Il dibattito sul mobbing che da qualche anno ha preso piede e
che sta coinvolgendo molti analisti, sindacalisti, psicologi e tecnici, rischia
di creare intorno a questo fenomeno, vecchio come il mondo ma solo oggi venuto
alla ribalta, un’aura di elemento primario nella difesa dei lavoratori.
Mi sembra necessario, senza con questo sostenere che tutto
ciò che si dice e si fa sul mobbing sia una sciocchezza, provare ad esprimere
un punto di vista in qualche modo alternativo.
La tutela dei lavoratori e delle lavoratrici è compito che
spetta, oltre che in proprio ai soggetti interessati, direttamente ai lavoratori
attraverso le forme organizzative che essi si danno. Tali forme organizzative,
sindacati, comitati, associazioni, hanno, fra i propri scopi primari, la tutela
collettiva dell’insieme dei lavoratori di una data azienda, posto di lavoro,
categoria e in tale contesto agiscono, o dovrebbero agire, al fine di garantire
al lavoratore/lavoratrice il completo rispetto delle norme contrattuali e della
dignità collettiva e del singolo sul luogo di lavoro.
L’introduzione di forme nuove di relazioni sindacali, quali
la concertazione, hanno sicuramente indebolito il ruolo delle organizzazioni
sindacali nei luoghi di lavoro, piegando ogni esigenza fino a ieri rivendicabile
attraverso il conflitto organizzato e collettivo, al supremo interesse della
competitività. Tale competitività, oltre che ad essere motore intrinseco dell’affermazione
dell’azienda sul mercato, finisce per essere anche introiettata dallo stesso
movimento sindacale confederale e, quindi, fatta propria come “valore in se”
anche dagli stessi lavoratori.
L’individualismo diventa quindi “a fortiori” l’elemento
attraverso cui si sviluppa la competitività del soggetto. Fare carriera,
garantirsi la permanenza in azienda durante le crisi di mercato, produrre più e
meglio, sminuire il lavoro altrui agli occhi del management, sono tutti segni di
una nuova forma di relazioni interpersonali che ormai da qualche tempo si stanno
affacciando nei luoghi di lavoro, sostituendo la grande forza dell’unità
delle forze di lavoro, con la più volgare forma di autoaffermazione del
singolo.
La perdita di identità del movimento dei lavoratori ha come
segno più visibile proprio l’affermazione di questo nuovo individualismo dei
lavoratori. Questi hanno fatto propria la filosofia dell’avversario di classe,
assumendo come valori propri la competitività, la meritocrazia, l’individualismo
in un contesto di relazioni industriali dove non c’è freno al libero
dispiegarsi degli “animal spirits” dei capitalisti, che anzi vengono
assecondati e favoriti dal sindacalismo confederale.
È evidente che in un tale contesto si verifichino episodi di
“esclusione” (to mob: escludere) che riguardano singoli soggetti che sono
per lo più i più “deboli” - incapaci o non disponibili cioè ad adeguarsi
al nuovo modello di relazioni interpersonali in azienda - o i più agguerriti e
spregiudicati nel tentare di utilizzare al meglio quanto offre in termini di
affermazione personale la nuova situazione.
Ho la netta sensazione che il dibattito in corso sul mobbing,
il suo dilagare in ogni luogo in cui si discuta delle forme di tutela nel mondo
del lavoro, stia in qualche modo prescindendo dalle cause strutturali che hanno
prodotto questo fenomeno, o meglio, facendo in qualche modo “di necessità
virtù” e quindi assumendolo come problema in sé da risolvere, senza tenere
appunto conto che, in tal modo si legittima l’esistenza di un fenomeno
estrapolandolo dalla necessaria e generale tutela dei lavoratori.
Probabilmente tra le cause del largo dibattito sul mobbing vi
è anche una mania esterofila che nel nostro paese è sempre di moda. Il
mobbing, e la discussione su di esso, arrivano in Italia importate da paesi in
cui, ad esempio, la flessibilità, la precarizzazione, gli effetti della
globalizzazione si sono fatti sentire prima e più fortemente che da noi e dove
il ruolo del sindacato è da tempo marginale e marginalizzato. Mi sembra tra l’altro
di poter affermare che il fenomeno del mobbing si stia verificando
esclusivamente nelle società “opulente” e a democrazia sindacale compiuta
(intendendo che esistono strumenti legali di tutela del mondo del lavoro, anche
se non sufficenti). Dove non c’è davvero lavoro, dove non ci sono reddito e
diritti, parlare di mobbing sarebbe davvero un vezzo insopportabile.
In conclusione ritengo che oggi sostenere con così tanta
forza e impegno di energie la campagna di diffusione della conoscenza del
fenomeno mobbing e quindi degli strumenti per affrontarlo, sia in qualche modo
funzionale a chi ha interesse ad individualizzare sempre più i comportamenti, a
rendere sempre più debole il ruolo di tutela generale delle organizzazioni dei
lavoratori, ad impedire o a rendere superflui e residuali i momenti collettivi
di rivendicazione favorendo al tempo stesso lo sviluppo dell’individualismo,
della meritocrazia e, al fondo, la perdita di identità collettiva del movimento
dei lavoratori.
La tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori nel
loro complesso e a livello di singolo lavoratore debbono tornare ad essere
momento primario dell’azione sindacale, rompendo la subalternità ai modelli
proposti dall’avversario di classe e restituendo al movimento dei lavoratori
dignità, autonomia ed indipendenza. Solo in questo modo sarà possibile
bloccare i tentativi di esclusione che questo modello di società, in un mondo
in cui vorrebbero non ci fosse spazio per chi non si adegua, proverà sempre ad
attuare.