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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Sergio Cararo

 

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“The Federal Business Revolution”. Parte prima: i percorsi attuativi della “grande” riforma della Pubblica Amministrazione

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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Si è entrati ormai in una fase in cui il “federalismo all’italiana” sta diventando definitivamente legge dello Stato; ciò sinteticamente significa che a fronte di un minore contributo fiscale a favore dello Stato, il cittadino dovrà versare imposte, tasse, contributi, in pratica somme di denaro sempre maggiori agli enti locali e alle regioni, in nome del tanto “decantato e atteso” federalismo fiscale che dovrebbe portare ad una maggiore “autonomia”, e quindi, a più “potere” degli enti.

Allo stesso tempo è il trionfo della “sussidiarietà”. Ma di cosa si tratta in realtà? Sussidiarietà in sostanza significa che lo Stato subentra laddove non approdano i privati: sono finiti quindi i compiti dello Stato sociale e le funzioni delle Amministrazioni Pubbliche? È semplice: i servizi sociali e pubblici sono dati in gestione ai privati o se questo non è possibile (perché magari si tratta di servizi non redditizi) intervengono i settori cosiddetti “no profit” o del Terzo settore, settori ormai in mano alle fondazioni bancarie; un Terzo settore che non svolge di fatto un ruolo di supplenza ma di sostituzione in chiave “privatistica” del Welfare State” e allo Stato e agli Enti Pubblici resta una sorta di ruolo di “supplenza” nell’attività sociale in genere.

Va tenuto conto, inoltre, che in questi ultimi anni si è avuta una sempre maggiore privatizzazione delle aziende pubbliche che gestivano settori di primaria importanza, quali l’elettricità, i trasporti, l’acqua, ecc., e ciò ha provocato oltre ad un aumento delle tariffe dei servizi e un peggioramento dei servizi anche un considerevole disagio tra i lavoratori che hanno dovuto sopportare licenziamenti, adeguamenti alle politiche di flessibilità, mobilità e trasferimenti, contrazione dei salari reali, ecc.  [1]

In questo articolo si cercherà di chiarire come, in che modo è stata avviata e come sta procedendo la “Grande Riforma della Pubblica Amministrazione” e come i tanto celebrati miglioramenti per i cittadini e lavoratori (ormai sarebbe meglio chiamarli utenti-clienti) siano in realtà un esclusivo consolidamento economico e di potere solo per i gestori delle imprese private che facendo capo ad un progetto politico-economico ben preciso e delineato di “occupazione dello Stato” hanno avuto la possibilità di “infilarsi” nella gestione dei servizi pubblici realizzando l’incremento sempre maggiore dei loro profitti a danno chiaramente dei cittadini, della collettività e delle fasce più deboli della popolazione che vedono l’accentuarsi dei loro disagi.

Nel prossimo numero di Proteo verrà pubblicata la Parte Seconda di questo lavoro in cui più dettagliatamente si porrà l’accento sulle logiche ispiratrici del “nuovo Welfare” ridotto a “soccorso per i miserabili”, al ruolo e alle funzioni del “Terzo settore” nell’ambito della “filosofia della sussidiarietà”; si riprenderà infine il discorso relativo alle privatizzazioni già affrontato nei primi due numeri del 1998 di Proteo, legandolo ai processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali e valutando le ricadute in particolare sui lavoratori del pubblico impiego. In poche parole la “rivoluzione politico-economico-istituzionale” che generalmente identifichiamo come definitivo passaggio dal Welfare State al Profit State individua una “Federal Business Revolution” che riconosce nei lavoratori pubblici e nell’utilizzatore socialmente più debole del servizio pubblico le “vittime” da sacrificare per la realizzazione della “Grande Riforma della Pubblica Amministrazione”.

La riforma prende le mosse da quattro elementi fondamentali:

 

1) il decentramento amministrativo;

2) la riorganizzazione;

3) il completamento della privatizzazione del lavoro pubblico;

4) la semplificazione degli atti amministrativi.

 

Per quanto riguarda il primo punto si tratta del trasferimento alle regioni, alle provincie e agli enti locali dei compiti in precedenza spettanti allo Stato nell’ottica di un “federalismo a costituzione invariata”.

La riorganizzazione prevede un generale riordino dei Ministeri con la possibilità anche di una loro fusione.

Il terzo punto prevede, invece, la totale integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato (in sostanza si equiparano i lavoratori pubblici ai lavoratori privati).

Da ultimo vi è la previsione di una completa, efficace ed efficiente semplificazione degli atti amministrativi.

Di seguito viene fornita una Cronologia delle leggi sulla Riforma della Pubblica Amministrazione (PA) per collocare meglio nel tempo i vari passaggi politici.

2. I percorsi della Federal BusinessRevolution

 

Quale può essere considerato il compito della Pubblica Amministrazione [2]? La risposta più immediata e naturale è che il ruolo principale sia quello di creare diverse opportunità ai cittadini per permettere loro di scegliere e poter così soddisfare i diversi bisogni sociali.

Ed ancora qual’è il significato di settore pubblico? A questo proposito si ricorda che: “Negli attuali sistemi standardizzati di contabilità nazionale... il settore pubblico è... identificato nel complesso delle pubbliche amministrazioni, intendendo con ciò quelle istituzioni che a titolo principale producono servizi non commerciabili ovvero operano una redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese”. [3]

Definire il concetto di “servizio pubblico” non è facile: vi sono infatti due accezioni: quella soggettiva e quella oggettiva; la prima “definisce come servizio pubblico quell’attività svolta dall’amministrazione pubblica, che non costituisce esercizio di pubblica funzione - ossia non ha forma autoritaria - e che consiste nella produzione di beni o utilità a favore della collettività... con la nozione oggettiva di servizio pubblico, invece, si indica l’attività imprenditoriale che offre beni o servizi alla collettività, o che soddisfa bisogni generali.” [4]

Si sostiene correttamente che “una buona amministrazione pubblica va creata organizzando una struttura di base con caratteristiche tecniche in grado di assicurare il buon funzionamento della gestione, indipendentemente dal modello di decentramento o dalle forme di autonomia prescelti. Una buona macchina amministrativa deve saper funzionare non soltanto per il grado di autonomia assicurata dalla Costituzione agli Enti ma anche e soprattutto per la qualità del dispositivo amministrativo realizzato. Basti pensare alla Francia che, pur essendo una repubblica ad impianto centralista, possiede una delle migliori amministrazioni pubbliche esistenti nel mondo”  [5].

Dal punto di vista della Statistica Economica e della Contabilità Nazionale, la Pubblica Amministrazione (PA) è definita come l’operatore economico che produce servizi collettivi non destinabili alla vendita, servizi cioè che non essendo oggetto di compravendita non hanno un prezzo di mercato; allo stesso tempo la PA svolge funzioni redistributive di reddito e di ricchezza effettuando trasferimenti unilaterali verso gli altri operatori economici i quali effettuano versamenti obbligatori alla PA per permettere il finanziamento delle prestazioni dei servizi pubblici collettivi [6].

La Pubblica Amministrazione può essere paragonata anche ad una azienda in quanto, agendo in una situazione non concorrenziale, origina servizi di carattere materiale e giuridico. Con la nuova riforma si sta cercando invece di impostare la PA con struttura e modalità attuative dell’impresa privata; si sostiene ad esempio che anche se l’impresa, non può trovarsi in una situazione di “chiusura dovuta al fallimento” è altrettanto vero che una errata politica delle Amministrazioni Pubbliche può portare a gravi perdite per l’intera collettività; o si sostiene anche che come l’impresa privata anche la Pubblica Amministrazione deve rispondere a requisiti di efficienza, economicità ed efficacia negli obiettivi da raggiungere anche se di solito gli interessi pubblici sono perseguiti senza seguire strettamente le regole del mercato [7]. Infatti, “il suo compito è di offrire non rischi... ma la sicurezza pubblica, ossia il punto di riferimento stabile e riconoscibile della mediazione tra opposti egoismi e dell’allocazione delle risorse secondo criteri d’efficace imparzialità... nei cui riguardi la PA deve sviluppare, più che la risposta adattativa tipica delle imprese, quella autoritativo-regolativa tipica del pubblico potere”. [8]

Si capisce da subito come si cominci già a trasformare la concezione e il ruolo della PA; ormai si fa permeare nella società il concetto che la PA debba essere un’impresa con criteri privatistici in cui l’efficienza produttiva debba avere un ruolo centrale, immettendo così di fatto la PA nella logica di mercato e quindi finalizzata al profitto e non più al soddisfacimento dei bisogni economico-sociali collettivi senza il ricorso al mercato e, quindi, senza bisogno di compravendita e in chiave universalistica.

Si sviluppa, seguendo tale impostazione economica e culturale, negli ultimi anni nel nostro Paese un processo di riforma dell’organizzazione statale fondata su un più diretto coinvolgimento delle regioni, delle province e dei comuni, che rappresentano gli enti di riferimento per una differente distribuzione delle funzioni pubbliche, determinata dai principi di efficienza, efficacia ed economicità. Principi e modalità attuative che fanno da riferimento per una diversa organizzazione dello Stato e per cui l’Amministrazione Pubblica oggi, non può più essere considerata un elemento esterno ai poteri tipici del Profit State, ma, anzi, diventa uno strumento di intervento attivo. Cioè la Pubblica Amministrazione si affaccia alle soglie del terzo millennio con una logica effettivamente di efficienza e di mercato, tralasciando gli scopi sociali. La prima considerazione da fare è che nel momento in cui i documenti ufficiali della PA parlano espressamente di mercato, significa che una scelta di campo già la si è fatta, perché il mercato non è un’entità astratta, ma il mercato vive di leggi ferree, centrate sul rapporto di efficacia economica capitalista che significano massimizzazione dei profitti e minimizzazione dei costi. Nella fattispecie il costo che in prima battuta dovrà essere tagliato è il costo del lavoro. Se per efficienza si intendesse semplicemente miglior rapporto con i cittadini, un miglior rapporto quindi di servizio pubblico come lo si intende socialmente, come lo intendono i lavoratori, ben venga, ma il problema è che i criteri messi alla base di tutta la riforma sono fondamentalmente i criteri dell’efficienza dell’impresa privata nella rincorsa sfrenata al profitto.

Si può parlare della nascita di un cosiddetto “federalismo all’italiana”, di una grande riforma dell’organizzazione e delle funzioni della PA e in genere delle funzioni pubbliche in cui i principi di efficienza, efficacia ed economicità si coniugano al “decentramento amministrativo”, comunque, attraverso funzioni comunicative, sociali e politico-organizzative consone alla riforma in atto. Si tratta in effetti di una profonda modificazione in chiave politico-economica supportata da continui messaggi culturali-propagandistici che devono creare consenso alle logiche di mercato, alle “ineluttabili necessita” di efficienza e di profitto, alla lotta agli “sprechi e all’assistenzialismo e al posto fisso improduttivo”. È per questo che continuo è il bombardamento mediatico sull’efficienza produttiva e organizzativa della PA ottenibili esclusivamente attraverso i meccanismi di mercato, l’abbattimento del ruolo dello Stato regolatore, interventista e occupatore, della privatizzazione delle imprese pubbliche e del Welfare, favorendo i processi di “devolution” con i passaggi dall’universalismo alla sussidiarietà, travisando e utilizzando in un’ottica esclusivamente di mercato e di profitto i principi e le spinte sociali ad un equilibrato e possibile federalismo.

<Va ricordato che il termine federalismo può assumere due significati diversi: si può parlare infatti di federalismo come “tecnica” e federalismo come “valore”.

Nel primo caso per “federalismo” si intende un particolare tipo di ripartizione delle competenze fra singoli Stati - ciascuno col suo ordinamento, il suo popolo, il suo territorio - e Stato federale nel suo complesso, dal separato ordinamento, e il cui popolo e il cui territorio sono dati dalla somma di quelli degli Stati che lo compongono. Allo Stato federale appartengono alcune competenze, enunciate dalla Costituzione federale - di regola simbolicamente rappresentate dalla spada (la difesa), dalla bilancia (la giustizia), dalla bandiera (la politica estera) e dalla moneta (la politica economica generale) - e solo quelle. Tutte le altre appartengono, residualmente, ai singoli Stati... Si tratta, insomma, d’una sorta di “funzione regolatrice interna” dell’ordinamento giuridico, tale da porre i soggetti in grado di adattare la propria azione alle diverse circostanze di tempo e di luogo che via via si presentano in concreto.

Il decentramento poi addirittura, almeno in linea di principio, è l’antitesi del federalismo. Con tale termine si intende la possibilità dall’ordinamento accordata allo Stato centrale di istituire suoi organi periferici per meglio servire il territorio. Il concetto di decentramento presuppone l’esistenza di un centro forte, di cui le realtà locali costituiscono la pura e semplice emanazione. Parimenti, il federalismo come tecnica di governo non è affatto incompatibile col presidenzialismo...

b) Federalismo come “valore”.

È il significato a cui più di frequente fa ricorso il politico attivo. In tale accezione, il federalismo è l’obiettivo politico, di regola contrapposto ad un non meglio specificato centralismo. Naturalmente tale accezione “valoriale” di federalismo può essere accettata anche dai suoi avversari, i quali le addebitano ogni sorta di inconvenienti politici. Inteso come valore negativo, il federalismo allora “mina l’unità dello Stato”, “il primo passo verso la secessione”, “ignora le esigenze della solidarietà”, ecc. In ogni caso, quando in politica il concetto di federalismo viene usato prevalentemente come valore assoluto, positivo o negativo che sia, meno è preciso, meglio è. Difatti ciò consente di caricarlo di (ogni possibile) significato; chi fa cavallo di battaglia della sua politica la nozione “valoriale” di federalismo o si guarderà bene dal definirlo, o lo userà indifferentemente come sinonimo di “autonomia”, di “decentramento”, di “indipendentismo”, di secessionismo”.> [9]

E comunque, nelle sue diverse specificazioni il federalismo si coniuga alla più complessiva “grande riforma della PA”, che nel momento in cui lega il passaggio dal Welfare State al Profit State, le privatizzazioni all’emergenza economico-produttiva dell’efficienza d’impresa nella PA, la nuova forma-Stato al federalismo, assume il ruolo di quella che ci piace chiamare “Federal Business Revolution”. Seguiamone di seguito alcuni percorsi.

Dopo la seconda guerra mondiale è iniziato nel nostro Paese un lungo iter evolutivo che ha cambiato il ruolo della Pubblica Amministrazione: da semplice regolatrice dell’ordine pubblico infatti si è passati ad una amministrazione che oltre a fornire i servizi gestisce le infrastrutture.


[1] Cfr. “Gli Sciamani del federalismo” in Contropiano, giornale per l’iniziativa politica e di classe, Novembre 2000, pag. 1.

[2] L’art.2.del Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 sulla Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego cita: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le provincie, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale”.

[3] Cfr. “Enciclopedia dell’Economia Garzanti”, Garzanti editore, 1992.

[4] Cfr. A.Quadro Curzio, M.Fortis (a cura di),”Le liberalizzazioni e le privatizzazioni dei servizi pubblici locali”, Il Mulino, Bologna, 2000, pag.34.

[5] G.V. Lombardi, “L’ordinamento degli enti locali”, il Sole24 ore,2000, Milano, pag.27.

[6] Si veda Alvaro G., “Contabilità Nazionale e Statistica Economica”, Cacucci edit., Bari, 1999.

[7] Va ricordato che l’art. 1 della Legge n. 241 del 7 agosto 1990 cita: “1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti”.

[8] Cfr. S. Russo, “Il management amministrativo. Ruolo unico, controllo e responsabilità”, Giuffrè edit., Milano 2000, pag.39.

[9] Cfr.R.Fassa, Federalismo, in Impresa e Stato, http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_39/fassa.htm.