Da circa un paio di anni è esploso in Italia il fenomeno del
mobbing. Mobbing è una parola inglese che deriva dal verbo “to mob”, vuol
dire “escludere, circoscrivere”. In etologia è usata per indicare il
comportamento di alcuni animali della stessa specie che si coalizzano contro un
membro del gruppo e lo attaccano escludendolo dalla comunità, fino a portarlo,
talvolta, alla morte. L’impostazione sia pubblicistica che politica della
materia ha seguito fino ad oggi una linea che potremmo chiamare individualista,
tendente, cioè, ad inquadrare il fenomeno dal punto di vista del singolo
individuo e del suo rapporto con l’ambiente di lavoro complessivamente inteso.
E così quello che balza più agli occhi, quello che viene veicolato con
maggiore frequenza dai mass-media non è il numero delle aziende in cui viene
praticato, le cause o i metodi usati ma il numero delle vittime. Nessuno sa dire
con precisione quante siano. Di solito la “soglia” di un milione è la cifra
che torna con maggiore frequenza, almeno in Italia. Stando ad un’indagine non
molto recente, del 1988, in Europa il mobbing colpirebbe 12 milioni di
lavoratori. Il record negativo spetta alla Gran Bretagna con il 16,3%.
Tornando in Italia, una recentissima inchiesta della Cgil
Piemonte effettuata tra gli iscritti di diverse categorie, dal metalmeccanico
alla sanità, rivela un numero preoccupante di vittime: su 500 risposte a un
questionario sono emerse 157 segnalazioni di violenze tra colleghi, 323 casi di
violenze psicologiche da parte di capi, e 46 denunce di molestie sessuali.
Un’altra indagine su un campione di 300 persone dice che il
38% dei fenomeni di mobbing avviene nel settore dei servizi e in quello dell’industria,
il 22% nell’amministrazione pubblica e il 12% nella scuola e nell’università.
Che cosa è innanzitutto il mobbing? Ci sono varie forme, naturalmente.
Diciamo che un primo nucleo definitorio può raccogliersi
intorno al significato di mobbing come pressione su un singolo dipendente, a
volte anche su interi gruppi, in modo da indurlo alle dimissioni dal proprio
posto di lavoro, provocare la sua emarginazione, ottenere un “declassamento”
di fatto. La pressione può avvenire in mille modi. Uno è quello, assai
frequente, della mortificazione delle mansioni e, quindi, della
professionalità. Il lavoratore viene costretto a svolgere un ruolo che non gli
compete, di livello più basso, oppure messo in un angolo a non far niente.
Questa è la forma che meglio si inserisce all’interno di una precisa
strategia condotta dagli organi direttivi dell’azienda e che meglio ci
consente di non prendere in considerazione fenomeni più direttamente legati
alla dinamica delle relazioni umane all’interno dell’azienda.
La dottoressa Marisa Lieti, responsabile del centro di salute
mentale della Asl di Taranto, introduce una precisa distinzione: mobbing
strategico e mobbing emozionale. Il primo è quello realizzato dal datore di
lavoro nei confronti di dipendenti ritenuti sgraditi, l’altro si verifica tra
colleghi di lavoro a causa di concorrenza e rivalità.
Nel caso della mansione non rispondente al livello o dell’inutilizzazione,
l’autotutela da parte del singolo lavoratore è data da una serie di norme ben
precise che fanno riferimento sia allo Statuto dei lavoratori che, addirittura,
al codice civile. Effettivamente, come mettono in evidenza alcuni giuslavoristi,
l’insieme delle norme lascia scoperte quelle zone di tutela che si riferiscono
ai danni complessivi arrecati al lavoratore. Davanti al giudice, cioè, bisogna
stabilire una relazione diretta tra le pratiche subite e il danno vero e
proprio. Questo, chiaramente, non è sempre possibile.
Sicuramente le cose potrebbero cambiare se nei processi si
cominciasse a stabilire una linea giurisprudenziale particolarmente coraggiosa e
incisiva nei confronti degli imprenditori. È molto importante, per esempio,
vedere come andrà a finire il processo a Taranto contro l’ex-Ilva di Riva
accusato di aver messo in piedi la famigerata palazzina Laf. L’ex-Ilva di
Taranto può essere considerata sicuramente un caso da manuale in quanto mette
in evidenza come la vessazione più che nascere da una sorta di persecuzione
individuale, magari relativa ad un disagio mentale, nasce in realtà da una ben
precisa scelta imprenditoriale legata a precisi criteri di organizzazione del
lavoro. Crediamo, infatti, che sia questa la giusta ottica con la quale
analizzare il fenomeno del mobbing.
2. Antonio Casillo, autore di “Stop mobbing” dà la
seguente definizione: “Il mobbing è un sistema di organizzazione produttiva
dell’attività umana, consistente in una successione di episodi traumatici
correlati l’uno con l’altro e aventi come scopo l’indebolimento delle
resistenze psicologiche e la manipolazione della volontà del soggetto
mobbizzato”.
Un fenomeno che è evidentemente cresciuto anche in relazione
ad un dato politico rintracciabile nel progressivo abbandono da parte del
sindacato dei temi relativi, appunto, all’organizzazione del lavoro. Quindi,
non è che fino a qualche anno fa il mobbing non ci fosse. Fino a qualche anno
fa c’era, però, un sindacato in grado di affrontare la parte padronale su
questo terreno. Il mobbing, quindi, può essere sicuramente catalogato come un prodotto
degenere della concertazione che non è più in grado di mettere sul tavolo
della trattativa le questioni legate all’organizzazione del lavoro. Il mobbing
va nel senso di quel “trattamento individualizzato” a cui la Confindustria
sta puntando sempre di più, e che costituisce il nuovo orizzonte delle “relazioni
industriali”.
È quindi sostanzialmente sbagliata la scelta di affidare
completamente ad un nuovo ambito legislativo la tutela del singolo lavoratore.
Più che potenziare le garanzie sul piano del procedimento civile e penale si
dovrebbe quindi intervenire nell’ambito della materia sindacale. Infatti, pur
trattandosi di un ambito strettamente individuale, basti pensare, ad esempio, ai
diversi livelli con i quali può essere elaborata la risposta da parte del
lavoratore, il mobbing assume un significato più preciso se letto all’interno
dell’organizzazione del lavoro.
Tuttavia non è soltanto con la deriva della concertazione
che si può spiegare l’esplosione del mobbing. Il fenomeno, infatti, rivela
come l’attuale organizzazione del lavoro nel mondo capitalistico stia
utilizzando un modello che non risponde più ad una logica precisamente
catalogabile.
Si dimostra quindi falsa la teoria di coloro che parlano di
un universo caotico ma sostanzialmente ordinato. Antonio Casilli usa il termine
di chaos capitalism. Le esigenze di flessibilità sono diventate così variabili
e rispondenti a bisogni così diversi tra loro che neppure gli alti livelli dei
quadri e dei funzionari, se non addirittura dei dirigenti, hanno forme di
garanzia rispetto alle necessità di direzione imposte dal management. Si tratta
della seconda generazione della flessibilità. Parallelamente, poi, viene
introdotta una forma di flessibilità, che potremmo chiamare orizzontale,
gestita attraverso la concorrenza tra colleghi.
Naturalmente, non si tratta anche in questo caso di un
fenomeno nuovo. È nuovo il fatto che questa concorrenza tra simili non trova
più un momento di ricomposizione attraverso l’individuazione di un orizzonte
e di un interesse comune. La flessibilità di seconda generazione non è, come
vogliono far credere gli imprenditori, e buona parte dei sindacalisti, una
flessibilità buona. Se così fosse, infatti, a trarne vantaggio sarebbero
innanzitutto i lavoratori. E invece accade esattamente il contrario, proprio
perché non è diretta all’aumento della ricchezza generale. Non avendo più
possibilità di “spremere” la produttività derivante dall’applicazione
diretta del lavoro gli imprenditori cercano di ottenere nuovi profitti
attraverso un meccanismo di pura ricombinazione dei fattori produttivi. Si perde
con ciò qualsiasi elemento “di scopo”, “di sistema” e “di disegno
complessivo”. Non c’è più un’idea perché il profitto si ottiene
attraverso il puro, ed istantaneo, “adeguamento” al mercato. Come spiegare,
altrimenti, gli incrementi borsistici di società che praticano pesantemente il
downsizing?
3. La crisi del fordismo-taylorismo sta scardinando ormai
qualsiasi possibilità di teorizzare anche un piccolo nucleo del cosiddetto “interesse
comune” nell’azienda e tra gruppi di aziende. Nella stessa azienda ci si
divide in gruppi di potere e di pressione ognuno dei quali viene poi collegato a
questa o a quella cordata di interessi finanziari. Tutto risponde ad una logica
basata su quella che potremmo definire economia dell’evento che, mentre da una
parte annulla i confini territoriali dall’altra non approda ad alcun “universalismo”
autentico.
Globalizzazione, infatti, non è un orizzonte, ma solo una
parola-transizione, una definizione in negativo che serve a dire “non-locale”.
In sé non racchiude nulla. Quasi non esiste, per certi aspetti, se non fosse
per i danni che lascia sul suo percorso. Anche la finanziarizzazione dell’economia
ha la sua parte. “L’imbastardimento” dei Consigli di amministrazione,
infatti, fa in modo che la direzione risponda a criteri di lobby e di cordate
che affondano le loro radici all’esterno della singola azienda.
In questo quadro parlare di organizzazione del lavoro sembra
non avere più senso. Eppure ce l’ha se guardiamo al modo in cui questo “paradigma”
si concretizza nella pratica del capitalismo moderno. Nel concreto l’organizzazione
del lavoro è, come dicevamo, un perpetuo meccanismo di ricombinazione dei
fattori produttivi fino ad una velocità che tendenzialmente annulla le
capacità della singola unità produttiva di consolidare abilità e
professionalità. Il lavoro viene annullato attraverso un gesto di “rimozione
autoritaria”.
Se è possibile il mobbing, sempre se inquadrato dentro il
ragionamento sull’organizzazione del lavoro, è un passo oltre il just in
time. Il just in time è quella forma di organizzazione della produzione che non
prevedendo scorte di magazzino, ha una sincronia assoluta delle fasi di
lavorazione. Un esempio, per capire. Nel distretto torinese dell’auto la
produzione e il montaggio dei sedili avviene in distinti momenti e in siti
produttivi completamente diversi. Per raggiungere un altissimo grado di
interfacciamento tra le due linee l’ordine di stivaggio sul camion che li
porterà da un punto all’altro del distretto è scientificamente studiato
affinché al momento dello scarico i sedili entrino direttamente al montaggio
nello stesso ordine in cui si presentano le scocche delle automobili selezionate
a seconda del colore.
4. Il mobbing va oltre il just in time perchéè una
tecnica che consente ai capitalisti di non accumulare professionalità, di non
avere più scorte di lavoro in magazzino e di avere la più completa padronanza
e controllo su ogni singolo lavoratore. Potrei citare mille fronti su cui questa
ricerca degli imprenditori della flessibilità estrema sta insistendo per
forzare e dilagare libera nella pianura dello sfruttamento.
L’ultimo caso arriva dalla Electrolux-Zanussi dove, grazie
ad un accordo “separato” l’azienda agisce come una specie di agenzia
interinale pagando il lavoratore soltanto quando viene utilizzato ma
conquistando la sua “disponibilità h 24”. Il mobbing è la fase di
transizione verso questo modello, che è stato chiamato job on call, lavoro a
chiamata.
Con il mobbing si ottiene una altissima ricattabilità del
singolo lavoratore che sarà poi chiamato in un secondo momento soltanto quando
se ne ha effettivamente bisogno e soltanto alle condizioni che detterà in quel
momento il mercato. L’azienda non lo licenzia o perché non può, o perché
non gli interessa, o perché non gli conviene. L’azienda sa soltanto che in
quel preciso istante non ha bisogno di quel tipo di professionalità.
La pratica del mobbing è solo transitoriamente un attacco
alla persona. Il mobbing è il tentativo estremo di annullare ogni traccia di
“lavoro impersonato” pur continuando ad usufruire di lavoro astratto. I
lavoratori della palazzina Laf dell’ex-Ilva di Taranto ricevevano di tanto in
tanto la visita di alcuni personaggi, legati evidentemente alla direzione dello
stabilimento, che “saggiavano” il loro grado di resistenza e la loro
disponibilità a rientrare nei cosiddetti ranghi. Certo, c’è all’orizzonte
il dato sconfortante che se questa società non informa più se stessa
attraverso il lavoro lo farà prima o poi attraverso la violenza che sta
sconfiggendo il lavoro.