollerabile e inaccettabile da
coloro il cui potere e la cui ricchezza derivano da questo mercato.
Perché è inaccettabile? Perché, se è chiaro che il
sistema produce le sue proprie crisi, la prospettiva cambia. Quello che
veramente accade è questo: il sistema del mercato, e soprattutto il mercato dei
capitali, pone i suoi propri limiti a se stesso. Il problema è concepito
capovolto perfino da parte degli oppositori più incisivi della globalizzazione,
perché in effetti essi accettano il punto di vista teorico che la
globalizzazione è un processo automatico e naturale, e limitano i loro
obiettivi (decisamente nel caso della Tobin Tax) a ’gettare un granello di
sabbia nel meccanismo’. Non ho nulla contro il gettare sabbia nel meccanismo se
ciò migliora la condizione umana, ma il problema è secondo me molto più
serio, perché l’intero veicolo esce periodicamente di strada con o senza la
sabbia. In questo caso, il problema è completamente diverso: scappare con le
minime perdite di vita. Il punto non è quello di fermarlo o di farlo avanzare;
questo è un falso dibattito. Il problema è cosa fare riguardo ai terribili
risultati che si verificano quando il veicolo si ferma da solo.
Che fare? È precisamente in momenti di crisi che la
coscienza umana diviene un fattore. In una macchina veloce su un rettilineo
autostradale, il conducente deve stare attento solamente all’acceleratore e
perfino questo è automatico nelle macchine americane. Ma se la macchina
incomincia a virare, il conducente deve guidare. In questo caso anche piccole
azioni contano, e quello che diviene importante non è quanto uno sia grande ma
quanto uno conosce. Gli architetti della globalizzazione devono usare una teoria
che oscura quello che sta succedendo. Le vittime della globalizzazione hanno
bisogno di una teoria che renda chiaro quello che sta succedendo; questo è ciò
che la nuova ricerca offre.