1. Premessa
La riorganizzazione federalista dello Stato crea nuovi centri
di potere politico e finanziario. Questo processo è stato guidato e verrà gestito
da una nuova classe dirigente che si è impadronita sistematicamente della ricchezza
sociale e del patrimonio pubblico. Sono i nuovi boiardi “neoliberisti” che dopo
Tangentopoli hanno sostituito il ceto politico pre-esistente e i vecchi monopoli
economici. È una nuova classe dirigente trasversale e compenetrata sia all’Ulivo
che al Polo... ed è arrogante e pericolosissima.
Rl dibattito politico/istituzionale dell’autunno, è stato caratterizzato
dal varo della riforma federalista dello Stato che già dal gennaio 2001 introduce
il federalismo amministrativo e delega alle Regioni molti poteri e molte competenze.
Abbiamo così assistito al paradosso per cui mentre la “sinistra”
tuonava contro la devolution di Formigoni in Lombardia o lo statuto “secessionista”
della Regione Veneto, il governo di centrosinistra - ispirato da apprendisti
stregoni come il ministro Bassanini o dalle teste d’uovo emiliane dei DS- partoriva
un modello federalista di Stato che recepisce ampiamente le ambizioni delle
regioni settentrionali amministrate dal Polo e dalla Lega.
2. Un gigantesco trasferimento di spesa pubblica
La parola magica della sussidiarietà - rovesciata nel suo contrario
- spiana la strada alle privatizzazioni selvaggie di tutti i servizi pubblici
sia affidandoli a soggetti privati sia consegnandoli nelle mani del crescente
business del cosiddetto “non profit”. La trappola del federalismo liberista
è dunque scattata senza alcuna opposizione (ad eccezione dei parlamentari del
PRC) [1].
L’aziendalismo esasperato sopprime qualsiasi rete di servizi
sociali o pubblici e si impone come modello di amministrazione degli enti locali
che si trovano ormai a gestire quote sempre più rilevanti del bilancio pubblico.
Secondo un recente rapporto del CNEL, il federalismo economico
è già una realtà perchè ormai la spesa pubblica sotto il diretto controllo dello
Stato rappresenta solo un terzo di quella affidata a Regioni, Comuni e Province.
Analizzando i 9.333 capitoli di spesa del bilancio di previsione
del 2001, emerge che la spesa dello “Stato centrale” ammonta a 93.041 miliardi
mentre quella degli enti locali ammonta a ben 269.642 miliardi. È una quota
assai superiore, sostiene il CNEL, anche a quella dei paesi più federalisti
del mondo come Stati Uniti e Germania [2].
Anche risistemando i capitoli di spesa (ad esempio quelli per
l’istruzione) la spesa pubblica destinata agli enti locali resterà comunque
superiore a quella dell’amministrazione centrale.
In dieci anni le entrate fiscali degli enti locali sono quasi
quadruplicate, mentre i trasferimenti dallo Stato alle amministrazioni locali
sono passati dai 138.757 miliardi del 1990 ai 110. 252 del 1999.
Il trend delle entrate fiscali allo stato centrale è aumentato
ma con un trend inferiore a quello delle imposte locali.
Da gennaio del 2001 entrerà in vigore anche l’addizionale Irpef
per i Comuni (con una aliquota che va, per ora, da un minimo 0,2 ad un massimo
dello 0,4%) che va ad aggiungersi a quella regionale già operante, mentre sta
scaldando i motori l’entrata in vigore della addizionale per le Province.
È un perverso meccanismo contabile che ha permesso al governo
Amato di annunciare una riduzione delle tasse statali mentre queste vengono
reintrodotte a livello locale neutralizzando qualsiasi beneficio fiscale reale
per i redditi.
Siamo dunque alla vittoria dei federalisti e dei critici dello
statalismo? I dati dicono di si. Viene così coronata la battaglia ingaggiata
dalla Lega Nord ma anche la “germanizzazione” dello Stato propugnata dal laboratorio
emiliano dei DS guidato dall’Assessore Mariucci e dal ministro Bersani, dagli
opinionisti della “Repubblica”, come Rampini o dal “kommissar” europeo Romano
Prodi [3].
Questo gigantesco trasferimento di risorse economiche dallo
Stato alle amministrazioni locali insieme alla pesantissima privatizzazione
delle aziende dei servizi locali, sposta notevolmente la gestione dei centri
di potere economico ma anche politico, ridisegnando la mappa dei poteri e i
flussi degli interessi materiali in gioco.
A questo punto dobbiamo però porci una domanda. Chi sono i
critici dello statalismo e i sostenitori del federalismo trionfante? Siamo sicuri
che si tratti solo di brave persone, degli eredi di Salvemini, dei supporter
del decentramento come strumento di democrazia e partecipazione?
La nostra inchiesta ha portato a risultati diversi ed assai
inquietanti.
3. Una nuova classe dirigente
L’assalto mosso dai nuovi boiardi alle opportunità offerte
dalla riorganizzazione federalista delle istituzioni e dell’economia, è passato
quasi inosservato, anzi, sotto molti aspetti esso è stato anticipatore di quello
lanciato a livello centrale che ha portato alla nascita del Profit State
e al dominio monopolistico dell’economia.
A lanciare un flebile allarme, oltre a pubblicazioni come la
nostra o a pezzi del sindacalismo di base, era stato lo scomparso Armando Sarti
che per molti anni é stato presidente della Cispel (la “confederazione” delle
aziende municipalizzate dei servizi locali).
Nella introduzione del 13° Rapporto della Sudgest, un anno
fa, Sarti denunciava il rischio della penetrazione dei monopoli stranieri nei
servizi locali e sottolineava come “liberalizzare e privatizzare qualunque sia
il periodo di concessione delle reti, rappresenta una grave rinuncia perchè
si costituirebbero atti impropri e decisioni assunte fuori da una stringente
logica di salvaguardia del pubblico interesse. Le reti, quelle dell’acqua e
dell’energia, sono parte fondamentale e non separabile dal territorio” [4].
L’ex presidente della Cispel, dunque sembrava aver compreso
il segno che stavano prendendo la corsa alla privatizzazione dei servizi locali
ovvero un business che, come sosteneva lo stesso Sarti, dopo essere stato considerato
per anni un settore secondario e trascurato anche dalla politica, era venuto
acquisendo una “inedità centralità”.
Ma l’assalto alle risorse e ai poteri locali, non può essere
imputato solo ad alcuni nuovi squali delle finanza che si sono gettati come
guerriglieri nella privatizzazione di tutti i servizi locali. Emergono infatti
le responsabilità del nuovo ceto politico, quello emerso sulla liquidazione
del vecchio ceto attraverso Tangentopoli, che sono pesanti ed evidenti.
Il progetto federalista incarna, infatti, la riorganizzazione
istituzionale avviata già nei primi anni ’90 e che ha consegnato via via nelle
mani dei sindaci e poi dei presidenti delle regioni e delle province poteri
sempre crescenti, alimentandone le ambizioni (vedi il “partito dei sindaci”
e poi la “lobby dei governatori”) e consentendo di creare una rete di privilegi
e di potere che ha creato una nuova classe dirigente ricchissima, arrogante
e pericolosa.
La celebrazione di questa nuova classe dirigente viene anticipata
già dal CENSIS che è stato un pò il mallevadore di questo nuovo ceto politico
ed economico locale fortemente integrato con i nuovi processi di riorganizzazione
del capitale su base internazionale (l’integrazione europea soprattutto). “Il
riformarsi delle classi dirigenti non può escludere una connessione con i rapidi
processi di internazionalizzazione da un lato e di polarizzazione locale dello
sviluppo dall’altro, tanto da lasciare spiazzate proprio le fasce di élite più
lontane sia dal globale che dal locale” scriveva il CENSIS quattro anni fa [5].
In questa analisi c’è l’esatta fotografia della nuova polarizzazione
dei poteri tra una istanza sovranazionale dall’alto (la Commissione e l’Unione
Europea) e le istanze di potere locali (le regioni o i land) che schiacciano
sia il Parlamento ridotto ormai per il 70% delle sua attività a ratificare le
direttive europee, sia il governo nazionale privato dalle istituzioni europee
di quote sempre più ampie di poteri e di sovranità nazionale (sulla moneta,
sui provvedimenti economici e sociali, sulle misure antimonopolistiche che vengono
sistematicamente annullate da Bruxelles o Strasburgo).
La nuova classe dirigente è dunque “europeista” ma fortemente
radicata sui poteri locali. È fortemente integrata con la politica e lo è assai
più che ai tempi del CAF, dando così vita a veri e propri comitati d’affari
che prosperano indistintamente con le amministrazioni del centro-destra come
con quelle di centro-sinistra, anzi queste ultime hanno dimostrato una maggiore
compenetrazione e capacità di anticipazione del processo di formazione di questo
ceto politico/affarista.
Anche il CNEL coglie questo processo di formazione di un nuovo
ceto politico dentro le dinamiche realizzatesi negli anni ’90, dove “va maturando
una nuova classe dirigente unita da un tessuto connettivo forte, stratificato,
rappresentativo di ogni area sociale. È evidente che la nuova classe dirigente
trova uno dei suoi punti di forza nella molteplicità degli attori che sono entrati
a far parte della dialettica sociale e produttiva” [6].
Per il CNEL, i nuovi attori sono appunto i soggetti politici
ed economici locali che, come diceva Sarti, sono venuti acquisendo nuova centralità
anche attraverso il decentramento della concertazione ovvero i Patti Territoriali
o i contratti d’area.
4. Chi sono i nuovi boiardi
Una analisi su chi siano coloro che hanno tratto benefici,
arricchimento e potere dalla riorganizzazione federalista e dall’assalto ai
servizi locali, rivela uno spaccato di figure sociali ed istituzionali che reggono
nelle proprie mani quote crescenti di poteri e di ricchezza pubblica “privatizzata”.
È infatti ancora la “politica”, nonostante si affermi il contrario,
il terminale che smista i nuovi poteri e le risorse. Le privatizzazioni e le
esternalizzazioni dei servizi mantenendo agli enti locali i soli compiti di
“progettazione”, sono state l’arnese da scasso con cui sono state costruite
le nuove lobby politico/finanziarie. L’aziendalizzazione selvaggia dei Comuni
e degli enti locali, ha offerto ad esse uno spazio di manovra illimitato.
Esiste ormai una pletora di consulenti, dirigenti degli enti
locali, dirigenti delle ASL, di managers del no profit, di amministratori locali
e di managers e amministratori delle aziende locali privatizzate, che costituiscono
un blocco sociale che dispone di redditi elevatissimi, di pacchetti azionari,
di prebende e di complicità strettissime. Costoro già governano o si apprestano
a governare la “nuova centralità dei poteri locali” disponendo di una spesa
pubblica crescente grazie al federalismo e di un sistema di potere blindato
dalle riforme istituzionali ed elettorali che hanno introdotto il sistema maggioritario
a livello locale ancora prima che a livello centrale.
Cominciamo allora la nostra inchiesta da un episodio locale
ma emblematico.
Alcuni anni fa, anticipando una scelta che si estenderà poi
ad altri comuni (soprattutto di centro-sinistra, sic!), l’amministrazione comunale
di Bologna, decide di privatizzare le farmacie comunali. Qualche anno dopo si
viene a scoprire che l’ex city-manager del comune di Bologna, il sig. Sante
Fermi, è diventato l’amministratore delegato della Gehe, una multinazionale
tedesca della distribuzione farmaceutica, che si sta accaparrando tutte le ex
farmacie comunali privatizzate di Bologna. È doveroso sottolineare che all’epoca
al governo della città non c’era il bottegaio Guazzaloca ma gli “efficenti amministratori”
dei DS [7].
Analogamente, il modello Lombardia di Formigoni, si compenetra
assai profondamente con quello delle giunte di centro-sinistra, nella gestione
della sanità, lasciando sempre maggiore mano libera ai privati nella acquisizione
e gestione degli ospedali. Se il presidente della giunta lombarda “ha fatto
la felicità e spesso anche la fortuna degli imprenditori ospedalieri privati”,
scrive l’inserto economico del maggiore quotidiano italiano, “quasi tutte le
regioni, dal Piemonte al Veneto, fino alla giunte uliviste di Toscana ed Emilia-Romagna,
sembrano concedere più libertà d’azione agli ospedali privati” [8].
La ciliegina sulla torta di questo processo di privatizzazione/aziendalizzazione
della sanità, viene ancora una volta dalla “politica”. Abbiamo infatti scoperto
che con un recente decreto ministeriale, i dirigenti delle ASL si vedranno raddoppiare
lo stipendio che potrà arrivare fino a 430 milioni all’anno.
Il provvedimento non riguarda solo i manager delle aziende
del Servizio Sanitario Nazionale (ASL e ospedali scorporati) ma anche le altre
due figure della “triade di comando” ovvero il direttore sanitario e il direttore
amministrativo che però guadagneranno... il 25% in meno del loro capo (cioè
guadagneranno solo 307 milioni all’anno).
Il contratto per il direttore generale è un contratto di diritto
privato di durata non inferiore a tre e non superiore ai cinque anni, rinnovabile.
Il suo incarico è però incompatibile con incarichi politici o amministrativi
locali e nazionali [9].
I tre elementi indicati, messi in relazione allo stato del
servizio sanitario offerto agli utenti e alle condizioni di lavoro e salariali
dei lavoratori della sanità, ci danno perfettamente l’idea di quanto gli interessi
materiali e morali della nuova classe dirigente confliggano apertamente con
quelli della collettività.
[1] Su questo vedi la precedente inchiesta “Le trappole del federalismo”
su Proteo nr.3 del 1999.
[2] Una sintesi del rapporto CNEL è uscita
sul Sole 24 Ore del 7 dicembre 2000.
[3] Indicativo di questa introiezione del modello tedesco è il libro “Germanizzazione.
Come cambierà l’Italia” di Federico Rampini, Laterza 1996, ma anche il libro
dell’assessore della Regione Emilia-Romagna Mariucci con prefazione di Bersani
“Il Federalismo preso sul serio. Una proposta per l’Italia”.
[4] 13°
Rapporto sullo stato dei poteri e dei servizi locali 1999, a cura della Sudgest.
[5] CENSIS:
Note e commenti, ottobre/ novembre 1997.
[6] CNEL: Laboratori Territoriali.
Rapporto sulla concertazione locale, 1999.
[7] “Farmacisti in rivolta” in CorrierEconomia del 20 novembre 2000.
[8] “I nostri affari
sono in salute” in CorrierEconomia del 20.11.00.
[9] “Raddoppia lo stipendio dei manager SSN” in Sole 24 Ore
del 9.10.00.