1. Mafia e imprenditoria
La crescita enorme della criminalità organizzata, ed in
particolare di Cosa Nostra e della ’Ndrangheta, a partire dagli anni
Cinquanta, ha contribuito pesantemente a determinare nel Mezzogiorno il blocco
delle sue capacità di sviluppo economico e sociale nonché l’inquinamento in
radice del suo sistema politico. Agendo di riflesso sull’economia generale del
Paese e sul degrado della sua classe dirigente.
Il processo di accumulazione capitalistica delle due
organizzazioni criminali è unitario, ma si articola in quattro momenti
principali: a) formazione di risorse reali e finanziarie attraverso svariate
attività criminose, b) investimento di tali risorse nella riproduzione di nuove
attività illegali, c) riciclaggio della parte rimanente dei capitali, d)
reinvestimento del denaro “ripulito” nei circuiti legali dell’economia
reale e della finanza.
Mafia e ’Ndrangheta non abbandonano nessuna delle loro
tradizionali fonti di reddito, anche perché quelle poco redditizie le lasciano
all’esercito di lavoro delinquenziale arruolato nelle loro file. Esse
estraggono profitti dai traffici di oro e di preziosi, dalle estorsioni, da
varie forme di mercato nero, da truffe nei confronti di privati e di organismi
istituzionali nazionali e internazionali, dalle fatturazioni false, ed infine
dai sequestri di persona, anche se questi ultimi vanno diminuendo.
Ma l’accumulazione capitalistica delle organizzazioni in
questione compie un passo avanti veramente decisivo per la realizzazione della
sua potenza economica con il traffico degli armamenti e della droga. Per la sua
alta redditività basta una buona partita di droga andata in porto perché si
realizzi un processo moltiplicativo di accumulazione sia illegale che legale,
che prima, con gli altri strumenti di estrazione criminale dei capitali era
impossibile [1].
Un assetto imprenditoriale di questo tipo conduce le
organizzazioni mafiose prima a creare aziende di diretta proprietà dei boss;
successivamente a dar vita ad imprese “a partecipazione mafiosa”, secondo l’efficace
definizione data da una attenta ricerca compiuta nel merito [2].
Come nel caso della trasformazione dell’impresa mafiosa
originaria in impresa di proprietà di mafiosi, anche l’impresa a
partecipazione mafiosa nasce dalla necessità di rendere sempre più occulti gli
investimenti dei capitali. Sicché uno dei principali sforzi compiuti dai
criminali è rappresentato dalla mimetizzazione degli investimenti di capitali
in maniera da impedire di risalire alle origini illecite della loro estrazione.
È noto che in non pochi casi la mimetizzazione ha reso assai difficoltoso il
sequestro e la confisca giudiziaria dei beni dei membri delle due organizzazioni
criminali.
A base della formazione delle imprese a partecipazione
mafiosa vi sono motivazioni legate al sistema di potere della mafia, e
soprattutto ad un più efficace controllo del territorio e dei mercati locali.
Poiché la logica del rapporto tra imprenditori e criminali è basata su un
forte calcolo utilitaristico, sia i primi che i secondi cercano di adottare
soluzioni che evitino il conflitto. Un conflitto che potrebbe trasformare in
perdenti sia gli imprenditori che i criminali. La soluzione compromissoria a
tale problema consiste proprio nella compartecipazione del mafioso all’impresa
legale.
In tal modo i gruppi criminali si ramificano dalla Sicilia e
dalla Calabria in tutte le regioni d’Italia. Il servizio di investigazione
sulla criminalità organizzata della Guardia di Finanza in una recente relazione
indica le cosche e le famiglie che operano nelle diverse realtà; e precisamente
in Piemonte-Val d’Aosta, in Lombardia, Veneto, Trentino Alto-Adige, Friuli
Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Toscana, Umbria, Lazio.
Naturalmente gli insediamenti imprenditorial-mafiosi sono più intensi nelle
regioni meridionali. In Sicilia esse fanno riferimento a 239 cosche con 6900
affiliati. La ’Ndrangheta calabrese, considerata oggi la più pericolosa delle
mafie [3], conta su 159 cosche (86 nella sola
provincia di Reggio Calabria) e oltre 5600 affiliati.
Non desta dunque meraviglia che le cosche aprano nel Centro e
nel Nord d’Italia loro uffici di rappresentanza, prontamente trasformatisi in
operose ed ricche filiali. Tanto forti da superare, in qualche caso, il giro d’affari
della casa madre.
La mafia siciliana di sicuro ha subito alcuni colpi dolorosi,
ma essa rimane in piedi sostanzialmente con il suo intero potenziale
economico [4]. In ogni caso, taluni suoi indebolimenti hanno finito per
avvantaggiare la ’Ndrangheta calabrese. Impermeabile alle infiltrazioni, quasi
priva di pentiti per la sua prevalente composizione familiare, sicura del
controllo capillare del proprio territorio, quest’ultima contende ora a Cosa
Nostra il controllo di diverse regioni, e in Lombardia e Piemonte ha già
conquistato la supremazia [5]. Secondo una ricerca Eurispes la ’Ndrangheta ricava dal
traffico di droga 9.813 milioni di euro, seguita da Cosa Nostra che ne realizza
8.005. Crescono in maniera esponenziale estorsione e usura. Soltanto il “pizzo”
costa ogni anno ad aziende e commercianti circa 12 mila miliardi di vecchie lire
e il numero di negozi a rischio è di oltre 1,6 milioni [6]. In conseguenza poi della prassi dell’impresa
a partecipazione mafiosa, non c’è settore dell’economia e della vita civile
che non venga in qualche modo messo in pericolo dalla aggressività di Cosa
Nostra e ’Ndrangheta [7].
2. Mafia e paradisi fiscali
In un quadro siffatto è necessario dilatare l’ottica e
guardare agli affari delle holding criminose su ritmi di centinaia di milioni di
dollari all’anno. Oltretutto il patrimonio è al sicuro in Paesi e mercati off
shore. Si pensi, ad esempio, alle Antille olandesi; ma si tenga anche presente
che a Caracas, antico regno di potenti boss siciliani, è stato scoperto un
cartello di cosche calabresi capaci di spedire grandi carichi di stupefacenti
verso le principali città d’Italia e d’Europa.
Soprattutto la ’Ndrangheta oggi ragiona in termini di
esportazione delle attività criminali.
E questo spiega perché la Calabria verifichi una situazione
di grave depressione economica, di crescente impoverimento, di alti tassi di
disoccupazione. Oltre alla tendenza ad esportare gli ingenti redditi accumulati
in imprese fuori regione (Centro e Nord Italia, Europa, Americhe, ecc.), agisce
il prelievo fiscale parallelo che la ’Ndrangheta - come peraltro anche Cosa
Nostra - opera sugli imprenditori locali attraverso il menzionato pizzo. Tale
prelievo favorisce, come è ovvio, l’evasione. D’altro canto, il tessuto
economico generale ed i redditi non solo non crescono, ma tendono alla
depressione, rendendo sempre più pesante il processo involutivo dell’economia
delle regioni in questione.
La totale libertà dei movimenti di capitali, articolo di
fede della globalizzazione liberale, stimola il decollo di una finanza senza
leggi e facilita il riciclaggio del denaro sporco in quell’arcipelago dei
paradisi fiscali che ha dimensioni planetarie. Non è senza significato che l’azione
di fondo della Associazione per la Tassazione delle Transazioni Finanziarie per
l’Aiuto ai Cittadini (ATTAC) è legata alla lotta contro la dittatura di un
mercato saldamente vincolato a siffatti paradisi [8].
Pensare tuttavia che le formazioni mafiose delle quali stiamo
discorrendo siano semplicemente dei soggetti imprenditoriali è distorcente [9]. Induce infatti a teorizzare la mafia come un assieme
di comportamenti, quando essa si pone nel suo più essenziale modo di essere e
di operare come una struttura. E per questo, ritengo che la comprensione della
fenomenologia mafiosa nella sua completezza possa derivare soltanto da una
visione politologica delle organizzazioni criminose di stampo mafioso, e
soprattutto di Cosa Nostra e ’Ndrangheta.
3. Mafia e politica
Gli studiosi sostenitori della natura politica delle
soggettività mafiose qui analizzate sono pochi. I maggiori sono Mauro Fotia [10], Umberto Santino [11] e Marco Santoro [12].
Non bisogna confondere al riguardo la posizione di coloro che
parlano di una politicità delle organizzazioni mafiose semplicemente per
affermare il loro rapporto con la sfera politica e le istituzioni pubbliche. Una
tale impostazione infatti non vede nelle associazioni mafiose un carattere di
autonomia e di sovranità che le porta ad affermare una posizione di parità
rispetto allo Stato. Essa si limita ad evidenziare la collusione tra
organizzazioni criminose e taluni uomini politici o organizzazioni di potere
(partiti, strutture istituzionali, ecc.). I sostenitori della natura politica
della mafia si spingono oltre, affermando appunto che le associazioni mafiose
realizzano una loro organizzazione interna con regole, procedure, sanzioni, che
realizzano un vero e proprio ordinamento giuridico. Illuminanti al riguardo
tornano le pagine di Mauro Fotia che richiamano la concezione di quel grande
costituzionalista, noto teorico del pluralismo degli ordinamenti giuridici, che
è Santi Romano [13].
Solo in quest’ultima prospettiva, del resto, risulta comprensibile la potenza
economica della mafia. Quest’ultima infatti si pone su un piano di parità di
fronte allo Stato, impone le sue regole, escludendo le regole statuali, e dunque
afferma la sua logica di dominio, che non può non concretarsi nell’accumulazione
di una tale mole di ricchezza che consente di comportarsi da soggetto sovrano.
Ciò non vuol dire che l’interpretazione prevalente di Cosa
Nostra e ’Ndrangheta come soggetti collusivi con settori della politica e
delle istituzioni non abbia una sua rilevanza. Dopo tutto occorre sempre tener
presente che, sul piano della documentazione ufficiale dei maggiori organi dello
Stato, essa è la sola accettata. Ricordo per tutti la relazione di minoranza
della Commissione Parlamentare Antimafia dal titolo “Mafia e Politica in
Italia (1984-1990)” presentata alle Presidenze delle Camere il 18 gennaio 1990
e la “Relazione sui rapporti tra Mafia e politica” presentata alla citate
Presidenze il 6 aprile 1993.
Lungo questa linea hanno lavorato per decenni e continuano a
lavorare studiosi, uomini politici e soprattutto magistrati.
4. Mafia e istituzioni. Due scenari
Le recenti deposizioni del collaboratore di giustizia
Antonino Giuffrè, vice capo della cupola mafiosa siciliana, nelle 400 pagine
che formano il primo verbale sui rapporti fra mafia e politica, depositate dal
Procuratore Capo di Palermo confermano questa realtà.
La situazione odierna, sempre sotto il profilo dei rapporti
tra Mafia e spezzoni della politica e delle istituzioni, presenta due scenari.
Il primo evidenzia una spaccatura tra i boss che sono in carcere, come Riina e
Bagarella, ed i mafiosi che stanno fuori, capeggiati da Bernardo Provenzano. Il
direttore del Sisde prefetto Mario Mori davanti alla Commissione Parlamentare
Antimafia il 1° ottobre 2002 dichiara che gli interessi di queste due parti di
Cosa Nostra “sono ormai diversi ed è certa la frattura fra di loro”. I boss
che stanno in carcere tentano ogni strada pur di ottenere quegli sconti e
benefici che ammorbidiscano la durezza imposta dal regime del noto art.41-bis e
garantisca la possibilità di esercitare anche dal carcere un’egemonia sulle
loro cosche e su una parte dell’isola. I seguaci di Provenzano invece vogliono
sbarazzarsi dei carcerati, responsabili oltre tutto ai loro occhi di gesti, come
le stragi, che tanti danni hanno provocato a Cosa Nostra. Essi non intendono
altro che concentrarsi sui loro affari. In questo senso lo scenario non esclude
che sia stato lo stesso Provenzano a vendere Giuffré, facendolo
arrestare.
Per il secondo scenario, delineato nelle tre informative del
Sisde del luglio - agosto 2002, lo scontro è tra i boss detenuti e pezzi delle
istituzioni, colpevoli “di non aver mantenuto alcune promesse fatte durante la
campagna elettorale” promesse che si richiamano alla abolizione del 41-bis,
alla revisione dei processi, all’avviso di garanzia notificato subito agli
indagati, alle modifiche dei codici penale e di procedura penale. Il proclama di
Leoluca Bagarella indirizzate, come egli si esprime, alle “varie forze
politiche”, le quali hanno “strumentalizzato (...) ed usato come merce di
scambio i boss incarcerati” torna a sostegno di questo scenario. Peraltro, la
Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nella sentenza sulla strage di
Capaci afferma che già nel 1992 il progetto politico di Cosa Nostra “sul
versante istituzionale mirava a realizzare nuovi equilibri e nuove alleanze con
nuovi referenti della politica e dell’economia”. Vale a dire, a “indurre
nella trattativa lo Stato, ovvero a consentire un ricambio politico che,
attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le complicità di cui
Cosa Nostra aveva beneficiato”.
La delicatezza e gravità dei contenuti delle deposizioni del
collaboratore di giustizia Giuffré può essere rilevata anche dalla singolare
circostanza che il 30 settembre 2002 il Procuratore Capo della Repubblica di
Palermo, dopo aver ascoltato per i primi tre mesi, nel segreto più assoluto
(neppure i magistrati della DDA di Palermo fino a quel momento sapevano nulla),
salvo i sostituti aggiunti, ha chiesto ed ottenuto un’udienza dal Capo dello
Stato.
5. Conclusione
Se la “acquisitività politica” teorizzata da Weber e
ricordata da Fotia nei suoi lavori sulla mafia [14], è l’attitudine a realizzare posizioni economiche sempre
più robuste e vantaggiose, attraverso l’esercizio del potere politico svolto
per vie sia legali che illegali, non v’è dubbio che la soggettività politica
e ordinamentale fornisce la spiegazione più convincente della potenza economica
e finanziaria di Cosa Nostra e ’Ndrangheta.
I dissesti economici, sociali e politici avanti descritti
diventano in quest’ottica veramente comprensibili nelle loro cause ultime,
anche se non bisogna mai dimenticare che forse non è la mafia la causa prima
dei mali della Sicilia e della Calabria, come dell’intero Mezzogiorno, ma
semmai, sono i mali di queste aree del Paese, e cioè, il sottosviluppo, la
povertà, le varie forme di sfruttamento, la subalternizzazione ad un disegno di
sviluppo capitalistico finalizzato agli interessi del Nord, la causa della
Mafia.
[1] E. Fantò, L’impresa a partecipazione mafiosa. Economia legale ed
economia criminale, Dedalo, Bari, 1999, pp.16-17.
[2] E. Fantò, o.c..
[3] Il documento della Guardia di Finanza prende in considerazione anche la
camorra campana e la sacra corona unita pugliese. Per la prima v. Commissione
Parlamentare Antimafia, Camorra e Politica, Laterza, Roma - Bari, 1994
(Relazione presentata alla Presidenza delle Camere il 21 dicembre 1993); per la
seconda cfr. l’eccellente ricerca di M.Massari, La sacra corona unita. Potere
e segreto, Laterza, Roma - Bari, 1998.
[4] S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli,
Roma, 1993.
[5] E. Ciconte, Processo alla ’Ndrangheta, Laterza,
Roma - Bari, 1996. Ciconte è anche autore della migliore ricostruzione storica
apparsa sulla mafia calabrese: ’Ndrangheta dall’unità a oggi, Laterza, Roma
Bari, 1992.
[6] F. Cazzola, L’Italia
del pizzo. Fenomenologia della tangente quotidiana, Einaudi, Torino, 1992. Ma v.
anche T. Grasso - A. Varano, ’U pizzu. L’Italia del racket e dell’usura,
Baldini e Castoldi, Milano, 2002.
[7] M. Centorrino, L’economia mafiosa, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 1986; idem, Economia assistita da mafia, Rubbettino, Soveria
Mannelli, 1995.
[8] Attac.it, I paradisi fiscali.
La finanza fuori legge, Asterios, Trieste, 2000.
[9] La
teoria imprenditoriale della mafia è, come noto, quella prevalente. Per essa
rinviamo ai lavori di P.Arlacchi, La mafia imprenditrice, Il Mulino, Bologna,
1983, e di R.Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia,
Rizzoli, Milano, 1991.
[10] V.
i lavori Mafia, “Dizionario di sociologia”, EP, Milano-Torino, 1987; La
classe politica parlamentare dal 1861 ad oggi, “Studi sociali”, 1991, n.10;
La mafia come istituzione politica, Dipartimento di Contabilità Nazionale e
Analisi dei Processi Sociali, Università di Roma “La Sapienza”, Roma,
2000.
[11] Cfr. La mafia come soggetto politico. Ovvero la
produzione mafiosa della politica e la produzione politica della mafia, in
G.Fiandaca-S.Costantino (a cura di), La mafia, le mafie. Tra vecchi e nuovi
paradigmi, Laterza, Roma - Bari, 1994.
[12] Cfr. Oltre lo Stato,
dentro la mafia. Note per l’analisi culturale di una istituzione politica, “Teoria
politica”, 2000, n.2.
[13] M.Fotia, Il liberalismo incompiuto. Mosca, Orlando, Romano, Tra
pensiero europeo e cultura meridionale, Guerini e Associati, Milano, 2001.
[14] La mafia come istituzione
politica, o.c..