Nel corso degli anni ottanta i processi di privatizzazione hanno caratterizzato la politica economica in tutta l’Europa occidentale, come risposta alle politiche che avevano predominato nel lungo periodo successivo alla seconda guerra mondiale e che avevano sottolineato l’intervento pubblico nell’economia.
Così dopo i primi esperimenti effettuati dal Regno Unito e da qualche altro paese (es.: la Francia) la privatizzazione di vecchi servizi e di organizzazioni del settore pubblico è divenuta via via una caratteristica distintiva della politica dell’Unione Europea durante tutti gli anni novanta.
Quando si parla di settore pubblico ci si riferisce alle Amministrazioni pubbliche ossia al complesso delle Amministrazioni Centrali, degli enti previdenziali e delle amministrazioni locali: in sostanza si tratta di amministrazioni che producono beni e servizi non destinati alla vendita. Più precisamente con il termine Pubblica Amministrazione si intende l’operatore che produce servizi collettivi i quali, non formando oggetto di compravendita, non hanno un prezzo di mercato, attuando inoltre la redistribuzione del reddito e della ricchezza con operazioni di trasferimento o di erogazioni unilaterali in denaro o in natura effettuate a beneficio degli altri operatori e settori [1].
Il conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche comprende le principali voci di spesa e di entrata delle amministrazioni pubbliche secondo il criterio della natura economica; a queste voci va poi aggiunto il Risparmio pubblico (dato dalla differenza tra Entrate correnti e Uscite correnti), l’Indebitamento netto (Entrate totali meno Uscite totali) e l’Avanzo Primario.
Le tabelle 1, 2, 3 e 4 mostrano chiaramente come le spese delle Amministrazioni Pubbliche comincino a decrescere (dopo una crescita pressocchè costante a partire dal 1960) a partire dal 1992. Viene da chiedersi il perché di questa inversione di rotta nella gestione dell’economia nazionale e al proposito possono essere individuati due motivi alla base della riduzione degli interventi statali nell’economia:

1. Innanzitutto le direttive di "liberalizzazione selvaggia" adottate dall’Unione Europea in materia di telecomunicazioni, ferrovie, trasporto aereo, servizi postali, energia, tutte misure volte all’apertura dei mercati nazionali alla concorrenza.
2. In secondo luogo la realizzazione dell’Unione economica e monetaria dell’Europa che in virtù del principio di convergenza dettato dal trattato di Maastricht ha spinto i governi a vendere beni statali e interessi nelle compagnie industriali [2].
I processi di trasformazione in corso quindi sono ampiamente determinati dall’affermazione dell’ordinamento comunitario e del suo principio fondante della concorrenza come elemento costitutivo del mercato unico europeo esprimendo così "meglio di ogni altro intervento la necessità dei vari modelli di capitalismo finanziario di mettere in discussione sul piano mondiale le conquiste del movimento operaio" [3].-----
Le ideologie liberiste che ispirano questi processi mirano a:
- Migliorare l’efficienza dei settori interessati e quindi diminuirne i prezzi;
- Risanare le finanze pubbliche, spesso oberate dai costi elevati di questi servizi.

In maniera meno esplicita e più subdola le stesse ideologie hanno come obiettivo anche:
- La creazione di opportunità per realizzare ingenti profitti dalle operazioni di acquisizione e vendita delle aziende;
- L’indebolimento del potere e delle condizioni contrattuali dei lavoratori di questi settori;
- L’indebolimento progressivo dello Stato sociale che tra i tanti obiettivi ha anche quello di prevedere delle tariffe adeguate agli strati più disagiati della collettività.
Questo fenomeno di profonda ristrutturazione che stanno subendo tutti i servizi pubblici (attraverso la privatizzazione di attività considerate tradizionalmente attività della Pubblica Amministrazione) e che interessa ora anche i servizi caratteristici degli enti locali è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi del mondo a causa del fatto che molti di questi servizi, specialmente quelli erogati direttamente dalle amministrazioni pubbliche, sono spesso percepiti come inefficienti (comportano uno spreco di risorse in quanto l’offerta non avviene al minimo costo) e inefficaci (poiché l’offerta raggiunge l’obiettivo prefissato in modo imperfetto e imparziale) dalla maggior parte dei cittadini. Per questo motivo ci si è chiesto se le attività economiche svolte tradizionalmente dallo Stato non possano essere svolte con un minor utilizzo di risorse, senza dover necessariamente sottrarre al settore pubblico il compito di erogare e/o promuovere determinate attività per aumentarne la funzionalità.
Gli scenari futuri che si prospettano alla Pubblica Amministrazione sono quindi determinati da una serie di importanti trasformazioni quali:
• Finanziarizzazione della proprietà
• Privatizzazione delle gestioni dei servizi
• Esternalizzazione di alcune attività
• Cambiamento delle forme di lavoro, ovvero tendenza alla mobilità dei lavoratori e a forme di flessibilità salariale.
Può essere interessante vedere in dettaglio il conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche in Italia e le sue variazioni dal 1995 al 1999.
Come si evince dalla tabella 5 dal 1995 al 1999 c’è una forte diminuzione nella variazione delle uscite rispetto all’anno precedente quando si passa dal 1996 al 1999: per quanto riguarda le spese totali la variazione scende dal 5,9 del 96/95 al 1,8 del 99/98. Anche questo può essere spiegato come la naturale conseguenza delle politiche attuate e indirizzate ad un indiscriminato contenimento della spesa totale delle Amministrazioni pubbliche, tendenza che ben si adatta agli scenari attuali e internazionali di taglio alle spese pubbliche in tutti i paesi, visto che anche negli paesi dell’UE le posizioni di bilancio delle Amministrazioni Pubbliche presentano tutte un trend in costante diminuzione nel corso degli anni ’90 (vedi tab. 8).


 
  
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 Si pongono al riguardo alcuni quesiti di ordine politico-economico 
  quali: a. Quale potrà essere il ruolo dello Stato e del sistema politico 
  in un’economia di mercato? b. Il soddisfacimento di interessi collettivi deve tener conto 
  ed evitare una possibile degenerazione burocratica? Questa impostazione che vede nella privatizzazione e nella 
  scelta del sistema concorrenziale l’unica soluzione ai problemi di servizi pubblici 
  a volte inefficienti, produce solo comportamenti finalizzati a raggiungere livelli 
  sempre maggiori di competizione senza tener conto che esistono forme di fallimento 
  del mercato in cui ha ragione d’essere l’intervento dell’azione statale: una 
  di queste è proprio rappresentata dall’esistenza dei beni pubblici. Tutto ciò non fa altro che ripercuotersi sul mondo del lavoro 
  con la conseguente tendenza a forme di precariato e di temporaneità dell’occupazione 
  che a loro volta generano forme nuove di sfruttamento del lavoratore.  
   In senso lato per privatizzazione si intende il passaggio dei 
  diritti di proprietà esercitati su di un’impresa dalle mani dello Stato alle 
  mani di privati che ne assumono la gestione. Si tratta, in genere, di particolari 
  attività proprie dello Stato di benessere (sanità, previdenza, scuola, etc.). 
  Ne deriva anche una privatizzazione del pubblico impiego che comporta che i 
  rapporti di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni passino dal diritto pubblico 
  al diritto civile. Nel caso dei servizi pubblici il termine ha acquistato una 
  particolare enfasi dal momento che essa si riferisce ad attività tradizionalmente 
  rientranti nei compiti dell’ente pubblico locale sulla base di una consolidata 
  tradizione anche politica. La legge n° 142/90 introdusse importanti novità legislative 
  tra le quali quelle relative alla gestione dei servizi pubblici locali. Tale 
  legge infatti delineò, anche se non in maniera completa, un sistema di gestione 
  dei servizi pubblici che, accanto alle tradizionali forme della gestione diretta 
  e di quella in concessione a terzi, prevedeva la possibilità di affidamento 
  anche a società miste pubblico - privato. Successivi interventi legislativi hanno stabilito la possibilità 
  che le società miste potessero essere anche a maggioranza privata fino a prevedere 
  la trasformazione delle aziende municipalizzate in aziende speciali e poi in 
  vere e proprie società di capitali. Il recente disegno di legge sulla riforma dei servizi pubblici 
  locali sembra volersi dare alcuni obiettivi dichiarati: l) il miglioramento dell’offerta di servizi pubblici locali 
  e la precostituzione delle condizioni che assicurino servizi efficienti, una 
  quantità e una qualità adeguate alla domanda, a costi il più possibile contenuti, 
  garantendo l’universalità e la continuità della prestazione; servizi 
  insomma che meglio assolvano la funzione sociale e di supporto 
  allo sviluppo che deve essere loro propria; 2) la creazione di un mercato concorrenziale 
  fra gli operatori dei servizi pubblici locali; 3) il rafforzamento strutturale del sistema dei servizi pubblici 
  locali attraverso il raggiungimento di dimensioni ottimali di impresa e il coinvolgimento 
  di capitali privati per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali 
  di cui il settore ha necessità. Sembra difficile, però, poter conciliare i fattori ora sottolineati: 
  l’universalità e la continuità della prestazione, e la conseguente funzione 
  sociale della prestazione, male si accorda con una visione concorrenziale del 
  mercato. I principi fissati nel provvedimento sono infatti: - l’affidamento del servizio esclusivamente in base a gara 
  pubblica cui possono partecipare solo società di capitali, senza 
  vincoli territoriali, con limiti predefiniti di durata degli affidamenti stabiliti 
  in modo da risultare non inferiori al periodo necessario alla realizzazione 
  di un coerente piano di investimento e non superiore al periodo di completamento 
  dell’ammortamento; - la separazione contabile interna alle società in caso di 
  più servizi gestiti nello stesso territorio; - la trasformazione in società di capitale delle 
  aziende pubbliche. In realtà l’aumento di efficienza e produttività è solo illusorio, 
  in quanto risulta molto difficile stabilire un nesso tra proprietà dell’azienda 
  e sua efficienza: gli indicatori tipici dell’efficienza e della produttività 
  aziendale non sono mai trasportabili dal privato al pubblico e viceversa sulla 
  base di semplici criteri quantitativi [4]. In particolare le trasformazioni investono gli enti locali 
  puntando ad un nuovo modello di Stato che comporta necessariamente lo smantellamento 
  dello Stato sociale: tale processo si fonda essenzialmente sulle privatizzazioni 
  ed è fortemente collegato a quel processo di decentramento che va sotto il nome 
  di "Federalismo". Il processo vede la redistribuzione dei poteri istituzionali 
  con l’individuazione di regioni e Comuni quali soggetti di riferimento (con 
  importanti qualificazioni delle Province per funzioni di programmazione in alcuni 
  settori specifici). Quali sono in Italia i servizi pubblici locali? Ci si può riferire 
  ai soli servizi per i quali esiste per legge un diritto di gestione esclusiva 
  da parte degli Enti locali (ad esempio la gestione dei rifiuti e dei servizi 
  cimiteriali) oppure si possono considerare i casi di intervento degli Enti locali 
  nella produzione di servizi. Qui il campo si allarga molto comprendendo servizi 
  a rete, socio-assistenziali, educativi, culturali, farmaceutici e via dicendo. Le competenze di regioni, provincie e comuni possono essere 
  riassunte nella seguente tabella: Gli obiettivi dello Stato nel settore dei pubblici servizi, 
  che sono servizi di pubblica utilità, resi alla collettività spesso in regime 
  di monopolio, sono: - la tutela degli interessi collettivi, intesi come qualità 
  e continuità dei servizi, libertà di accesso e parità di trattamento per gli 
  utilizzatori, diffusione del servizio sull’intero territorio nazionale; - il perseguimento di "obiettivi nazionali di politica 
  economica e industriale" ai sensi della legge 474 del 1994 [5]. Sempre secondo la legge 474 i settori portatori di questi interessi 
  collettivi e nazionali sono quelli della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, 
  delle fonti di energia e degli altri pubblici servizi. Il recente Testo Unico degli Enti locali [6] stabilisce che gli enti locali, 
  ossia "i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, 
  le comunità isolane e le unioni di comuni", provvedono alla gestione dei 
  servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte 
  a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle 
  comunità locali. Questi servizi, definiti appunto "servizi pubblici locali" 
  possono essere gestiti: - in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche 
  del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o un’azienda; - in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, 
  economiche e di opportunità sociale; - a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più 
  servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; - a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali 
  senza rilevanza imprenditoriale; - a mezzo di s.p.a. o s.r.l. a prevalente capitale pubblico 
  locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora 
  sia opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio 
  la partecipazione di più soggetti pubblici o privati; - a mezzo di s.p.a. senza il vincolo della proprietà pubblica 
  maggioritaria. ----- Con il nuovo "Ordinamento federale" la Repubblica 
  è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni 
  (che sono enti autonomi con propri statuti) e dallo Stato. L’art. 119 della 
  Costituzione viene così riscritto: "i Comuni, le Province, le Città metropolitane 
  e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate 
  propri". Gli enti locali sono anche chiamati a compartecipare "al 
  gettito di tributi erariali" riferibili al loro territorio. Lo Stato "istituisce 
  un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore 
  capacità fiscale per abitante". In più, sempre secondo la recente riforma 
  federalista, lo Stato dovrà provvedere a rimuovere gli squilibri economici e 
  sociali attraverso risorse aggiuntive che verranno destinate a favore di determinati 
  enti locali. Due sono gli inconvenienti possibili, secondo il Bonelli, che 
  scaturiscono da una privatizzazione dei servizi di pubblica utilità: 1) che il monopolio pubblico si trasformi in monopolio privato, 
  con possibili sovrapprofitti monopolistici e senza stimoli competitivi al miglioramento 
  dell’efficienza della qualità dei servizi; 2) che i servizi pubblici, gestiti in un’ottica esclusivamente 
  privatistica, non considerino gli interessi collettivi e non assicurino la continuità 
  e qualità dei servizi, la loro diffusione sull’intero territorio nazionale, 
  la libertà di accesso e la parità di condizioni per gli utilizzatori. "Il fenomeno più evidente che in passato ha fortemente 
  caratterizzato il dibattito sui servizi pubblici locali è rappresentato dalle 
  dimensioni e dalla dinamica dei disavanzi prodotti dalle aziende municipalizzate. 
  Spesso si tende a comparare costi e risultati economici conseguiti da imprese 
  pubbliche e private per concludere, nella maggioranza dei casi, che queste ultime 
  garantiscano esiti migliori. Da ciò non di rado discende una propensione ad 
  una estesa privatizzazione. Un tale approccio non tiene conto del fatto che 
  i risultati economici delle aziende pubbliche locali non sono che l’effetto 
  finale di un intreccio di problemi i quali a loro volta sono venuti sedimentandosi 
  nel tempo e traggono origine dalla natura stesse di tali aziende" [7]. Il processo di privatizzazione nel settore dei servizi pubblici 
  locali non avviene poi in maniera indiscriminata e non interessa ogni area e 
  ogni servizio. L’attività dei privati si concentra in realtà esclusivamente 
  sui segmenti di mercato che offrono maggiori margini di convenienza e remunerabilità. 
  La motivazione di fondo che ha condotto alla municipalizzazione "non ha 
  fatto riferimento alle proprietà naturali dei e dei servizi (proprietà che sono 
  alla base della definizione neoclassica di monopolio naturale) bensì ad un altro 
  aspetto, storicamente decisivo: la necessità cioè di assicurare la più estesa 
  fruizione di quei beni e servizi che, nelle condizioni storiche date, sono giudicati 
  essenziali a garantire uno standard minimo delle condizioni di vita dei cittadini" [8].  
   A partire dal secondo dopoguerra, la composizione dei servizi 
  pubblici si è andata articolando in: • servizi strategici (elettricità, telefonia, comunicazioni, 
  ecc.), soprattutto tramite il meccanismo delle aziende a partecipazione statale 
  (IRI, ENI, ENEL, EFIM, ecc.), che oggi vanno assumendo la forma di Public Utilities 
  Company; • servizi decentrati al livello comunale (trasporti, nettezza 
  urbana, ecc.), oggi gestiti direttamente o dati in appalto ad aziende private 
  o municipalizzate; • servizi forniti direttamente dalle pubbliche amministrazioni 
  (servizio postale, previdenza sociale, pubblica istruzione, servizio sanitario 
  nazionale, ecc.). In questo tipo di attività l’equilibrio tra i costi sostenuti 
  e i prezzi attribuiti è difficilmente riconducibile alle logiche di mercato, 
  perché diversi sono gli obiettivi che con questi servizi si intendono realizzare 
  e ciò dovrebbe valere anche nel caso di una riduzione della presenza dello Stato 
  e della P.A. nell’erogazione dei servizi. Ovviamente, più l’Ente erogatore è 
  vicino allo Stato, più forte è l’influenza della componente sociale. Il più 
  delle volte, il pagamento delle prestazioni pubbliche è assicurato in parte 
  dallo Stato ed in parte dall’utilizzatore, anche se la tendenza di questi ultimi 
  anni è quella di garantire il sostegno dello Stato esclusivamente agli aventi 
  diritto (i cittadini particolarmente svantaggiati), liberalizzando l’erogazione 
  dei servizi per tutti coloro i quali sono e saranno chiamati a pagare i servizi 
  stessi [9]. La prima tappa italiana del processo di privatizzazione può 
  essere fatta risalire al decreto legge n.333 del 1992 con il quale venne deciso 
  dal governo Amato la trasformazione degli enti pubblici economici ENEL, ENI, 
  IRI, INA in spa. Nel 1995 vendono messe a punto le carte dei servizi e varata 
  l’Autorità per l’energia elettrica e il gas a cui sono trasferite le competenze 
  in materia di prezzi [10]. La riforma dei servizi pubblici locali doveva essere il passaggio 
  immediatamente successivo alla legge sulle autonomie locali del 1990: questa 
  riforma era ed è destinata a mettere fine, in un modo o nell’altro, alla storia 
  delle aziende municipalizzate La storia della municipalizzazione dei servizi 
  pubblici locali percorre, in definitiva, tutto il Novecento. Può essere lunga l’elencazione degli aspetti di debolezza e 
  di contraddizione dei processi di trasformazione dell’amministrazione pubblica 
  che si vive nel presente periodo storico. Grandi processi di trasformazione 
  sono in corso, processi che sono ampiamente determinati dal consolidamento e 
  dall’estensione dell’ordinamento comunitario e del suo principio fondante della 
  concorrenza come elemento costitutivo del mercato unico europeo. Negli anni 
  Novanta l’espansione del principio al mondo delle pubbliche amministrazioni 
  e dei servizi pubblici è rilevante. Si pensi alla direttiva 92/50/CEE in materia 
  di appalti pubblici di servizi, che impone alle Pubbliche amministrazioni l’obbligatorietà 
  della gara per l’affidamento dei servizi di distribuzione del gas, di gestione 
  del ciclo dell’acqua e di quello dei rifiuti, nonché del trasporto locale. La 
  gara diventa, insomma, obbligatoria per tutti i servizi a rete con caratteristiche 
  produttive tipicamente industriali [11], perché considerata 
  quale volano della concorrenza e dell’iniziativa imprenditoriale, quanto più 
  il modello prescelto è fondato sulle offerte economicamente più convenienti 
  e non soltanto sui prezzi. È un notevole capovolgimento: presuppone amministrazioni agguerrite 
  che mettano bene a punto gli obiettivi da raggiungere e ben preparino quindi 
  l’arena competitiva. Ciò significa avere una cultura delle gare e della competizione 
  che non è facile ad acquisire [12]. La riforma degli enti locali 
  prevede che la gara sia aggiudicata sulla base delle migliori condizioni economiche 
  e di prestazione del servizio, del livello di qualità e di sicurezza, dei piani 
  di investimento per lo sviluppo delle reti e dei progetti di innovazione tecnologica 
  e gestionale: tutte queste variabili sono, come è stato giustamente notato [13] né facilmente quantificabili 
  e di complessa e problematica ponderazione. Per altri tipi di servizi diversi da quelli su elencati si 
  ha la possibilità di scelta tra: Possiamo così elencare i servizi pubblici locali: - Sanità - Previdenza - Trasporti delle persone e delle merci - Energia elettrica, gas - Risorse idriche - Rifiuti solidi e urbani - Sistema finanziario - Ricerca e cultura 
 a) Previdenza e sanità  
 In questo settore possiamo brevemente accennare ai casi degli 
  asili nido comunali (gestiti dal Ministero della Sanità) e alle farmacie comunali.  Asili nido. Nascono come luogo di custodia per 
  i bambini delle lavoratrici e negli anni ’30 cominciano a sorgere i primi asili 
  ad opera dell’OMNI (Opera Maternità e Infanzia). L’art. 11 del Regolamento dei 
  Nidi OMNI recita: "L’asilo nido è un servizio della comunità per i figli 
  dei lavoratori o per bambini di famiglie gravemente impedite di attendere alla 
  loro cura". Nel 1960 l’UDI (Unione Donne Italiane) presentò una proposta 
  di legge per il passaggio delle competenze dall’OMNI alle amministrazioni locali; 
  nel 1965 vi fu una proposta di legge di iniziativa popolare per un servizio 
  nazionale di asili nido. Nel 1971 fu approvata la legge 1044 che istituiva gli 
  asili-nido comunali con il concorso dello Stato, approvazione resa possibile 
  anche grazie alle lotte di quegli anni e alle profonde trasformazioni economiche, 
  sociali e urbanistiche che avevano visto una forte immigrazione, il sorgere 
  dei quartieri dormitori, la scomparsa del verde e la trasformazione della famiglia 
  allargata in famiglia nucleare. Successivamente il servizio subì una positiva 
  evoluzione, una lenta ma progressiva espansione ed una connotazione educativa 
  oltre che assistenziale. Tuttavia i 3800 nidi che la legge 1044 prevedeva entro il 1975 
  non furono mai aperti; attualmente gli asili nido in Italia sono poco più di 
  2000 e coprono meno del 6% del numero dei bambini da zero a tre anni. Nel novembre 1998 il governo organizzò a Firenze la prima Conferenza 
  Nazionale sull’Infanzia durante la quale il Ministro della Solidarietà Sociale 
  annunciò l’intenzione di cambiare la legge sugli asili nido perché "li 
  frequenta solo il 6% dei bambini, sono concentrati nel Centro Nord, hanno lunghe 
  liste d’attesa, tariffe troppo alte, orari insufficienti. Con la riforma gli 
  asili-nido passeranno dal Ministero della Sanità a quello dell’Istruzione trasformandosi 
  da un servizio su domanda a sistema educativo per tutti". Tutto ciò sembra 
  essere stato contraddetto dagli stessi progetti di legge successivamente presentati 
  che affidano la gestione dei nidi ai privati (finanziati con denaro pubblico), 
  non fanno stime della domanda, non programmano obiettivi di espansione, non 
  prevedono il passaggio dal Ministero della Sanità a quello dell’Istruzione. 
  È sbagliato pensare di espandere il Nido tramite il privato che in questi anni 
  ha investito pochissimo nella gestione degli asili nido, nonostante la gran 
  richiesta, perché per trarne profitto occorre far pagare rette molto alte che 
  la maggior parte dei genitori non possono sostenere [14]. 
 Il servizio farmaceutico comunale  
 Le farmacie pubbliche, dette generalmente farmacie comunali, 
  sorsero agli inizi del secolo scorso per aiutare i poveri del Comune quando 
  i costi dei medicinali erano per loro insopportabili. La loro nascita fu quindi 
  motivata da un unico scopo: migliorare la qualità della vita a quei cittadini 
  che alla miseria assommavano anche la malattia. Successivamente le farmacie 
  comunali si assunsero anche il compito di una distribuzione capillare del servizio 
  nel territorio portando le farmacie nelle frazioni, dato che i privati preferivano, 
  per motivi di ordine economico, aprirle nelle sole vie centrali e commerciali 
  delle città. Negli anni recenti però si è assistito alla rincorsa dei Comuni 
  a trovare risorse finanziarie per rimpinguare le disastrate casse comunali e 
  in questa logica si è pensato di vendere le farmacie comunali. Ciò è senza dubbio 
  un grosso errore economico, in quanto oggi una farmacia comunale riesce a dare 
  un coefficiente di redditività superiore al 5% ed inoltre essendo una struttura 
  imprenditoriale da sempre abituata al regime della concorrenza, in alcuni comuni 
  rappresenta l’unica esperienza di gestione aziendale. Ci sono poi ovviamente motivi di ordine sociale che spingono 
  per evitare la vendita di questo prezioso servizio pubblico. Le farmacie comunali sono infatti un orecchio privilegiato 
  sui bisogni della cittadinanza in campo sanitario e si differenziano da quelle 
  private per le molteplici attività svolte in campo sociale, tra cui:  campagne d’informazione condotte da farmacisti (ad esempio su AIDS, fumo, 
  educazione sessuale, etc.); - distribuzione, in alcuni comuni, di siringhe e/o profilattici, 
  attraverso distributori automatici; - misurazione gratuita della pressione arteriosa ai pensionati; - distribuzione gratuita di opuscoli sanitari su vari argomenti; - raccolta di farmaci scaduti.   
 b) Trasporto pubblico:  
 Il D. LEG. 422/97 intitolato “Conferimento alle Regioni ed 
  agli Enti Locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale 
  a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n° 59” disciplina: • trasferimento di compiti e funzioni per tutti i trasporti 
  pubblici operanti a livello regionale o infraregionale (art. 4); • definizione dei trasporti pubblici di interesse nazionale 
  esclusi dal conferimento (art. 3) e riserva di competenza statale su trasporti 
  locali (servizi transfrontalieri, sicurezza, ambiente); • delega a regioni delle funzioni programmatorie e trasferimento 
  a enti locali da parte delle regioni con legge entro sei mesi sulla base dei 
  principi e dei criteri stabiliti dalla 59/97 (artt. 7-13); • programmazione regionale coordinata in sede di conferenza 
  stato-regioni; accordi di programma regione-ministero per investimenti.----- Fino al 1995 i trasporti pubblici locali erano disciplinati 
  dalla legge 151 del 1981. Con la legge 549 del 1995 sulle "misure di razionalizzazione 
  della finanza pubblica" la prospettiva cambiò radicalmente in quanto: - vengono trasferite le competenze alle regioni; - vengono forniti alle regioni stesse gli strumenti finanziari 
  per assolvere tali funzioni. In termini di gestione si trasferiscono alle amministrazioni 
  regionali e locali il personale, i beni strumentali e le risorse necessarie 
  all’esercizio dei servizi di trasporto pubblico locale [15]. 
 c) Settore idrico  
 Anche in questo settore è prevalsa la logica neoliberista che 
  vede nella gestione privata la cura migliore per sanare le inefficienze del 
  sistema. La "legge Galli" si propose infatti di dare 
  a tutta la materia un nuovo assetto in grado di assicurare da un lato il servizio 
  idrico integrato secondo dimensioni ottimali e dall’altro di consentire l’afflusso 
  di capitali privati soprattutto in fatto di gestione più che di nuove realizzazioni. Diversi punti meritano la nostra attenzione: • Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte 
  dal sottosuolo, sono pubbliche; • L’uso dell’acqua per il consumo umano è prioritario rispetto 
  agli altri usi del medesimo corpo idrico; • Le direttive generali sono di competenza dello Stato (programmazione 
  della razionale utilizzazione delle risorse, criteri per la gestione del servizio 
  idrico integrato, misure per il risparmio idrico, modalità per il riutilizzo 
  delle acque reflue, criteri in materia di trattamento delle acque reflue, ecc.); • La competenza delle Regioni riguarda la delimitazione degli 
  ambiti territoriali ottimali, il superamento della frammentazione delle gestioni 
  e il controllo degli scarichi inquinanti; • La tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico, 
  determinata tenendo conto, fra l’altro, della qualità della risorsa e del servizio 
  fornito; Nella sostanza questa legge mirava a risolvere tre punti fondamentali 
  della crisi dell’attuale sistema idrico:  1. La frammentazione delle gestioni: non sempre i piccoli 
  enti possono garantire una corretta gestione del servizio, per cui occorre passare 
  a dimensioni più ampie delle attuali.  2. La frammentazione del ciclo: il trattamento, la 
  distribuzione e la depurazione dovranno essere controllati da una unica struttura 
  che si occuperà della gestione del ciclo integrale.  3. Lo scompenso tra le tariffe ed il costo del servizio: 
  il bilancio dovrà essere chiuso in pareggio. Questa legge tuttavia non è sufficiente da sola per avere un 
  valido servizio nel settore; non dimentichiamo che la corretta attuazione della 
  183 sulla difesa del suolo, che la legge Galli richiama e ingloba, prevede che 
  le autorità di bacino definiscano e aggiornino periodicamente il bilancio idrico 
  diretto ad assicurare l’equilibrio fra le disponibilità di risorse reperibili 
  o attivabili nell’area di riferimento e i fabbisogni per i diversi usi. L’abolizione dell’attuale frammentazione del servizio però 
  non significa necessariamente passare ad una gestione imprenditoriale del "servizio 
  idrico integrato", come invece vorrebbe la legge [16].   
 d) Rifiuti solidi e urbani  
 Nel 1999 Legambiente e FISE Assoambiente hanno realizzato una 
  ricerca [17], 
  la prima del genere nel nostro Paese, con l’obiettivo di fornire un’immagine 
  attendibile sulla gestione dei rifiuti industriali in Italia. L’indagine ha 
  analizzato le dichiarazioni registrate con il MUD (Modello Unico di Dichiarazione) 
  nel 1997 (dati relativi al 1996) e le dichiarazioni fornite direttamente dalle 
  regioni e dalle province. Sono queste infatti i soggetti preposti al rilascio 
  delle autorizzazioni all’esercizio degli impianti di smaltimento e trattamento 
  dei rifiuti. Cosa è emerso in sintesi da questa ricerca? La produzione di rifiuti registrata con il MUD nel 1996 è stata 
  di circa 22,5 milioni di tonnellate; le regioni maggiormente produttrici di 
  rifiuti sono risultate Lombardia, Veneto e Piemonte; il divario tra Nord e Centro-Sud 
  è sottolineato poi dal confronto con il PIL (a prezzi di mercato 1995), come 
  può essere facilmente dedotto dalle tabelle riportate. ----- I rapporti prodotti dalla Commissione Bicamerale di inchiesta 
  sui traffici illeciti di rifiuti, così come il lavoro svolto dall’Osservatorio 
  ambiente e legalità in collaborazione con le forze dell’ordine riportano una 
  tendenza a far viaggiare i rifiuti dal Nord verso Sud e questo è un punto di 
  riflessione sulla gestione dei rifiuti nel nostro paese. Sempre a questo proposito 
  va poi sottolineato che le autorizzazioni per il conferimento in discarica o 
  in inceneritore vengono rilasciate alle imprese dalle regioni o dalle province 
  sulla base di una richiesta riferita a quantitativi e tipologie di rifiuto da 
  trattare e non in base ad una adeguata valutazione dell’effettivo fabbisogno 
  del bacino. La ricerca di Legambiente, inoltre, fa rilevare che dal confronto 
  dei dati relativi alle comunicazioni dell’effettiva produzione e dell’effettivo 
  smaltimento rilevate tramite i MUD in ogni regione con le autorizzazioni rilasciate 
  si conferma il dato già segnalato della non rispondenza fra il fabbisogno di 
  smaltimento, la capacità autorizzata e la disponibilità impiantistica. Risultano 
  infatti regioni quali la Lombardia, il Piemonte, la Toscana, la Puglia e la 
  Sicilia che a fronte di una capacità autorizzata allo smaltimento esportano 
  i rifiuti prodotti verso altre regioni. Ci sembra importante fermarsi a riflettere 
  sui risultati ottenuti da Legambiente perché forse più degli altri settori, 
  quello dei rifiuti è facilmente preda di speculazioni: l’illusione che una gestione 
  privatizzata del settore possa sanare le lacune fa presagire il pericolo che 
  la logica del profitto prevalga sugli aspetti socio-sanitari che invece devono 
  essere prevalenti nella gestione di tale settore. Va da sé che tali ultime considerazioni vanno fatte anche nel 
  caso degli altri servizi pubblici.   
 e) Settore energetico (elettricità e gas)  
 Una caratteristica peculiare della distribuzione del gas è 
  la presenza tra i gestori di molti imprenditori privati accanto alle aziende 
  pubbliche. Il Governo ha avviato la liberalizzazione del gas con la separazione 
  societaria tra trasporto e distribuzione, e la possibilità di ingresso per distributori 
  e clienti di piccole dimensioni (entro i 200 mila metri cubi annui). Vale la pena citare alcuni dati che chiariscono la struttura 
  del settore. In quasi quattromila Comuni, pari a circa il 60% delle utenze, 
  il servizio è fornito da operatori privati di cui solo 6 di grandi dimensioni 
  tra cui Italgas che rappresenta circa il 30% del mercato. La forte presenza 
  di operatori privati nel settore gas richiederebbe la necessità di norme che 
  tengano conto delle particolari condizioni che verrebbero a crearsi nei casi 
  di interruzione delle concessioni in essere considerato che queste superano 
  di gran lunga l’eventuale periodo di proroga di cinque anni. Un altro aspetto critico è rappresentato dal passaggio dal 
  vecchio gestore privato proprietario delle reti al nuovo a seguito di affidamento 
  del servizio mediante gara pubblica. In tal caso si reputerebbe opportuno introdurre un sistema 
  che garantisca l’indennizzo al gestore uscente degli impianti. Il riferimento al valore contabile degli impianti contenuto 
  nel testo in discussione è inadeguato in quanto corrisponde in genere ad una 
  sottostima del valore economico del bene. Preferibile appare il principio della valutazione a valore 
  industriale degli impianti. La realtà delle aziende pubbliche e dei servizi pubblici locali 
  (acqua, gas, rifiuti, elettricità, trasporti) si presenta ricca ed articolata 
  ed infatti le aziende pubbliche locali si distinguono tra loro per numerosi 
  aspetti. Ci sono i monopoli tecnici, come nel caso dei servizi a rete (gas, 
  elettricità); esistono servizi (come i trasporti) caratterizzati da un elevato 
  livello di concorrenzialità da parte di servizi succedanei (le auto private 
  individuali); servizi che operano sostanzialmente in condizioni di mercato (come 
  le farmacie comunali) e servizi in cui è evidente la presenza di esternalità 
  (igiene ambientale) [18]. In tutti i casi, comunque, si sente una grande esigenza 
  di controllo del territorio, di interventi qualificati, di estensione di servizi 
  fondamentali, in altre parole di una grande capacità di programmazione. Paradossalmente, invece, si assiste ad una vera e propria "svendita" 
  del patrimonio professionale e gestionale costruito dal pubblico in questi anni. Occorre invece rilanciare la necessità un ruolo d’intervento 
  al "pubblico" in questi settori importanti e delicati, di puntare 
  al governo del territorio coinvolgendo lavoratori ed utenti, rilanciando l’occupazione 
  su questo terreno "di qualità". Bisogna difendere il lavoro, garantire 
  l’occupazione; definire seri piani industriali per le aziende del settore; mantenere 
  il controllo pubblico delle aziende del settore [19]. Nel caso della privatizzazione dei servizi pubblici locali 
  il monopolio passerebbe dal pubblico al privato in quanto l’affidamento del 
  servizio tramite gara, assegna al vincitore la gestione "monopolistica" 
  da un minimo di 9 anni (per i trasporti) ad un massimo di 20 anni (ciclo delle 
  acque). Inoltre le tariffe, saranno determinate dalle imprese gestori, 
  in relazione al rientro degli investimenti. Si innesca il meccanismo della competitività, 
  obbligando le imprese pubbliche a ridurre i costi di gestione, agendo sul costo 
  del lavoro, mettendo a rischio l’occupazione e i livelli salariali, nonché il 
  quadro di tutela dei diritti del secondo livello contrattuale. Sarebbe invece preferibile modificare il testo del d.d.l. 7042 
  reintroducendo l’autonomia di scelta da parte degli enti locali in relazione 
  alle forme di gestione, mantenendo in tal senso il testo originario dell’art. 
  22 della legge 142/90; così come sarebbe auspicabile che tra le facoltà dell’ente 
  locale vi sia anche la procedura di affidamento diretto dei propri servizi a 
  propri enti strumentali o a società a prevalente capitale pubblico. I soggetti interessati alla riforma e cioè l’Anci (Associazione 
  Nazionale dei Comuni Italiani), l’Unione delle Provincie Italiane, l’Uncem (Unione 
  Nazionale delle Comunità Montane), la Cispel (Confederazione Italiana dei Servizi 
  Pubblici Locali), la Confindustria e l’Eni, tutti sia pur con diverse sfumature, 
  hanno condiviso la scelta legislativa di selezionare l’offerta di servizi pubblici 
  locali a rilevanza industriale (erogazione di energia non elettrica, erogazione 
  del gas, gestione del ciclo dell’acqua, gestione dei rifiuti solidi urbani e 
  servizi di trasporto collettivo) attraverso lo svolgimento di gare pubbliche. Soltanto Anci e Cispel in merito alla modalità di affidamento 
  del servizio hanno difeso, in nome della discrezionalità amministrativa, il 
  principio della scelta fra affidamento diretto e gara.  
   Oltre che per l’ammontare e la tipologia delle prestazioni 
  la Pubblica Amministrazione presenta un notevole interesse economico anche per 
  il volume di occupazione assorbito e, quindi, per l’influenza che esercita nel 
  mercato del lavoro. Le politiche di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi 
  della Pubblica Amministrazione, attuate nel corso degli anni 90, hanno profondamente 
  inciso anche e soprattutto sull’occupazione che si presenta oggi profondamente 
  modificata e deteriorata, con un tasso di disoccupazione ancora a due cifre 
  e tra i più alti in Europa; una crescita del lavoro nero e in generale del lavoro 
  povero, precario e privo di tutele; un tasso di occupazione della popolazione 
  in età lavorative tra le più basse tra tutti i paesi industrialmente avanzati, 
  che penalizza soprattutto le donne (il cui tasso di partecipazione al mercato 
  del lavoro in Italia supera di poco il 34%), i giovani e le popolazioni meridionali. Attualmente nell’area dell’OCSE i disoccupati raggiungono i 
  36 milioni di unità, pari all’8% delle forze di lavoro, e il fenomeno presenta 
  sicuramente un aspetto di persistenza. Va detto che, a partire dagli anni ottanta la forza contrattuale 
  dei sindacati e dei lavoratori è scemata. “All’eccesso del rapporto salario/produttività 
  rispetto a una norma di pieno impiego è seguita una redistribuzione del reddito 
  a favore del profitto” [20]. 
  E questo ha reso possibile il sopravvento dell’economia capitalista sull’economia 
  “sociale”: il mercato è stato così reinterpretato solo in termini di saggio 
  di profitto, il quale postula a sua volta efficienza nel processo produttivo 
  senza tener conto degli aspetti socio-redistributivi che invece sono determinanti 
  se si vuole tener conto anche dell’altro aspetto della medaglia, ovvero l’equità. Questo sopravvento del profitto sul salario, a tutto danno, 
  ovviamente, della classe lavoratrice e, ancor più, della classe dei disoccupati, 
  trova terreno fertile nella caduta di generosità dei sistemi di protezione sociale 
  (fenomeno oggi sempre più diffuso in tutte le aree geografiche). Inoltre “sebbene 
  il peso del terziario sia cresciuto ovunque, l’integrazione internazionale più 
  stretta, l’emergere di nuovi ruoli, le politiche antitrust e di deregolazione 
  hanno probabilmente intensificato la concorrenza nei mercati del prodotto” [21] e tale percezione si è estesa 
  ai rapporti di lavoro. “Alla cautela delle famiglie nella spesa per consumi 
  non sono estranei i timori di riduzione delle garanzie nel rapporto di lavoro 
  e nel sistema di protezione sociale; la flessibilità dell’occupazione accresce 
  a propria volta l’incertezza delle prospettive”.----- Spesso si attribuisce alla non-flessibilità la colpa di una 
  disoccupazione, proponendo come facili risoluzioni risposte quali la flessibilità, 
  e di conseguenza la privatizzazione e la liberalizzazione dei rapporti di lavoro, 
  o il riferimento ad assetti del mercato del lavoro (americano o inglese) considerati 
  ideali, da esportare innestandoli in ambienti economici, giuridici, culturali, 
  profondamente diversi senza pensare che le particolarità dei mercati del lavoro 
  andrebbero considerate come aspetti fondamentali di realtà economiche e sociali 
  ben specifiche. La privatizzazione dei servizi pubblici locali discende poi 
  da quel principio di federalismo e decentralismo che ha riflessi enormi anche 
  sulle relazioni industriali. Ed infatti l’affidamento alle Regioni della materia 
  di tutela e sicurezza del lavoro può aprire la strada anche ad un federalismo 
  contrattuale secondo cui ogni Regione potrebbe creare un proprio statuto dei 
  lavoratori. La contrattazione nazionale perderebbe così significato e forza 
  a tutto vantaggio di una contrattazione territoriale che potrebbe sfociare, 
  con il passare del tempo, in una contrattazione ad personam con la perdita totale 
  di qualsiasi tipo di garanzia per i lavoratori, soprattutto i più deboli: donne, 
  giovani, persone in cerca di prima occupazione. Per questo Anci e Cispel hanno richiesto che nei processi di 
  privatizzazione vengano previste opportune garanzie per il personale dipendente 
  delle aziende che dovranno lasciare gli affidamenti: la proposta è quella dell’applicazione 
  del disposto dell’articolo 2112 del Codice Civile il quale prevede la salvaguardia 
  del rapporto di lavoro in caso di trasferimento di azienda. Tra i diversi aspetti del processo di privatizzazione due sembrano 
  particolarmente importanti: 1) l’estensione al sistema pubblico dell’accordo sul costo 
  del lavoro del 23 luglio 1993 che ha posto il vincolo della moderazione salariale 
  ancorando gli incrementi retributivi nel corso dei rinnovi contrattuali al tetto 
  di inflazione programmata. La necessità del contenimento della spesa è stata 
  la causa principale delle critiche rivolte al decreto legislativo 29/1993 e 
  di riflesso ai CCNL circa la rigidità nell’utilizzo delle risorse anche nella 
  sede decentrata; 2) il tentativo di armonizzare le regole che disciplinano il 
  rapporto di lavoro pubblico a quelle del settore privato [22]. L’adattamento delle nostre economie alle continue evoluzioni 
  del mercato spinge sempre più verso forme più o meno estese di privatizzazione 
  che a loro volta danno impulso a nuove forme contrattuali: tra queste vanno 
  sottolineate le forme di contratti temporanei, uno degli aspetti senz’altro 
  più evidenti nel mercato del lavoro europeo degli anni novanta. Da più parti 
  viene esaltato il contributo dei contratti temporanei alla crescita dell’occupazione: 
  in realtà per analizzare in maniera esauriente tale contributo “occorre capire 
  in che misura la performance insoddisfacente della crescita dei posti di lavoro 
  coperti da contratti permanenti sia una conseguenza indiretta della crescita 
  dei contratti temporanei. In effetti, sembra che in alcuni paesi, tra cui Germania, 
  Francia e Italia, i contratti temporanei abbiano sostituito posti di lavoro 
  coperti da contratti permanenti. Sebbene questa sostituzione rappresenti un 
  modo per rendere il mercato del lavoro più flessibile, gli effetti di lungo 
  periodo di questo fenomeno possono essere molto negativi. Con il passare del 
  tempo infatti, un’eccessiva quota di posti di lavoro coperti da contratti temporanei 
  (soprattutto tra i giovani) riduce gli incentivi dei lavoratori ad apprendere 
  professionalità specifiche del posto di lavoro” [23]. I dati dell’Istat suggeriscono che l’occupazione temporanea 
  è un fenomeno molto più radicato al Sud dove rappresenta il 14% dell’occupazione 
  dipendente, rispetto al Nord e Centro, dove non supera il 9%. Sempre dai dati 
  dell’Istat risulta che nel 2000 oltre il 60% dei nuovi posti di lavoro creati 
  in Italia sono posti di lavoro a tempo determinato: ma quanti di questi contratti 
  a termine si trasformano successivamente in rapporti di lavoro stabili? Nel 
  Mezzogiorno per le persone il cui primo impiego è stato a tempo determinato 
  dopo 3 anni appena il 5% gode di un’occupazione permanente, contro il 22% nel 
  Centro e il 30% nel Nord. Gli esiti occupazionali a 5 anni di distanza dall’ingresso 
  sono ancora più differenziati: l’entrata nel mercato stabile coinvolge quasi 
  il 50% dei giovani occupati al Nord, il 37% al Centro e solo il 15% al Sud. La progressiva diffusione di queste forme lavorative (contratti 
  a tempo parziale e svariate tipologie contrattuali a tempo determinato) è avvenuta 
  ai danni dell’occupazione standard. Il “nuovo mercato del lavoro” si presenta 
  molto articolato, con forti processi di segmentazione e stratificazione sociale. 
  Alla tradizionale contrapposizione tra chi ha un lavoro e chi non ce l’ha si 
  sommano quelle tra chi ha un lavoro continuativo e chi no, tra chi ha un lavoro 
  tutelato e chi no [24]. ----- "In base alla riflessione marxiana gli unici tipi di società 
  che veramente non conoscono una distinzione fra privato e pubblico sono le società 
  semplici (cd. Primitive) e le società che Marx chiama "modo di produzione 
  asiatico. Tutti gli altri tipi di società conoscono, in qualche modo, una sfera 
  privata (del particolare) e una sfera pubblica) (...). Nella formazione sociale 
  capitalista, infine, la comunità (considerata da Marx essenzialmente come forma 
  di proprietà degli individui che lavorano in modo associato) viene radicalmente 
  distrutta, ed emerge l’anarchia del mercato, che conosce soltanto il singolo 
  borghese, il proprietario capitalista isolato, che produce ed agisce privatisticamente 
  dietro l’impulso del movente del profitto. Siamo qui all’atomizzazione della 
  società in attori puramente individuali, che agiscono secondo un calcolo esclusivamente 
  utilitaristico tendente alla massimizzazione del benessere privato" [25]. Il problema dei servizi pubblici è la proprietà pubblica delle 
  aziende che erogano il servizio ed il connesso diritto ad esercitare il servizio 
  in regime di monopolio. La soluzione proposta è quindi quella di privatizzare 
  le aziende pubbliche e introdurre la concorrenza, sicuri che in tal modo si 
  avranno servizi pubblici efficienti, ad un prezzo più basso, maggiormente aderenti 
  alle esigenze del "cittadi-no/cliente" e di alta qualità. Questa impostazione 
  produce comportamenti finalizzati a raggiungere livelli sempre maggiori di competizione, 
  individuando un sistema in cui il mercato sembra essere l’istituzione più aderente. Le ideologie di stampo neoliberista vedono nella natura decentralizzata 
  delle decisioni economiche di un settore privato e nell’ambiente competitivo 
  in cui vengono prese l’humus necessario per l’affermazione di una efficiente 
  allocazione delle risorse. Da questo punto di vista l’intervento statale può 
  essere giustificato solo da qualche forma di fallimento del mercato. 
  L’intervento del governo è richiesto quando i benefici del processo decisionale 
  collettivo pesano più della perdita del processo decisionale decentralizzato 
  individuale ed è spesso giustificato da: a) protezione dell’industria e di gruppi vulnerabili; b) mercato del credito sottosviluppato; c) esternalità positive legate all’educazione, alla salute, 
  alle infrastrutture; d) ruolo redistributivo del settore pubblico [26]. La logica dell’intervento statale deve avere radici nell’assunto 
  che in alcune aree il mercato funzioni poco o male, o che la società si proponga 
  altri obiettivi oltre l’efficienza economica, come per esempio la distribuzione 
  della ricchezza. Tra le cause possibili di fallimento del mercato c’è quella 
  dell’esistenza di beni pubblici [27]. Possiamo quindi stabilire 
  tre requisiti necessari ai fini di in un intervento statale nell’economia: 1. La maggior parte dei mercati non sono pienamente concorrenziali, 
  per cui non si raggiunge un risultato efficiente; 2. L’efficienza che è la principale caratteristica dei mercati 
  concorrenziali, è solo una delle componenti del benessere sociale; 3. Il funzionamento del mercato può essere considerato non 
  auspicabile poiché ricompensa un tipo di comportamento ritenuto socialmente 
  indesiderabile. Il mercato favorisce la competitività e l’etica della sopravvivenza 
  del più forte a spese dell’iniziativa cooperativa e dei valori competitivi. Quindi la partecipazione dello Stato alla riallocazione delle 
  risorse è giustificabile perché in alcune situazioni (quella dei beni e servizi 
  pubblici è da sottolineare) sono necessarie contemporaneamente: - Equità, in quanto viene incoraggiata una distribuzione più 
  equa di beni e servizi tra i membri della società; - Efficienza, poiché si promuove l’efficienza in situazioni 
  di fallimento del mercato. Il prodotto tipico dell’amministrazione pubblica cioè quei 
  beni e servizi che hanno effetti su tutta la collettività è formato da beni 
  pubblici; rendere disponibili tali beni è uno dei principali scopi dell’intervento 
  pubblico e, nello specifico, dell’identificazione di meccanismi atti ad ottimizzare 
  le scelte collettive [28]. "Creare le condizioni per una concorrenza efficace non 
  è compito facile e la privatizzazione e la deregulation indiscriminate rappresentano 
  scorciatoie tutt’altro che raccomandabili. È possibile allargare gli spazi per 
  l’operare di imprese private, ma anche nulla garantisce che il mercato lasciato 
  a se stesso dia luogo a soluzioni economicamente ed allocativamente efficienti 
  per gran parte dei servizi pubblici" [29]. "In tutti i paesi del capitalismo occidentale contemporaneo 
  abbiamo di fronte non semplicemente una maggior complessità sociale ma anche 
  novità radicali come ad esempio processi di privatizzazione per quanto riguarda 
  i consumi di cittadinanza. Sinteticamente matura con grande accelerazione nella 
  condizione del lavoro e nella condizione sociale una nuova "questione sociale" 
  in tutti i paesi dell’occidente capitalistico e la necessità di una nuova politica 
  sociale che vada al di là dell’antica dicotomia Stato/Mercato: politica che 
  assuma come fondamento il diritto all’inserimento, come obiettivo permanente 
  l’integrazione, come dimensione la persona e la territorialità, come cultura 
  un’idea di cittadinanza non puramente lavoristica, come modalità l’economia 
  sociale e cooperativa, come perno il ruolo del pubblico come stratega, come 
  consumo il passaggio dai consumi privati di massa ai consumi sociali, ai cosiddetti 
  beni relazionali" [30]. "Secondo un documento del FMI", ci fa notare il Giannone, 
  "il perseguimento di una politica dell’equità favorisce direttamente o 
  indirettamente lo sviluppo economico. Ed infatti una maggior spesa per la salute 
  o per l’istruzione più che con la concessione di sussidi o l’applicazione di 
  imposte progressive, rafforza nel lungo andare lo sviluppo economico che a sua 
  volta contribuisce ad alleviare la povertà. Infine, non vi è dubbio che interventi 
  governativi intesi a diminuire la diseguaglianza della distribuzione dei redditi 
  rafforzano la coesione sociale e diminuiscono i rischi di conflitti sociali. 
  È anche vero però che questa politica ha bisogno di un largo sostegno, senza 
  escludere, inoltre, che alcuni interventi governativi come, ad esempio, la privatizzazione, 
  accrescano nel breve termine la disoccupazione o peggiorino la distribuzione 
  delle risorse" [31]. Quando si punta il dito contro i processi di privatizzazione 
  non si vuole certo negare la validità di alcune affermazioni, come ad esempio 
  quella che vuole il trend di cambiamento dei prossimi anni centrarsi sullo sviluppo 
  anche della qualità delle infrastrutture, sviluppo che costituisce senz’altro 
  un elemento chiave per la sopravvivenza del sistema economico [32]. 
  Così come è vero che l’inefficienza delle infrastrutture causata da mancato 
  sviluppo e da inadeguata manutenzione costituisce un grave deficit per un Paese 
  e riflette anche una scarsità di investimenti di capitale, di solito in prevalenza 
  pubblico; la Pubblica Amministrazione chiamata istituzionalmente ad assicurare 
  servizi per lo sviluppo della società ha un peso fondamentale nella determinazione 
  dei costi di transazione, intesi questi ultimi come costi del processo di negoziazione 
  per procurarsi le risorse (umane, finanziarie, tecnologiche, temporali e spaziali) 
  ritenute indispensabili per realizzare gli obiettivi scelti [33]. Viene però spontaneo chiedersi 
  se la qualità e l’efficienza passino solo e necessariamente attraverso un approccio 
  "privato" delle gestioni o se, invece, accanto ad esse non debba considerarsi 
  appunto un terzo fattore: quella politica dell’equità a cui accennava Giannone. 
  Una lettura del DPEF 2000-2004 non fa poi altro che aumentare i dubbi e le riflessioni 
  quando afferma che "il Governo ipotizza che una parte significativa dei 
  nuovi investimenti in infrastrutture di interesse pubblico nel 2002, 2003 e 
  2004 possa essere finanziata direttamente da capitale privato" e continua 
  "migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi è possibile liberalizzando 
  e privatizzando i mercati nei settori aereo, marittimo, ferroviario e autostradali". 
  Questa tendenza a livello centrale non fa altro che propagarsi alle strutture 
  decentrate di gestione locale che abbagliate dall’ottica di una concorrenza 
  che tutto può e tutto rimedia, perde di vista quell’elemento fondamentale dell’equità, 
  a danno di un welfare che dovrebbe realizzare un reale sistema di protezione 
  sociale che si fa carico dei vari disagi sociali, anche e soprattutto a partire 
  dai servizi basilari della collettività. Vero è che la concorrenza è un processo 
  di "distruzione creativa" caratterizzato dal ruolo di nuovi imprenditori 
  e nuovi imprese, ma tale attività innovativa si associa a costi crescenti degli 
  investimenti in ricerca e sviluppo e ad un’elevata rischiosità dei progetti, 
  portando al predominio delle imprese più grandi e all’innalzamento di barriere 
  all’entrata [34]. 
  Una politica per l’efficienza dei servizi pubblici non è poi senza costi: l’efficienza 
  allocativa infatti richiede infatti una struttura tariffaria uniforme e non 
  rispettosa dei costi marginali effettivi. Eventuali fini redistributivi andrebbero 
  in tal caso perseguiti con altre forme intervento che aumenterebbero i costi 
  totali [35]. Per questo si può affermare che i processi di privatizzazione 
  hanno costituito lo strumento più efficace di distruzione dei servizi sociali 
  e ciò è avvenuto purtroppo anche con il consenso di gran parte dell’opinione 
  pubblica che, bollando come incapaci, parassiti e nulla facenti i lavoratori 
  ha accolto con favore la concessione al privato della gestione diretta dei servizi 
  pubblici. -----  1. AA.VV., "Un supporto decisionale per le aziende 
  del trasporto pubblico locale", Quaderni ISRIL, 1/1996.  2. AA.VV., "La riforma della P.A.: un percorso 
  accidentato, ricco di prospettive ma avaro di risultati", Quaderni ISRIL, 
  2-3/1998.  3. Agostini Luigi, "Welfare locale - Assessorato 
  sociale - Sindacato", Impresa Sociale, 46/1999.  4. Alvaro Giuseppe, Contabilità nazionale e statistica economica, Cacucci 
  editore, 1999.  5. “Appunti sulla liberalizzazione del mercato elettrico”, 
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  finanziamento dei servizi pubblici in disavanzo", Firenze, Cispel, 1986.  7. Banca d’Italia, Relazione Annuale, 1999  8. Billia Gianni, "Un sistema lento condiziona 
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  di legge di iniziativa popolare "L’asilo nido: un diritto delle bambine 
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  per il Controllo dei Sistemi Idrici), "Disposizioni in materia di risorse 
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  Mulino, 2000.  25. Istat, La rilevazione rapida dei bilanci comunali 
  - Anno 1999 - Note rapide (20 aprile 2001)  26. Istat, Statistiche ambientali, 2000  27. Labarile Giuseppe, "Un occhio al mercato e 
  uno alla riforma", Guida agli Enti Locali, n. 44, 2000.  28. Legambiente/FISE-Assoambiente, "Indagine sulla 
  produzione e lo smaltimento dei rifiuti industriali", marzo 1999, in: http://www.e-gazette.it/  29. Luci ed ombre dei contratti temporanei, in http://www.frdg.org  30. Morcaldo G., La finanza pubblica in Italia, Il 
  Mulino, 1993  31. "Privatizzazioni e relazioni industriali", in: 
  http://www.geocities.com/Athens/2753/materiali/privrelind.htm.  32. Proteo, diversi numeri, articoli su P.A., privatizzazioni 
  e federalismo di R. Martufi, A. Salerni, L. Vasapollo.  33. Ristuccia Sergio, “La trasformazione dei servizi 
  pubblici locali”, in: www.servizilocali.com/it.  34. Stokey Edith, Zeckhauser Richard, “Introduzione 
  all’analisi delle decisioni pubbliche”, FORMEZ, 1988.  35. Testo Unico sugli Enti Locali, Decreto Legislativo 
  n. 267/2000.2. Enti locali e privatizzazioni 


3. I servizi privatizzati 
 
 






4. Riflessi sul mondo del lavoro
5. Conclusioni
Bibliografia
[1] Giuseppe Alvaro, Contabilità nazionale e statistica economica, Cacucci editore, 1999.
[2] "Privatizzazioni e relazioni industriali", in: http://www.geocities.com/Athens/2753/materiali/privrelind.htm.
Si vedano, anche per il seguito di questo lavoro, vari numeri di PROTEO con gli articoli sulla P.A., privatizzazioni e federalismo, in particolare di R. Martufi, A. Salerni e L. Vasapollo.
[3] Mauro Fotia, “Profit State e crisi delle democrazie contemporanee”, Quaderni Cestes n. 4.
[4] Mauro Fotia, “Profit State e crisi... op. cit.
[5] Franco Bonelli, "La privatizzazione delle imprese pubbliche", Giuffrè editore, 1996.
[6] “Testo unico sugli enti locali”, Decreto legislativo n.267/2000.
[7] Antonio Di Majo (a cura), "Le politiche di privatizzazione in Italia. 3° Rapporto CER/IRS sull’industria e la politica industriale italiana", Il Mulino, 1989.
[8] AREA, "Entrate tariffarie e trasferimenti nel finanziamento dei servizi pubblici in disavanzo", 1986, Firenze, Cispel.
[9] CNEL (IV° Commissione per le politiche dei fattori orizzontali), "Il sistema paese come fattore di competitività: i servizi pubblici, le politiche di coesione, la cittadinanza europea", Roma, 13 aprile 1999.
[10] Appunti sulla liberalizzazione del mercato elettrico, 1999, in: www.rifondazione.it/energia.
[11] Giuseppe Labarile, "Un occhio al mercato e uno alla riforma", Guida agli Enti Locali, n. 44, 2000.
[12] Sergio Ristuccia, La trasformazione dei servizi pubblici locali, in: www.servizilocali.com/it.
[13] Giuseppe Labarile, "Un occhio al mercato e..., op. cit.
[14] Coordinamento sostenitore della proposta di legge di iniziativa popolare "L’asilo nido: un diritto delle bambine e dei bambini", Cercasi nido disperatamente, novembre 2000, in: www.ecn.org/reds/nidibollettino.html.
[15] AA.VV., "Un supporto decisionale per le aziende del trasporto pubblico locale", Quaderni ISRIL, 1/1996.
[16] HyC-HYDROCONTROL (Centro di Ricerca e Formazione per il Controllo dei Sistemi Idrici), "DISPOSIZIONI IN MATERIA DI RISORSE IDRICHE, Legge n. 36 del 5 gennaio 1994", Cagliari.
[17] Legambiente/FISE-Assoambiente, "Indagine sulla produzione e lo smaltimento dei rifiuti industriali", marzo 1999, in: www.e-gazette.it.
[18] Antonio Di Majo (a cura), "Le politiche di privatizzazione in Italia. 3° Rapporto CER/IRS sull’industria e la politica industriale italiana", Il Mulino, 1989.
[19] Marco Gelmini, Le trasformazioni nel settore energia, in: www.rifondazione.it/energia.
[20] Ciocca Pierluigi (a cura di), “Disoccupazione di fine secolo. Studi e proposte per l’Europa”, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
[21] Ciocca Pierluigi (a cura di), “Disoccupazione di fine secolo. Studi e proposte per l’Europa”, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
[22] AA.VV., "La riforma della P.A.: un percorso accidentato, ricco di prospettive ma avaro di risultati", Quaderni ISRIL, 2-3/1998.
[23] Luci ed ombre dei contratti temporanei, in http://www.frdg.org.
[24] Istat, “Rapporto sull’Italia. Edizione 2000”, Il Mulino, 2000.
[25] Donati Pierpaolo, Pubblico e privato. Fine di un’alternativa?, Nuova universale Cappelli, 1978.
[26] Huther J., Roberts S., Shah A., Public expenditure reform under adjustement lending. Lessons from World bank experiences, WORLD BANK discussion paper n. 382, 1997.
[27] Stokey Edith, Zeckhauser Richard, Introduzione all’analisi delle decisioni pubbliche, FORMEZ, 1988.
[28] Stokey Edith, Zeckhauser Richard, Introduzione all’analisi delle decisioni pubbliche, FORMEZ, 1988.
[29] Antonio Di Majo (a cura), "Le politiche di privatizzazione in Italia. 3° Rapporto CER/IRS sull’industria e la politica industriale italiana", Il Mulino, 1989.
[30] Agostini Luigi, "Welfare locale - Assessorato sociale - Sindacato", Impresa Sociale, 46/1999.
[31] Giannone Antonino, "La convergenza delle economie delle regioni italiane", Studi e Note di Economia, 2/2000.
[32] Billia Gianni, "Un sistema lento condiziona la competitività", L’Impresa, 4/1998.
[33] Billia Gianni, "Un sistema lento condiziona..., op. cit.
[34] "Concorrenza, sviluppo e sistema bancario", intervento di Antonio Fazio, Bollettino Economico della Banca d’Italia, n. 35, 2000.
[35] Antonio Di Majo (a cura), "Le politiche di privatizzazione in Italia. 3° Rapporto CER/IRS sull’industria e la politica industriale italiana", Il Mulino, 1989.