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Osservatorio meridionale

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Ciro Annunziata
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Dopo la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, una riflessione critica sui nuovi strumenti di sviluppo. Sviluppo dal basso o subalternità alla globalizzazione capitalista?
Ciro Annunziata

 

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Dopo la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, una riflessione critica sui nuovi strumenti di sviluppo. Sviluppo dal basso o subalternità alla globalizzazione capitalista?

Ciro Annunziata

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Il sud, anche da molti meridionalisti, è stato visto spesso come un qualcosa di monolitico, letto e riletto attraverso stereotipi, ed il suo sviluppo dimensionato rispetto alla distanza da qualcos’altro (dalle regioni del nord, dall’Europa).

Difficilmente si trovano, tranne in una trattazione minoritaria, contributi in cui venga centrata l’attenzione, su di una ipotesi di sud come diverso e altro dai modelli di sviluppo economico e sociali dominanti.

Il sud monolitico non esiste se non nell’immaginario di politici e studiosi: il sud delle piccole città è diverso dal sud delle metropoli, come è diverso dal sud delle campagne, come ancora diverso è il sud dei distretti industriali da quello delle piccole realtà artigiane, il sud dell’entroterra montano da quelli dei litorali affollati da turisti d’estate.

È in questa diversità che vanno ricercate nuove linee di lettura per nuove modalità per pensare ad un diverso modello di “sviluppo” (parola che andrebbe abolita visti i guai che ha portato) per i tanti sud dell’ITALIA.

1. Clientelismo vecchio e nuovo

Dal dopoguerra fino agli inizi degli anni 90, prima la classe politica democristiana e dopo quella socialista (e spesso anche quella comunista del PCI) ha instaurato un regime clientelare, che in cambio di voti gestiva la massa di finanziamento che lo stato poneva in essere per lo sviluppo del mezzogiorno (cassa per il mezzogiorno): opere pubbliche, appalti, commesse creavano un reticolo diffuso di clientela che si estrinsecavano al momento dei vari turni elettorali e che hanno costruito nel tempo un controllo del territorio, dove la mancanza di lavoro e l’assenza di una società autonoma dalla politica ha favorito ha subordinato la società meridionale ad un ceto politico-burocratico corrotto e arrogante.

Sono stati scritti fiumi di parole su come questo meccanismo ha permesso un salto di qualità alle organizzazioni malavitose, che hanno creato un legame perverso tra attività criminale - attività economiche - politica.

Molti dei mali dei sud dell’Italia sono ascrivibili a questo vizio di origine che ha sedimentato remissione e controllo sociale.

Con gli anni novanta e il vento di tangentopoli, la stagione dei referendum, la conseguente decapitazione della classe politica della vecchia DC e del partito socialista arrivano al potere le nuove leve del moderatismo e del riformismo di sinistra.

Cosa cambia? Apparentemente molto, nella sostanza poco. Il sistema clientelare creato in cinquant’anni è duro ad essere smantellato. I posti del sottobosco di governo locale e nazionale, non sono facili da destituire, e comunque sono posti di potere che mantengono i vecchi legami clientelari e ne creano di nuovi. La nuova classe dirigente accetta supinamente questo stato di cose in nome della governabilità e del governo della globalizzazione, alimentandolo con la paura delle destre.

Il risultato è stato quello di avere un governo più efficiente ( le cose con noi si fanno), ma riconvertendo i vecchi boiardi e creando una nuova classe di tecnocrati di sinistra più interessati ad ottenere contratti lucrosi che a smantellare il vecchio sistema clientelare.

2. I sud e il neo liberismo

Ovviamente i sud a partire dagli anni 80 sono stati il laboratorio per l’ascesa delle nuove forme di liberismo selvaggio, facilitato dalla presenza di un controllo sociale forte, che ha creato ad esempio terreno utile per le grandi multinazionali per l’esternalizzazione delle produzioni.

Il lavoro nero, sottopagato, precario, da sempre elemento fondante di una certa imprenditoria meridionale ha fatto si che la crescente voracità del capitale alla ricerca del massimo profitto e quindi dei minori costi, trovasse terreno fertile nelle regioni del sud, aiutato spesso dagli immancabili aiuti dello stato per lo sviluppo delle aree cosiddette marginali.

I governi che si sono succeduti (di destra e di sinistra) passata l’era democristiana, avendo accettato le compatibilità liberiste hanno solo cercato di “legalizzare” una situazione di precarietà e di insicurezza diffusa.

La riforma delle pensioni del governo Dini, il pacchetto TREU del governo di centro sinistra, le privatizzazioni massicce del Governo Prodi e la legge Biagi del Governo Berlusconi sono tutti provvedimenti che inquadrano l’esistente nella dinamica della globalizzazione e cercano di normare, di far divenire legale l’esistente, senza preoccuparsi minimamente di capire le ragioni profonde della precarizzazione del lavoro e del dramma sociale sia del sud che dell’Italia in generale.

I dati hanno dimostrato che qualche effetto queste politiche hanno portato: aumento del numero delle partite iva aperte, aumento della massa di investimento apportato nei distretti meridionali, aumento dei rapporti di lavoro cosiddetti atipici........ma questo basta per dire che vada tutto bene ? Basta guardare il tasso di dIsoccupazione o la qualità sociale all’interno delle famiglie o anche alla distribuzione del reddito per cogliere che queste politiche hanno miseramente fallito nel tentativo di dare una risposta ai tanti sud, in cerca di un percorso autonomo di “sviluppo”.

Il governo della globalizzazione non è altro che il governo a favore delle elite imprenditoriali e del ceto politico-burocratico, esso si alimenta di una crescente precarizzazione del lavoro e dell’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi.

Il sud diventa terra di conquista, che va depredato e spremuto per poi cercare altri lidi per valorizzare il capitale.

Dopo aver sommariamente abbozzato una riflessione su ciò che sono state le politiche di intervento nel sud, mi soffermerò su alcuni casi di analisi di strumenti attuativi utilizzati soprattutto dai governi di centrosinistra in un contesto territoriale ben preciso: quello dell’Agro Nocerino-Sarnese in Provincia di Salerno.

Il tutto visto con gli “occhi” della critica alla globalizzazione neoliberista. In sequenza analizzerò i patti territoriali in generale, il patto territoriale dell’Agro Nocerino-sarnese, gli interventi post alluvione a Sarno

3. La globalizzazione dal basso: i patti territoriali

Lo strumento Patto territoriale ha avuto il suo riconoscimento legislativo nel 1995 e da quella data è stato l’elemento centrale delle politiche di sviluppo economico dei governi di centro-sinistra.

Il fulcro dell’azione dei patti territoriali sta nel cosiddetto “sviluppo dal basso”, ovvero, far si che i processi in ordine alle scelte economiche e produttive del territorio siano il frutto di un coinvolgimento dei soggetti economici, istituzionali, sindacali e sociali che agiscono sul territorio. Non più la cultura del chiedere e dell’assistenzialismo ma quella del fare, della responsabilità e della condivisione delle scelte. Una tale impostazione ha sicuramente dei pregi rispetto a politiche basate su interventi a pioggia o su programmi improvvisati, eppure quella dei patti è la riproposizione nel locale della logica della globalizzazione economica, dove ogni aspetto dell’essere umano diventa risorsa e merce.

Se si può in qualche modo condividere la premessa va completamente rigettata la prospettiva: ci si organizza dal basso, coinvolgendo gli attori del territorio, “per poter competere sui mercati internazionali”. Lo scopo dei patti non è quello di ripartire dai bisogni reali delle comunità locali, ma - in nome di un generico concetto di lavoro - alimentare la dimensione della competitività esasperata sia sui mercati nazionali che mondiali. La logica diventa tanto più perversa se si pensa che è l’intero territorio a diventare una grande fabbrica da sviluppare nel modo più efficiente e competitivo possibile e non più solo spezzoni di società (come nel periodo fordista con la fabbrica). A tal proposito è bene citare cosa scrivono in un loro libro due fautori dello sviluppo dei patti territoriali:

Occorre quindi capire che il riapparire della centralità del locale dipende essenzialmente dalla nuova centralità assunta dal territorio nelle dinamiche produttive, perché il territorio come fabbrica diventa l’ambiente in base al quale si può competere. Oggi infatti, si compete attraverso sistemi territoriali, non più soltanto tra imprese: è il sistema territoriale nel suo insieme che compete nella dimensione globale, proprio perché il territorio è diventato quell’ambiente strategico funzionale ad alimentare sia il processo produttivo sia la gara competitiva”

(G. De Rita - A. Bonomi, Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, 1998)

A fare le spese di una siffatta prospettiva sono le reti di solidarietà presenti nella società e l’ambiente naturale ed agricolo base stessa della riproduzione della vita e della socialità. Se guardiamo alle esperienze del passato e pensiamo ai vari distretti industriali esistenti in Italia (Modena, Reggio, Bologna, Carpi, Sassuolo, Prato ecc.), si può facilmente notare che non sono oasi felici: inquinamento, malattie professionali, malessere e disagio sociale sono molto diffusi. Interi territori sono stati definitivamente distrutti e sottratti ad una dimensione dove relazioni umane e sociali e prospettiva ecologica abbiano cittadinanza.

4. Il patto territoriale dell’agro nocerino-sarnese

Gli elementi che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente si ritrovano chiaramente nel Patto dell’Agro Nocerino-Sarnese, già partito da alcuni anni, che presenta alcune peculiarità rispetto al panorama nazionale.

Esso viene “venduto” come patto innovativo dato che all’interno dello stesso ci sono alcuni protocolli aggiuntivi, quali quello sociale e ambientale, che guarda caso sono stati i primi ad essere finanziati. In realtà, analizzando bene i vari interventi si scopre che la direzione di fondo è sempre la solita: quella industrialista. Enormi aree saranno destinate agli insediamenti industriali e questo in un territorio dove le montagne franano dove, il territorio negli ultimi quaranta anni è stato devastato dalle grosse opere infrastrutturali, dove ci sono i fiumi che annualmente inondano campagne e città, dove il manto arboreo delle montagne e delle colline è ormai inesistente a causa dei ripetuti incendi, dove vi è la presenza impressionante di cave, molte delle quali divenute discariche abusive, dove i fenomeni di marginalizzazione e frantumazione sociale sono in pericoloso aumento. La logica è quella di partire dallo sviluppo industriale, il resto verrà da sé: se verranno gli imprenditori ad investire e a creare ricchezza, poi possiamo discutere di altre cose (reddito, occupazione, qualità della vita), anzi quelle stesse cose saranno automatiche. Non importa se poi le imprese con fondi della Regione, dello Stato e dell’UE assumono i giovani pagandoli il trenta per cento in meno di quanto previsto dal contratto nazionale del lavoro, o se inesorabilmente verranno distrutte quelle poche aree agricole rimaste, che comunque rappresentano un patrimonio unico al mondo quanto a tipologia di terreno e fertilità.

Due aree identificate come PIP (Piani di Insediamento Produttivo) nel patto, una a Fosso Imperatore, l’altra tra S. Marzano, Scafati e Angri (denominata TAURANIA) ed altre parallele, che comunque beneficeranno dei finanziamenti del patto, come quella mastodontica di Sarno (1200000 metri quadri) e quella di Casarzano di Nocera Inferiore (500.000 metri quadri) fanno del Patto la più grande devastazione del territorio che l’Agro abbia mai subito.

Considerazioni a parte vanno poi fatte sulla struttura societaria del Patto: la scelta della SPA è alquanto discutibile, in quanto una siffatta tipologia tende ad estromettere le soggettività più deboli quali associazioni e cooperative ed organizzazioni informali di cittadini, mentre favorisce gli appetiti dei gruppi economici più forti (vedi industriali, banche, ecc.)

Bisogna poi stendere un velo pietoso sulla questione della trasparenza degli atti e sui processi decisionali interni al patto. A dirigere la baracca c’è un’amministratore delegato ed un consiglio di amministrazione le cui riunioni e deliberazioni sono avvolte in una coltre di mistero che sanno tanto di massoneria. Del resto all’ignaro cittadino non è concesso accedere a tali atti, perche dicono i solerti funzionari che la PATTO SPA è una società di diritto privato......

Certamente la PATTO SPA è una società di diritto privato, ma i soldi che gestisce sono di tipo pubblico, e quindi i cittadini devono poter conoscere quali meccanismi regolano le decisioni che poi ricadono sul territorio e possibilmente devono poter anche partecipare a questo meccanismo.

Sono proprio queste pratiche di “occultamento legale” che alimentano un nuovo tipo di clientelismo e di familismo, che si differenzia da quello di democristiana memoria solo perché meno clamoroso, più fine e “politicamente corretto”.

In conclusione, il patto dell’Agro, lungi dall’essere uno strumento di partecipazione dal basso è diventato una macchina distributrice di finanziamenti che ha eliminato qualsiasi tipo ragionamento critico.

In cambio di qualche miliardo, alcune delle grosse organizzazioni sociali e sindacali hanno definitivamente rinunciato a quegli elementi che per anni le hanno contraddistinte e cioè, autonomia politica, innovazione di pratiche sociali, pungolo e critica.