5. Tra nuova Tangentopoli e la contea di Nottingham
Ma la nostra inchiesta non può che allargarsi ad altri campi
in cui i nuovi boiardi del federalismo sono passati all’assalto della ricchezza
sociale.
Recentemente, la Corte dei Conti ha condannato l’ex Sindaco
di Roma Rutelli e la Giunta, a risarcire circa 3 miliardi e mezzo di lire le
casse comunali, per i soldi spesi in consulenze esterne.
La condanna del tribunale contabile, ha suscitato un vespaio,
soprattutto perchè la distribuzione delle parcelle d’oro ai consulenti è un
fenomeno assai diffuso ed utilizzato da quasi tutte le amministrazioni locali
di medie/gradi dimensioni e che ha dato vita ad un nuovo modello di Tangentopoli
sostituendo l’assegnazione degli appalti con l’assegnazione di consulenze agli
amici e agli amici degli amici. Rutelli si è difeso come Craxi sostenendo che...
fanno tutti così.
Ma questo delle consulenze, è uno degli effetti più evidenti
dell’introduzione di leggi “federaliste” (la 142/90 ma anche la127/97 voluta
da Bassanini) che assegnano maggiori poteri ai Sindaci e agli esecutivi locali:
“Gran parte di queste flotte di consulenze sfugge alla rete dei controlli” scrive
infatti il Sole 24 Ore “ soprattutto da quando le delibere sfuggono al controllo
dei Coreco” (i comitati regionali di controllo, NdR) sulla base della nuove
leggi.
Secondo la relazione del procuratore regionale della Corte
dei Conti del Piemonte, il ricorso alle consulenze esterne è diventato talmente
frequente da assorbire buona parte del bilancio dei singoli enti [1].
Ma un’altra fonte di business e prebende “locali” incentivati
e poi legittimati dalla riforma federalista è quello delle esattorie locali.
Anche qui è stata una inchiesta della magistratura (la Procura
di Latina) a scoperchiare un verminaio sul quale il governo Amato si è affrettato
a rimetterci sopra un macigno liquidando il potere di controllo del Ministero
delle Finanze sulle società che gestiscono le esattorie comunali.
Lo scandalo è scoppiato con l’inchiesta sulla società che gestiva
l’esattoria nel Comune di Aprilia (ahinoi anche qui una giunta di centro-sinistra
e con il PRC in maggioranza).
In questo caso, la A.Ser., società indicata dal Consiglio Comunale
di Aprilia per la riscossione dei tributi comunali (ICI, Tarsu, Tosap, ICP),
riscuoteva un “aggio” del 30% sui tributi riscossi invece dell’1,5% previsto
dalla legge. Alla stessa società verrà poi affidato il servizio di riscossione
anche da parte di altri comuni del Lazio (dove la maggioranza è invece di destra).
La gestione privata della riscossione, ha fatto sì che alla fine, l’aggio che
i soci privati dell’A.Ser. si distribuiscono tra loro arrivi fino al 70%. Ovvero
la gran parte dei tributi comunali che i cittadini versano all’amministrazione.
È una truffa? No, è quello che consente un’altra “legge federalista”, la 446/97
(anche qui voluta da Bassanini) che da via libera ai Comuni nell’affidare la
riscossione dei propri tributi a società private o miste con soci iscritti ad
un albo apposito.
Le richieste di chiarimento del Ministero delle Finanze al
Comune di Aprilia oltre a subire gli strali della ”politica”(Di Pietro ha difeso
quelli di Aprilia come bravi amministratori “messi in cattiva luce” dal Ministero)
restano senza risposte [2].
Il caso di Aprilia, come si desume dalle cose dette, non è
affatto un caso isolato ma è piuttosto un episodio venuto alla luce di quello
che l’inserto enti locali del Sole 24 Ore chiama un “far west” e che ha come
posta in gioco un business di ben 80.000 miliardi di tributi comunali. “Un mondo
senza regole dove vige la legge del più forte: ecco come si presenta oggi il
mercato delle entrate locali, la cui riscossione fa gola a tutti” [3].
Un Far west su cui dal gennaio 2001, grazie al federalismo
amministrativo voluto dal governo di centro-sinistra e votato consociativamente
da destra e sinistra in Parlamento, il Ministero delle Finanze non potrà più
mettere il naso!!!
Dunque oltre i manager della sanità e i consulenti strapagati,
il federalismo ci regala anche esattori strapagati, novelli gabellieri che,
come riporta una inchiesta del quotidiano romano “Il Messaggero”, non vanno
tanto per il sottile nella riscossione dei tributi comunali visto che sono motivati
dal “loro aggio” cioè da un interesse privato assai congruo. È uno scenario
da Sceriffo di Nottingham al quale però, purtroppo, ancora manca Robin Hood.
6. Più soldi ai dirigenti ovvero la cooptazione degli apparati
La nuova mappa dei poteri federali, non ha coinvolto solo gli
amministratori ed il ceto politico ma ha dovuto cooptare anche l’apparato degli
enti locali. Trattasi dei dirigenti, degli alti funzionari, dei segretari/direttori
generali, di coloro che conoscono la macchina amministrativa fin dentro l’ultimo
suo ingranaggio e che in alcune occasioni hanno tenuto in scacco i nuovi arrivati
(sindaci, presidenti, assessori). Con il federalismo è diventato possibile cooptarli,
pagarli profumatamente, farli partecipare al grande gioco... e soddisfarne le
ambizioni. Anche in questo si sono rivelati fondamentali il ministro Bassanini
e le sue riforme.
Come abbiamo visto in precedenza, secondo alcune sezioni locali
della Corte dei Conti denunciano che le spese per i “consulenti esterni”spesso
assorbono buona parte dei bilanci degli enti locali. Un recente studio della
stessa Corte dei Conti, rileva come in media il 34% dei bilanci se ne vada per
pagare il personale. Alcuni corifei dell’anti-statalismo approfittano di questi
dati per rinnovare i loro attacchi contro “l’elevato numero di dipendenti nelle
amministrazioni locali” ma una indagine che vada appena un pò in profondità
rivela una realtà ben diversa.

Innanzitutto le recenti leggi finanziarie hanno imposto la
riduzione sistematica - anno per anno - dei dipendenti che sono già diminuiti
di 15.000 unità dal 1997 ad oggi. Gli unici ad andare in controtendenza sono
stati i dirigenti, passati da 6.658 a 6.808 solo nelle Province, nei Comuni
e nelle Comunità montane mentre nelle Regioni i dirigenti sono saliti a 3.891
unità su un totale di 42.669 dipendenti.
Infatti è proprio nelle Regioni che il rapporto tra numero
di dirigenti e numero di lavoratori “comuni mortali” è assai più elevato che
in Comuni e Province. Se nei Comuni il rapporto è inferiore all’1%, nelle Regioni
sale ad una media del 9,1%. Le conseguenze sul “costo del lavoro” si fanno sentire
notevolmente perchè i dirigenti delle Regioni guadagnano da un minimo di 96
milioni all’anno (Abruzzo, dati del 1998) ad un picco di 133 e mezzo (Veneto).
L’incremento “salariale” per i dirigenti tra il ’94 e il ’98 è stato del 42,6%,
quello per i lavoratori del 15,8%, tenendo conto che la media tra i lavoratori
deve darsi tra il II° e l’VIII° livello, si può ricavare facilmente la divaricazione
tra i redditi di un dirigente e quelli di un funzionario, di un impiegato o
di un usciere ovvero tra i “medi” della nuova fascia B e i “reietti” della nuova
fascia A. Occorrerebbe aggiungere a questi ultimi i “reiettissimi” rappresentati
dai lavoratori socialmente utili o i lavoratori interinali a cui stanno ricorrendo
sistematicamente le amministrazioni locali sia di centro-destra che di centro-sinistra
(arrivando al paradosso della Provincia di Roma che intende assumere gli interinali
per gestire... “l’emergenza organici degli uffici di collocamento”!!!).
Nelle regioni a statuto ordinario, nel 1994 c’era un dirigente
ogni undici dipendenti, nel 1998 c’è uno ogni nove. Infatti un rapporto della
Conferenza delle Regioni del 1998, denunciava un “aumento del costo complessivo
del lavoro e situazioni molto differenziate tra Regione e Regione”. Ma segnalava
anche che “la retribuzione media annua dei dirigenti regionali è passata dai
76 milioni del ’94 agli attuali 108 milioni del 1998”.
Nei Comuni la percentuale media è di 1 dirigente ogni 100 lavoratori
mentre nelle Province si sale ad 1 ogni 40 lavoratori [4].
Il boom della dirigenza, così come quello dei consulenti e
degli esattori, è una conseguenza diretta delle leggi federaliste di questi
dieci anni.
Oggi una “determinazione dirigenziale” conta quanto e più di
una delibera. Con la privatizzazione del rapporto di lavoro anche nel pubblico
impiego, i poteri dei dirigenti sul personale sono estesissimi e discrezionali.
È potere dall’alto contro il basso del quale i dirigenti rispondono solamente
ed individualmente al sindaco o ai presidenti di province e regioni.
Dunque nella nuova classe dirigente federalista, dobbiamo iscrivere
anche questi quasi undicimila pretoriani delle amministrazioni locali, i cui
interessi sono inversamente proporzionali a quelli dei lavoratori pubblici a
loro sottoposti e degli utenti dei servizi da loro gestiti, perchè ai dirigenti
viene aumentato il bonus individuale sulla base dei risparmi di gestione del
budget a loro assegnato. Meno spenderà il loro dipartimento (in retribuzioni
del personale o spese di gestione) e più porteranno a casa a fine anno. Nascono
così quei surplus di reddito che viene investito in azioni, in titoli di stato
o in fondi di investimento che i commentatori chiamano “ risparmio gestito delle
famiglie” e che noi definiamo ricchezza sociale rubata ai lavoratori e agli
utenti dei servizi.
7. Composizione di classe e costi del nuovo ceto politico
Ogni nuova classe dirigente ha occupato sistematicamente i
posti di comando e quelli di prestigio. Il ceto politico post-Tangentopoli non
fa eccezione. Fa solo una differenza: oggi si fa pagare di più e direttamente
in busta paga per smarcarsi dal vecchio ceto politico che invece ricorreva “ad
altri mezzi”.
Come abbiamo visto, la modernizzazione della “politica” e l’assalto
al potere della nuova classe dirigente, è avvenuta prima a livello locale e
poi a livello centrale.

Sindaci, presidenti, assessori, consiglieri, si sono dotati
di risorse finanziarie adeguate per apparire “incorruttibili” ed efficienti.
Ma la realtà ci dice che oggi assai più che ieri, la rappresentanza politica
si è via via concentrata su élite sociali sempre più ristrette e su una partecipazione
elettorale che somiglia sempre meno al suffragio universale e sempre più al
voto censuario (la crescita esponenziale e cosciente dell’astensionismo rivela
chiaramente questa tendenza).
La composizione sociale del Parlamento che, tra le altre cose,
ha varato la riforma federalista dello Stato, vede dunque rappresentata una
stragrande maggioranza di settori sociali ricchi, con redditi elevati e con
interessi materiali confliggenti con quelli dei lavoratori salariati, dei disoccupati/precari
o dei pensionati.
Il deputato semplice, il peone che alza la mano su indicazione
del suo capogruppo, si porta a casa da un minimo di 16 milioni ad un massimo
di 24 milioni al mese (per via delle diarie, dei rimborsi viaggio e delle spese
di rappresentanza). I deputati che invece hanno incarichi (vice-presidente della
Camera, questore, presidente di Commissione) aggiungono a questi altre indennità
che vanno da un massimo di 8.813.713 ad un minimo di 5.675.761 lire mensili.
La segnalazione di queste cifre e la loro connessione con la
composizione sociale del Parlamento, non è un cedimento a tentazioni qualunquiste
ma è una fotografia che ci serve per comprendere il contesto in cui vengono
discusse, prese, votate o semplicemente ratificate decisioni importanti.
Occorre sottolineare che i gettoni di presenza non vengono
elargiti solo in occasione delle sedute dei consigli comunali o provinciali,
ma anche per le riunioni delle commissioni di cui ogni consigliere fa parte.
Per cui è chiaro che se l’amministratore di un piccolo comune non può “campare”
con la retribuzione istituzionale della sua attività, gli amministratori e i
consiglieri dei grandi centri urbani cominciano a percepire redditi assai superiori
a quelli di un lavoratore dipendente.

Come possiamo verificare su questi dati, il nuovo ceto politico
è ancora numeroso ed è sicuramente ricco. Ha comunque a disposizione risorse
finanziarie che gli consentono di comprare azioni delle aziende privatizzate,
di “guardare al mercato” senza l’insicurezza che domina gran parte dei settori
popolari o di non vedere come problema il semplice aumento di ventimila lire
mensili del servizio di refezione scolastica o l’introduzione delle addizionali
Irpef per regioni, comuni e province.

Il ceto politico ha un atteggiamento morale e materiale assai
diverso da quello dei lavoratori dipendenti o dei pensionati, ai quali magari
viene riconosciuto un aumento contrattuale di 35.000 lire medie e lorde che
viene immediatamente azzerato dal ritocco di qualche tariffa dei servizi pubblici
locali (dalla nettezza urbana alla refezione etc.) o nazionali (gas, elettricità,
canone Telecom, etc.).
Questa incomunicabilità tra ceto politico nazionale e locale
e settori sociali, negli anni ’90 è diventata ancora più profonda. Il sistema
maggioritario e il bipolarismo hanno infatti rotto anche quel meccanismo distorto
di rapporto tra politica e società che era il voto di scambio. Il problema è
che l’hanno sostituito con l’arroganza, l’inamovibilità e la divaricazione tra
ceto politico e società.
La componente politica della nuova classe dirigente è dunque
“nemica del popolo” ma non è la sola e neanche la peggiore.
[1] “Il consulente
incassa, il cittadino paga”, in Sole 24 Ore del 9 ottobre 2000.
[2] “Esattori privati, un affare da 800 miliardi”in Corriere
della Sera del 28 ottobre 2000.
[3] “Riscossione:
è scoppiato il Far West”, in Enti Locali/Sole 24 Ore del 6 novembre 2000.
[4] I dati sono stati ricavati
dagli inserti sugli enti locali del Sole 24 ore del 8 novembre 1999, del 25
settembre e del16 ottobre 2000 e dall’inserto “Autonomie” dell’Unità del 21
ottobre 1999.