Il Cicolano, staccato dalla regione Abruzzo nel 1927 e
aggregato alla nuova provincia di Rieti, nel Lazio, è una lingua di terra che
si estende in senso longitudinale, Est-Ovest, per circa 470 Kmq, fra due catene
montuose, il Velino ed i Carseolani, che degradano irregolarmente verso un
fondovalle ove scorre un fiumiciattolo, il Salto, che in estate resta in più
parti all’asciutto, nel suo corso superiore, ma poi si allarga in un lago
artificiale (dal 1940), una splendida gemma azzurra in un castone intensamente
verde.
Il nome affonda le sue radici nella storia pre-romana (terra
degli Equi, Aequicoli-Aequicolanum, nell’epoca classica; Eciculi, Eciculanum,
nel medioevo) ed è quello comunemente usato per indicare l’area, anche se,
nei documenti ufficiali, a partire dalla rivoluzione francese, figura quello
più asettico di Valle del Salto.
Una ricca bibliografia si è occupato e si occupa di questa
zona sottoponendo ad attenta ricerca gli aspetti naturali, le vicende storiche e
religiose, le tradizioni popolari e, ultimamente, l’archeologia che, da venti
anni, non cessa di portare alla luce elementi notevoli alla conoscenza delle
origini degli Equi e della vasta koinè culturale cui essi partecipavano,
restituendoci l’immagine di un popolo che poco si riconosce nell’“Horrida
gens” di cui parla Virgilio nel libro 7’ dell’Eneide.
Il Cicolano entrò a far parte del regno dei Normanni nel
1140, con Ruggero I, e di questo regno visse tutte le vicissitudini fino al
1861, conservandone i tratti fondamentali che gli valsero l’inclusione, all’inizio
degli anni ’50 del passato secolo, nell’area di competenza della Cassa per
il Mezzogiorno.
La descrizione della società cicolana pertanto. la si può
ritrovare pari pari nelle ampie inchieste sulla società meridionale compiute in
un secolo di storia unitaria dai molti meridionalisti che, sfatando un discorso
retorico che si tramandava da molti secoli, portarono alla luce un groviglio di
problematiche che appesantivano qualsiasi cammino di sviluppo. Il brigantaggio,
l’analfabetismo, l’aridità del suolo, l’assenza delle comunicazioni, gli
usi civici, l’azione parassitaria e frenante della borghesia agraria sono solo
alcuni dei pesi che stopparono per lunghissimi anni qualsiasi forma di
evoluzione.
Il recentissimo libro fotografico di Carlo Proia tenta di
restituirci quella società attraverso le fotografie.
La macchina fotografica coglie e fissa volti, scorci di
paesaggio urbano, le campagne, gli animali, uomini e donne intenti alle loro
attività o alle occupazioni domestiche, gli strumenti, le feste, le
ricreazioni:immagini appartenenti ad un mondo che non c’è più, familiari
agli ultracinquantenni, ma del tutto nuove alle giovani generazioni.
L’interesse, diffuso, con cui è stato accolto il libro
denota, tuttavia, quanto profonde siano le radici di quella cultura, quanta
suggestione essa ancora suscita nell’immaginario e come fertile sia il terreno
nel quale poter seminare il seme dello sviluppo locale.
Un mondo, quello della civiltà contadina, che aveva le sue
fondamenta nell’attività agro-pastorale, nella comunità del paese, che
coincideva con la parrocchia, nella grande famiglia. Un mondo in cui le scuole
erano rare e sotto-stimate, la mortalità scolastica altissima, i maestri, i
medici, i vescovi arrivavano a dorso di mulo, ma anche dove i ragazzi, vivendo
gomito a gomito in un rapporto serrato fra generazioni, in spazi spesso
ridottissimi, apprendevano e sperimentavano quotidianamente, nella vita di tutti
i giorni, i valori della solidarietà, della tolleranza, del rispetto, della
frugalità, della laboriosità del gusto per le poche cose che, con molta
fatica, si avevano a disposizione.
È venuta la rivoluzione industriale degli anni ’60 che,
nello spazio di un decennio, ha decimato i paesi, ha sconvolto il sistema delle
relazioni socio-economiche, ha intaccato valori millenari.
I Cicolani, in quegli anni, impararono a fare gli operai,
trasferendosi nelle regioni dell’Italia del Nord, o in Gran Bretagna o in
Germania, ma senza abbandonare neanche per un po’ la speranza di ritornare
nella loro terra non appena anche lì fossero apparsi i miracoli della
industrializzazione,
Nel corso degli anni ’70 le aree circonvicine della
confinante provincia aquilana hanno visto sorgere iniziative di ogni genere. Il
Cicolano, al contrario, ha visto solo lambirsi dalla A/24, quasi a marcarne il
confine, e un abbozzo di area industriale che non ha mai occupato più di 150
addetti, il segno più chiaro della solitudine e della impotenza locale.
La fascia aquilana che da Carsoli arriva in fondo al Fucino
per risalire poi sull’altipiano delle Rocche è tutta una catena di aziende
industriali, turistiche e commerciali con centri abitati vivacissimi,
sapientemente ristrutturati, ampliati con regolarità, piacevolmente arredati,
rafforzati nella loro consistenza demografica.
Nel Cicolano, invece, la civiltà industriale ha sconvolto e
tolto senza portare alcunché.
Lo spopolamento. Fra il 1961 ed il 1971 è stato registrato
un calo demografico del 28%, passando da 19304 residenti a 13846. Nel ventennio
successivo le perdite sono state di un altro 23%. La densità demografica da 43
abitanti per Kmq è passataa 24.
Con lo spopolamento, l’inevitabile invecchiamento della
popolazione. Le classi di età 1-15 rappresentano il 15% di fronte al 24% degli
ultrasessantenni.
I luoghi, una volta al centro della vita sociale ed
economica, sono rimasti deserti: deserte le campagne, deserte le strade e le
piazze, deserto il forno e le fontane, vuote le scuole e le chiese.
Le attività economiche tradizionali che avevano raggiunto
nel corso dei secoli un grado di integrazione tale da costituire un sistema
autonomo autosufficiente, capace di soddisfare le esigenze dell’intera
popolazione residente che è stata sempre di molto superiore all’attuale, sono
in parte scomparse ed in parte marginalizzate e, nel vuoto di ogni novità, le
emigrazioni degli anni ’60 sono diventate definitive.
Adesso c’è il discorso del passaggio dalla civiltà
industriale alla civiltà post-industriale. Questa ha nella globalizzazione il
suo aspetto più evidente.
Senza entrare nel merito dei grandi temi che il termine
richiama, restando legati al nostro campo di osservazione, è comune
costatazione che le aree deboli, ovunque esse si trovino, siano aree a rischio.
L’identità culturale è la prima a frantumarsi sotto l’azione
omologatrice dei media; successivamente viene minata la consistenza fisica delle
comunità con il calvario delle emigrazioni;viene intaccato il senso di
appartenenza alla comunità ed al territorio prospettandosi in altri luoghi il
mondo delle speranze.
Per il Cicolano sarebbe la seconda ondata emigratoria dopo
quella degli anni ’60.
Questa eventualità è dolorosamente diffusa. Le famiglie si
interrogano con preoccupazione sul futuro dei figli che, qualunque livello di
studi percorrano, laurea o diploma professionale, alla fine, comunque, saranno
costretti a pensare altrove il loro impiego e la loro vita.
Il Cicolano fino al 1806, pur di estensione limitata, era
costituito da 30 feudi intorno ai quali gravitavano 90 minuscoli centri abitati
sparsi sul territorio come tanti fazzolettini bianchi in un mare di verde.
Aboliti i feudi, furono creati, al loro posto, quattro comuni. All’inizio
degli anni ’70 nacquero le Comunità Montane, quale ulteriore forma di
unificazione territoriale. Nella realtà ogni comune marcia per proprio conto e,
all’interno dei comuni, ogni frazione tende a ritagliarsi uno spazio
esclusivo.
È mancato e manca l’elemento di sintesi che può nascere
solo dalla consapevolezza dell’unità territoriale;solo e quando il Cicolano,
appunto, viene percepito nella coscienza collettiva come il territorio di tutti,
base e punto di riferimento per ciascuno. Solo un grande progetto che riguardi l’intero
territorio ed abbia lo scopo di valorizzare le sue peculiarità, nel senso dello
“sviluppo locale”, può consentire di sfuggire al rischio di omologazione e
di dispersione.
Il libro di Carlo Proia, con le sue immagini, evidenzia la
profonda identità culturale che è alla base delle tante e piccole comunità
cicolane. I costumi, le tradizioni, il linguaggio, le attività economiche sono
ovunque le stesse.
Anche nel passato recente molta parte della bibliografia si
era dedicata ad analizzare questi aspetti ed aveva sottolineato la sostanziale
omogeneità culturale della vallata. Vicino a questo aspetto certamente
dominante, però, non si può non evidenziare il profondo individualismo che
impedisce e mina ogni forma di associazionismo. Un individualismo che si esprime
nei detti popolari del tipo “amore e mercanzia si fa da soli”, oppure “nella
società uno è poco e due son troppi”, o anche “ognuno per sé e Dio per
tutti.”
Questo fortissimo individualismo, trasferito nel settore
pubblico, ha fatto e fa in modo che i comuni siano sostanzialmente la somma
delle loro frazioni e la Comunità Montana sia la somma dei comuni, lasciando,
in definitiva, che il tutto cammini in sostanziale continuità con gli antichi
feudi, formalmente aboliti nel 1806, ma nei fatti vivi e vegeti.
Solo il superamento di questo estremo particolarismo può
consentire al Cicolano di sfuggire ad un destino ancora più amaro di quello cui
andò incontro nel corso degli anni ’60. C’è bisogno di un grande sforzo
unitario per poter arrivare alla valorizzazione ed alla esaltazione delle
risorse ambientali e culturali. Le capacità dei gruppi dirigenti non solo dei
comuni, ma di tutte le entità, pubbliche e private, operanti nel territorio di
“fare coalizione” è la via obbligata per innescare dinamiche di crescita
che, opportunamente accompagnate, possono portare al rimodellamento, su basi
nuove, di un sistema di relazioni socio-economiche che apra alle nuove
generazioni una prospettiva locale.
Una rivoluzione culturale, appunto, senza la quale non ci
potrà essere nessuna rinascita economica.