La fantasia e il potere: società e territorio nel racconto di tre scrittori meridionali
Paolo Graziano
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1. Il drammatico dilemma del Meridione
Una provincia da troppo tempo in costruzione e una città
ormai sull’orlo della distruzione: in quella, un solitario pilone di cemento
armato che dovrebbe reggere una bretella autostradale e invece regge solo l’aria
diventa il nascondiglio perfetto per la merce di contrabbando; nell’altra un
ospedale viene raso al suolo per edificare una riproduzione dell’anfiteatro
romano, mentre una chiesa barocca lascia il posto ad un raffinato locale con gli
antipasti a buffet disposti sull’altare maggiore.
Se un’immagine letteraria ha la facoltà di esprimere una
verità - sia pure provvisoria e secolare - su un luogo e un momento della
realtà, essa può farlo soltanto “fuori [...] da posizioni ideologiche già
pronte e consolidate” che “si rivelano inevitabilmente dei corpi allogeni
nel contenuto dell’opera, dei prosaicismi, delle tendenziosità” [1].
La letteratura infatti, soprattutto nei generi afferenti al
dominio del fantastico, si manifesta secondo Blanchot nelle forme dello
scompaginamento, dell’ironia, del distanziamento dalla materialità del
referente: anche quando adotta i toni edificanti, la parola unilateralmente
ideologica, “questo impegno si risolve ugualmente nella modalità del
disimpegno” [2].
Le modalità conoscitive delle forme letterarie moderne,
segnatamente del romanzo, privilegiano piuttosto la malagevole coesistenza di
punti di vista e l’obliquo percorso attraverso le distonie e le contraddizioni
del reale, lasciando emergere “in ogni voce [...] due voci discordanti, in
ogni espressione, l’incrinatura e la disposizione a passare ad un’altra,
opposta espressione” e mettendo così a nudo “la profonda equivocità e
plurivocità di ogni fenomeno” [3].
È questo sentore dei contrasti che dà alle storie di
Giuseppe Montesano, Antonio Pascale e Antonio Franchini un potere di descrizione
del Meridione superiore a quello di molta trattatistica sociologica. Come nelle
immagini iniziali, tra l’altro, il conflitto tra due tendenze opposte eppure
coesistenti e persino talvolta funzionali l’una all’altra, meglio di altre
figure rappresenta il drammatico dilemma che affligge il Meridione, sospeso tra
un volenteroso impulso alla ricostruzione e al progresso e una irrefrenabile
pulsione verso il disfacimento, che si confondono nella reiterata ambiguità di
un luogo dove la realtà si trasforma ma non evolve, le parole sono tradite dai
fatti e i progetti traviati dal contesto, finché le cose sottratte alla loro
naturale funzione lentamente cambiano destinazione d’uso.
2. Il mostruoso volto del potere
Nel racconto Mi vidi di schiena del casertano Antonio
Pascale la trasformazione del ceto medio meridionale si manifesta con l’erezione
di muri intorno alle case, un gesto di ostilità e di chiusura al territorio
piuttosto che di apertura: “fra qualche anno avrebbero messo un cancello e
più tardi un muro al posto del cancello, un muro destinato a diventare ogni
anno più alto, con i cocci di bottiglia, poi il filo spinato, poi due
telecamere” [4]. È un segnale poco
appariscente ma rappresentativo del cambiamento che, nel corso degli ultimi vent’anni,
ha mutato il volto di un ceto proveniente dal mondo rurale ed emancipato dalla
crescita economica del dopoguerra che rivendica, con sempre maggiore audacia, la
centralità del proprio ruolo produttivo nella società meridionale. Con
puntigliosa precisione Pascale afferma di aver percepito l’avvenuta
trasformazione “alle ore 15.00 del 22 aprile 1982” [5], irrilevante
momento di un ricordo d’infanzia che cade, tuttavia, in un periodo di
rilevante trasformazione della società italiana: gli anni ‘80. In quel
decennio l’effimera ascesa di un gruppo sociale privo di una forte identità
collettiva, permeato da aspirazioni individuali ed esclusive al progresso
economico, si salda definitivamente con le forme clientelari della politica
locale e - in certe fasi e in alcune zone - con le strutture di poteri sommersi,
generando “un amalgama difficilmente districabile fra potere economico e
potere politico, fra risorse sociali comunitarie e di parentela, risorse
economiche e risorse direttamente politiche” [6].
Il modello evolutivo praticato dai componenti di questo
gruppo sociale, con alcune variabili specificamente meridionali, è quello
dominante nel periodo iniziale del “modernismo” all’italiana: passaggio
all’iniziativa privata, aggiramento delle regole, alleanza con la politica.
Sono queste azioni che, nel racconto di Pascale, permettono il repentino
cambiamento di un membro del ceto medio di provincia: “In quegli anni il ceto
medio di mia conoscenza si è allungato, poi si è scisso. Il signor Nappi
lavorava in ufficio e appunto faceva quello che facevamo noi, poi di punto in
bianco si mise in proprio e cambiò lavoro. Il lavoro che svolgeva si chiamava
import-export, ed era tra le cose più misteriose di quegli anni. Si sapeva che
aveva un ufficio a Napoli, a via Petrarca. Con otto stanze stranamente vuote e
una grande anticamera piena di segretarie [...]. Con quel lavoro Nappi faceva
molti soldi. In pratica, alla fine degli anni Novanta, si sarebbe poi scoperto
che import-export significava raccogliere tangenti. Il signor Nappi metteva in
collegamento politici e ditte, poi ditte e sub-ditte” [7].
Gli effetti evidenti di questa rapida trasformazione di una
componente della società meridionale provocano, appunto, la lacerazione del
tessuto connettivo di un gruppo prima omogeneo: “Dicevamo che i Nappi se n’erano
andati di testa, però quanto li invidiavamo, quanto eravamo disposti a partire
pure noi con la testa. Fra noi c’era una tensione imprecisata, la stessa che
si stabilisce tra due poli che prima erano insieme poi si sono separati. In
mezzo si conservava una scia di appartenenza. Una specie di patto venuto meno”
[i].
Dietro la spinta poderosa del miraggio di una crescita senza
confini prestabiliti, la concorrenza e l’emulazione diventano così le uniche
modalità di relazione tra individui che si sono disfatti di qualsiasi forma di
identità collettiva: “il mondo, le cose, gli oggetti, i consumi vari che l’ex
ceto medio mostrava all’attuale ceto medio, non solo entravano di soppiatto e
chiedevano di essere valutati e presi, ma mettevano in discussione tutta la vita
finora vissuta” [8].
Quando l’avventura individuale di alcuni componenti della
borghesia meridionale diventa pietra di paragone e modello operativo per un
intero gruppo, essa si traduce in un’etica che assume come unico metro di
valutazione il successo individuale, ancor più ricco di prestigio sociale in
una comunità come quella meridionale che, secondo Thomas Belmonte, “fino a
non molto tempo fa [...] era una società fatta di due sole classi in cui il
ruolo della plebe era servire i signori e raccogliere le briciole cadute sotto
la tavola” [9].
Così il personaggio di Pascale, Nappi, ne enuncia il verbo: “la classe media,
quella salariata, era fatta da schiavi. Per tutta la vita avrebbero compiuto gli
stessi movimenti. Rappresentavano in sostanza un blocco sociale senza fantasia,
e dunque con poco spirito d’iniziativa. Posto fisso, parassiti. Tutti,
sosteneva Nappi, avrebbero dovuto provare il gusto di azzardare, per il bene
proprio, della propria famiglia e, per proprietà transitiva, della società”
[10].
Nella paradossale vicenda narrata dall’ultimo romanzo di
Montesano, Di questa vita menzognera, la formula etica di questo ceto in
ascesa si trasforma in una delirante estetica dell’arrivismo e della rapina,
svincolata da qualsiasi principio morale esterno: “E tu non dicevi sempre che
quelli che oggi sono chiamati criminali, chi lo sa, domani saranno santi? [...]
E comunque l’estetica è superiore all’etica, Carda’, nun è accussì?”
[11]. A far ricorso al principio di Wilde della superiorità dell’estetica
su qualsiasi norma morale è uno dei Negromonte, la famiglia di affaristi
meridionali che meditano di realizzare il più grande affare della storia
trasformando Napoli in Eternapoli, un immenso parco tematico della
cultura e del divertimento dove la storia, l’arte e le stesse vite degli
abitanti della città sono vendute ai turisti. Metà clan mafioso e metà lobby
imprenditoriale, il genotipo sociale dei Negromante si palesa soprattutto nel
desiderio di adeguamento del gruppo in trasformazione ad uno status superiore,
rintracciabile in alcune manìe come quella di mantenere dei precettori al
servizio per educare se stessi e i figli al nuovo rango o il vezzo di uno
pseudo-stemma gentilizio impresso sui telefonini di famiglia per accreditare una
presunta diversa appartenenza. L’ascesa di questa mostruosa incarnazione del
nuovo ceto imprenditoriale meridionale, infatti, necessita di una legittimazione
della condizione e del dominio acquisito, attuata dai Negromante con il “programma
di elevazione sociale” [i], destinato a giustificare e
consolidare - come in una rêverie feudale - il dominio dei nuovi ricchi
sul territorio: “qua’ nobiltà d’ ‘o cazzo? Noi siamo moderni, e simme
nuie, ‘a nobiltà! ‘A nobiltà d’ ‘e figlie ‘e zoccola [...] quella
che non schiatta mai!” [i].
3. Le mani sul territorio
Il progetto di totale controllo e capitalizzazione del
territorio, nel romanzo di Montesano, è partorito dalla mente di un personaggio
dalle significative ascendenze letterarie: ‘o Calebbano. Sin dal nome, questo
diabolico figlio naturale del vecchio Negromante richiama la figura di Calibano,
il selvatico e mostruoso servo abbagliato dal desiderio di diventare padrone de La
Tempesta di Shakespeare. Dalla più moderna mostruosità del faccendiere
rampante - cintura borchiata, camicia bianca con le iniziali ricamate, occhiali
scuri e computer portatile sempre acceso - appare caratterizzato il Calebbano,
che tuttavia conserva, del personaggio shakespeariano, l’insaziabile desiderio
di dominio, di un regno. Da conquistare o, se necessario, da edificare ex novo.
Il folle progetto di Eternapoli, con cui quest’icona
di certa imprenditoria criminale meridionale medita di rendere qualsiasi cosa ed
ogni esistenza funzionale alla produzione di profitti, nasconde la formula
applicata da decenni per esercitare il dominio su vaste aree del meridione:
controllo del territorio e saccheggio delle risorse. In accordo con gli estremi
sviluppi dell’economia capitalista, però, le risorse più redditizie
diventano quelle immateriali, infinitamente valorizzabili, potenzialmente
inesauribili: “Si vendevano tutto il Sud, ma con la gente dentro, come in un
immenso parco tematico. L’idea del Calebbano, o quello che riuscivo a capirne,
era di far diventare Napoli la ‘grande capitale’ della nuova economia [...]
la nuova epoca stava diventando sempre più immateriale, e il capitalismo si era
finalmente trasformato in quello che per millenni si era chiamato spirito. Nella
nuova era non si sarebbero vendute soltanto cose, ma idee. [...] Tutti
ripetevano che la vera ricchezza del Sud era il turismo, ma la loro era una
visione vecchia, già sorpassata. Sì, bisognava vendere il cibo e i monumenti,
ma soprattutto mettere in commercio ‘la vita stessa’ [...] Noi ci dobbiamo
vendere la vita della gente...!” [i]. Così il novello
Colosseo in cemento armato sorto al posto del Policlinico, l’osteria ospitata
nella chiesa di San Gregorio Armeno, le botteghe artigiane che sostituiscono
ogni abitazione costituiscono soltanto la scenografia su cui viene esposta la
vera merce in vendita: la vita delle persone trasformata in spettacolo, una
immensa rappresentazione della storia della città ad uso dei turisti, in cui l’esibizione
di ogni attimo dell’esistenza dei dominati costituisce, per i dominatori, ad
un tempo strumento di controllo e occasione di profitto: nella apocalittica ma
tutt’altro che irrealistica formula di Eternapoli si compie la
trentaquattresima tesi di Guy Debord, secondo cui “lo spettacolo è il
capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” [12].
Lo sfruttamento del territorio secondo modalità così
pervasive è stato reso storicamente possibile, come emerge da queste
rappresentazioni letterarie del Sud, dall’alleanza del potere centrale con la
potestà delle organizzazioni e dei comitati d’affari locali, che spesso si
manifesta nelle forme di un diradamento e di uno svuotamento della presenza
statale nel Meridione: come osserva Fotia, nei centri territoriali preposti all’esercizio
dell’autorità legittima “si ritrovano [...] soprattutto le tracce del
potere, senza che queste vengano vivificate da un concreto esercizio di esso”
[13]. La delega - finora occulta - firmata
dall’autorità centrale ai gruppi di potere locali diventa, nel progetto Eternapoli,
esplicito mandato alla gestione del potere economico e politico, non più
compiutamente distinguibili nell’epoca della globalizzazione: “Il potere
centrale, l’esercito e le televisioni nazionali restavano nelle mani del
Presidente, il governo dava il Sud in concessione ai Negromante e agli altri
imprenditori, e in cambio riceveva la massima fedeltà. Era una forma di
outsorcing, no? [...] L’Italia in outsorcing avrebbe realizzato il passaggio
definitivo a una società in cui chi produceva la ricchezza si assumeva anche il
peso di governare” [14].
In realtà le funzioni “di governo” del territorio sono
già esercitate di fatto, da tempo, dai comitati d’affari locali, a vario
titolo intrecciati con gli interessi della politica e le istanze della
criminalità organizzata. E si tratta di funzioni assolte con puntigliosa
efficienza, di gran lunga superiore a quella esprimibile dall’autorità
statale, nei suoi passaggi fondamentali: controllo (anche fisico) del
territorio, gestione diretta o indiretta delle attività produttive,
pianificazione dello “sviluppo” e delle trasformazioni. In Qui le
chiacchiere stanno a zero, Pascale descrive minuziosamente le azioni
corrispondenti a tali fasi del governo di vaste aree del Sud: “girare
continuamente in macchina per tastare il territorio [...] Ricordarsi poi di
delimitare i cantieri, i terreni, quelli soggetti a speculazione edilizia, lungo
i quali verranno innalzati i tralicci della luce, o che saranno interessati da
scavi per metanodotti, sui quali verranno tracciate linee ferroviarie, sistemi
fognari, scoli di acque reflue, esaminare in anticipo lo stato d’uso dell’appezzamento,
la sua valutazione mercantile, consultare come se fosse il vangelo il prezzario
civile per i pubblici lavori, conoscere l’estimo, le formule di anticipazione
del capitale, la stima dei frutti pendenti, essere pronti e informati, in prima
posizione, sul posto prima ancora degli altri [...]. Per questo stendere una
rete di conoscenze, tracciare la mappa dei luoghi dove ci si lascia andare a
pettegolezzi, magari perché si mangia bene, o si beve, insomma sistemare in
ogni punto nevralgico un amico, o un parente, che sia fidato” [15].
La conoscenza, la relazione, la fiducia sono elementi
fondamentali delle forme di controllo esercitate sul territorio meridionale, che
risultano efficaci solo in quanto prevedono, prima di tutto, il controllo delle
persone. Le varie forme assunte dal rapporto gerarchico tra individui basato sul
muto scambio di favori - dalla tradizionale clientela alle moderne versioni di mass
patronage [16] - sono state usate in ampie aree del Sud per praticare il controllo
degli individui, in maniera così pervasiva da rappresentare ciò che è stato
definito un “clientelismo organizzato di massa” [17]. Il vincolo di dipendenza, abolendo qualsiasi altra misura del valore,
subordina tutti gli individui ai detentori del potere politico ed economico.
Nell’ultimo romanzo di Montesano, anche gli intellettuali Cardano e Roberto
sono di fatto al servizio dei Negromante, per i quali scovano nei classici della
letteratura e della filosofia frasi ad effetto utili a sostenere il progetto Eternapoli.
Il meccanismo clientelare che disinnesca anche la coscienza
potenzialmente critica dell’intellettuale inglobandolo nel sistema è ben
descritto ne L’abusivo di Antonio Franchini, un romanzo in cui i
ricordi personali di un aspirante giornalista si intrecciano alla tragica
vicenda di Giancarlo Siani. Nella speranza di ottenere finalmente un lavoro come
giornalista - la cui libertà è già da quest’atto ipotecata - il
protagonista si procura un “referente”: “mia madre mi aveva detto di
andare. Don Pasquale con lei era stato perentorio: ‘Signo’, che vo fa’ ‘o
figlio vuost’? ‘O giornalista? Nun ce sta problema, s’apprisentasse...’
e comunicò la data e l’ora dell’appuntamento col segretario del politico.
[...] Stavo lì seduto e aspettavo, come dal medico al terzo piano, come dal
dentista al secondo, come se la cartella coi miei articoli sulle ginocchia fosse
il sintomo di una malattia che la raccomandazione avrebbe lenito. [...] stavo
lì e attendevo, immobile, evitando di pensare, senza alzarmi e andarmene, come
avrei dovuto fare per rispetto di me stesso dopo la prima ora di inutile attesa”
[18].
Ma il sistema non presenta smagliature, per cui “alzarsi e
andarsene” significa essere esclusi dalle necessarie relazioni produttive e
talvolta costretti, per costruirne di alternative, ad abbandonare il territorio.
4. Lontano da dove?
L’alternativa possibile, per il protagonista del libro di
Franchini, è Milano, percepita nel confronto con il Meridione come una realtà
“ora più rispettabile, ora più sottilmente spietata” [i]. Nel racconto Spettabile Ministero di Pascale, i due impiegati
meridionali emigrati a Roma confrontano il luogo della propria attuale esistenza
con il territorio di provenienza a partire da un dato banale della
quotidianità: “chi avrebbe mai pensato di stendere i panni non fuori, al sole
e al vento, ma dentro casa. In qualche bagno angusto, su stenditoi affacciati
sui cortili profondissimi e bui” [19].
La lontananza dal Meridione, per chi vi è nato ed ha
successivamente scelto di vivere in un qualsiasi altrove, produce una distanza
anche mentale da pensieri e pratiche prima condivisi, trasformando lo sguardo
sapiente e consapevole dell’autoctono in quello curioso e stupito del
forestiero: non a caso il narratore del precedente libro di Pascale, La
città distratta, adotta il registro stilistico del reportage, genere
praticato usualmente dall’inviato speciale in un luogo straniero [20]. E il protagonista
di Franchini mescola i ricordi ormai frammentari della propria infanzia alle
asettiche cronache giornalistiche e giudiziarie con cui compone uno spaccato di
un Sud irrimediabilmente lontano.
Con tale atteggiamento, capace di osservare e analizzare
ma non di trasformare la realtà, questi personaggi di Franchini e
Pascale tornano a frequentare il Meridione dopo aver costruito la propria vita
altrove. Per Montesano, invece, il luogo della costruzione di un’alternativa
non solo individuale ed esistenziale ma collettiva e politica alle attuali
dinamiche socio-economiche del Sud resta lo stesso territorio in cui tali
tendenze si manifestano. Il manipolo di personaggi che si oppone all’avanzante
programma di Eternapoli, guidato dall’archeologo Scardanelli, si
dilegua nei vicoli, si nasconde nella “dynamis sfuggente e
inarticolabile” [21] della vasta cittadella sotterranea che, a
Napoli, presenta forme speculari a quelle della città, cui il sottosuolo ha
fornito nel corso dei secoli i materiali di costruzione.
Ecco, dunque, un’immagine capace di rappresentare le
contraddizioni, le due voci contrastanti del Meridione, di cui si diceva in
apertura: una superficiale affermazione di criteri di sfruttamento criminale di
questa regione secondo le direttrici economiche indicate dai processi di
globalizzazione e una sotterranea resistenza allo stravolgimento e alla
strumentalizzazione delle relazioni tra individui e dei loro rapporti con il
territorio. Di fronte al dilagare di un pensiero unico in tema di rapporti
sociali ed economici, il rifiuto avanzato da questi personaggi allude alla
necessità di una resistenza più ampia e profonda, quella che si oppone alla
cancellazione della memoria, alla manipolazione dei fatti, al deterioramento
delle idee e dei valori.
Dai microfoni di una radio clandestina, la voce di
Scardanelli ricorda ai plagiati abitanti di Eternapoli il senso delle
cose: “una rosa è una rosa, il pane è il pane, la verità è la verità...”
[22].
[1] P. N.
Medvedev, Il metodo formale nella scienza della letteratura. Introduzione
critica a una poetica sociologica [1928], Dedalo, Bari 1977, p. 84.
[2] M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Gallimard, Paris 1981, p.
92, traduzione nostra.
[3] M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e
linguistica [1963], Einaudi, Torino 1968, p. 44. A proposito della relazione
tra realtà e finzione letteraria, Bachtin sottolinea che “Scrittore [...] è
chi possiede il dono del parlare indiretto” (M. Bachtin, Il problema del
testo nella linguistica, nella filologia e nelle scienze umane. Un’analisi
filosofica [1959-60], in A. Ponzio (a cura di), Bachtin. Semiotica,
teoria della letteratura e marxismo, Dedalo, Bari 1977, p. 206).
[4] A. Pascale, Mi vidi di schiena, in La manutenzione
degli affetti, Einaudi, Torino 2003, p. 93.
[5] A. Pascale, Il ceto
medio, in La manutenzione degli affetti, cit., p. 35.
[6] M. Fotia, Il territorio
politico. Spazio, società, stato nel Mezzogiorno d’Italia, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 1998, p. 247.
[7] A. Pascale, Il ceto
medio, cit., p. 38.
[i] Ivi, p. 37. La lacerazione, nella narrativa di Pascale, si manifesta
con la creazione di una distanza persino visiva tra individui prima contigui
nella composizione sociale. Dopo l’edificazione dei muri “nessuno avrebbe
più visto la villetta. E neppure i Nappi” (A. Pascale, Mi vidi di schiena,
cit., p. 93).
[8] A. Pascale, Il ceto medio, cit., p. 40.
[9] T. Belmonte, Una Gerusalemme secolare (conversazione con
M. Niola), in M. Niola, Totem e ragù, Pironti, Napoli 1994, p. 160.
[10] A. Pascale, Il ceto medio, cit., p. 39.
[11] G. Montesano, Di questa vita menzognera, Feltrinelli, Milano 2003, p.
102.
[i] Ivi, p. 50.
[i] Ivi, p. 82.
[i] Ivi, pp. 38-39.
[12] G. Debord, La
società dello spettacolo [1967], Baldini & Castoldi, Milano 2002, p.
64.
[13] M. Fotia, op. cit., p. 256.
[14] G. Montesano, op. cit., pp . 82-83.
[15] A. Pascale, Qui
le chiacchiere stanno a zero, in La manutenzione degli affetti, cit.,
pp. 81-83.
[16] Per l’applicazione del modello clientelare anche alle
organizzazioni politiche dei paesi caratterizzati da processi industriali
avanzati, cfr. M. Schefter, Patronage and its opponents. A theory of some
european cases, Cornell University - Center for European Studies, Ithaca (N.
Y.) 1977.
[17] L. Musella, Amici,
parenti e clienti. I professionisti nelle reti della politica, in Storia
d’italia. Annali, vol. X (I professionisti), Einaudi, Torino 1996, p.
606.
[18] A. Franchini, L’abusivo, Marsilio, Venezia 2001, pp. 162-163.
[i] Ivi, p.
105.
[19] A. Pascale, Spettabile Ministero, in
La manutenzione degli affetti, cit., p. 120.
[20] Cfr. A.
Pascale, La città distratta, Einaudi, Torino 2001.
[21] M. Niola, Sui palchi delle stelle. Napoli, il sacro, la
scena, Meltemi, Roma 1995, p. 3.
[22] G. Montesano, op. cit., p. 185.