Spesso si attribuisce alla non-flessibilità la colpa di una
disoccupazione, proponendo come facili risoluzioni risposte quali la flessibilità,
e di conseguenza la privatizzazione e la liberalizzazione dei rapporti di lavoro,
o il riferimento ad assetti del mercato del lavoro (americano o inglese) considerati
ideali, da esportare innestandoli in ambienti economici, giuridici, culturali,
profondamente diversi senza pensare che le particolarità dei mercati del lavoro
andrebbero considerate come aspetti fondamentali di realtà economiche e sociali
ben specifiche.
La privatizzazione dei servizi pubblici locali discende poi
da quel principio di federalismo e decentralismo che ha riflessi enormi anche
sulle relazioni industriali. Ed infatti l’affidamento alle Regioni della materia
di tutela e sicurezza del lavoro può aprire la strada anche ad un federalismo
contrattuale secondo cui ogni Regione potrebbe creare un proprio statuto dei
lavoratori. La contrattazione nazionale perderebbe così significato e forza
a tutto vantaggio di una contrattazione territoriale che potrebbe sfociare,
con il passare del tempo, in una contrattazione ad personam con la perdita totale
di qualsiasi tipo di garanzia per i lavoratori, soprattutto i più deboli: donne,
giovani, persone in cerca di prima occupazione.
Per questo Anci e Cispel hanno richiesto che nei processi di
privatizzazione vengano previste opportune garanzie per il personale dipendente
delle aziende che dovranno lasciare gli affidamenti: la proposta è quella dell’applicazione
del disposto dell’articolo 2112 del Codice Civile il quale prevede la salvaguardia
del rapporto di lavoro in caso di trasferimento di azienda.
Tra i diversi aspetti del processo di privatizzazione due sembrano
particolarmente importanti:
1) l’estensione al sistema pubblico dell’accordo sul costo
del lavoro del 23 luglio 1993 che ha posto il vincolo della moderazione salariale
ancorando gli incrementi retributivi nel corso dei rinnovi contrattuali al tetto
di inflazione programmata. La necessità del contenimento della spesa è stata
la causa principale delle critiche rivolte al decreto legislativo 29/1993 e
di riflesso ai CCNL circa la rigidità nell’utilizzo delle risorse anche nella
sede decentrata;
2) il tentativo di armonizzare le regole che disciplinano il
rapporto di lavoro pubblico a quelle del settore privato [1].
L’adattamento delle nostre economie alle continue evoluzioni
del mercato spinge sempre più verso forme più o meno estese di privatizzazione
che a loro volta danno impulso a nuove forme contrattuali: tra queste vanno
sottolineate le forme di contratti temporanei, uno degli aspetti senz’altro
più evidenti nel mercato del lavoro europeo degli anni novanta. Da più parti
viene esaltato il contributo dei contratti temporanei alla crescita dell’occupazione:
in realtà per analizzare in maniera esauriente tale contributo “occorre capire
in che misura la performance insoddisfacente della crescita dei posti di lavoro
coperti da contratti permanenti sia una conseguenza indiretta della crescita
dei contratti temporanei. In effetti, sembra che in alcuni paesi, tra cui Germania,
Francia e Italia, i contratti temporanei abbiano sostituito posti di lavoro
coperti da contratti permanenti. Sebbene questa sostituzione rappresenti un
modo per rendere il mercato del lavoro più flessibile, gli effetti di lungo
periodo di questo fenomeno possono essere molto negativi. Con il passare del
tempo infatti, un’eccessiva quota di posti di lavoro coperti da contratti temporanei
(soprattutto tra i giovani) riduce gli incentivi dei lavoratori ad apprendere
professionalità specifiche del posto di lavoro” [2].
I dati dell’Istat suggeriscono che l’occupazione temporanea
è un fenomeno molto più radicato al Sud dove rappresenta il 14% dell’occupazione
dipendente, rispetto al Nord e Centro, dove non supera il 9%. Sempre dai dati
dell’Istat risulta che nel 2000 oltre il 60% dei nuovi posti di lavoro creati
in Italia sono posti di lavoro a tempo determinato: ma quanti di questi contratti
a termine si trasformano successivamente in rapporti di lavoro stabili? Nel
Mezzogiorno per le persone il cui primo impiego è stato a tempo determinato
dopo 3 anni appena il 5% gode di un’occupazione permanente, contro il 22% nel
Centro e il 30% nel Nord. Gli esiti occupazionali a 5 anni di distanza dall’ingresso
sono ancora più differenziati: l’entrata nel mercato stabile coinvolge quasi
il 50% dei giovani occupati al Nord, il 37% al Centro e solo il 15% al Sud.
La progressiva diffusione di queste forme lavorative (contratti
a tempo parziale e svariate tipologie contrattuali a tempo determinato) è avvenuta
ai danni dell’occupazione standard. Il “nuovo mercato del lavoro” si presenta
molto articolato, con forti processi di segmentazione e stratificazione sociale.
Alla tradizionale contrapposizione tra chi ha un lavoro e chi non ce l’ha si
sommano quelle tra chi ha un lavoro continuativo e chi no, tra chi ha un lavoro
tutelato e chi no [3].
[1] AA.VV., "La riforma
della P.A.: un percorso accidentato, ricco di prospettive ma avaro di risultati",
Quaderni ISRIL, 2-3/1998.
[2] Luci ed ombre dei contratti
temporanei, in http://www.frdg.org.
[3] Istat, “Rapporto sull’Italia. Edizione 2000”, Il Mulino,
2000.