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Trasformazioni Sociali e Sindacato

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Pierpaolo Leonardi
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Coordinatore nazionale della CUB (Confederazione unitaria di Base)

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Identità collettiva del movimento dei lavoratori e mobbing

Pierpaolo Leonardi

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Il dibattito sul mobbing che da qualche anno ha preso piede e che sta coinvolgendo molti analisti, sindacalisti, psicologi e tecnici, rischia di creare intorno a questo fenomeno, vecchio come il mondo ma solo oggi venuto alla ribalta, un’aura di elemento primario nella difesa dei lavoratori.

Mi sembra necessario, senza con questo sostenere che tutto ciò che si dice e si fa sul mobbing sia una sciocchezza, provare ad esprimere un punto di vista in qualche modo alternativo.

La tutela dei lavoratori e delle lavoratrici è compito che spetta, oltre che in proprio ai soggetti interessati, direttamente ai lavoratori attraverso le forme organizzative che essi si danno. Tali forme organizzative, sindacati, comitati, associazioni, hanno, fra i propri scopi primari, la tutela collettiva dell’insieme dei lavoratori di una data azienda, posto di lavoro, categoria e in tale contesto agiscono, o dovrebbero agire, al fine di garantire al lavoratore/lavoratrice il completo rispetto delle norme contrattuali e della dignità collettiva e del singolo sul luogo di lavoro.

L’introduzione di forme nuove di relazioni sindacali, quali la concertazione, hanno sicuramente indebolito il ruolo delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro, piegando ogni esigenza fino a ieri rivendicabile attraverso il conflitto organizzato e collettivo, al supremo interesse della competitività. Tale competitività, oltre che ad essere motore intrinseco dell’affermazione dell’azienda sul mercato, finisce per essere anche introiettata dallo stesso movimento sindacale confederale e, quindi, fatta propria come “valore in se” anche dagli stessi lavoratori.

L’individualismo diventa quindi “a fortiori” l’elemento attraverso cui si sviluppa la competitività del soggetto. Fare carriera, garantirsi la permanenza in azienda durante le crisi di mercato, produrre più e meglio, sminuire il lavoro altrui agli occhi del management, sono tutti segni di una nuova forma di relazioni interpersonali che ormai da qualche tempo si stanno affacciando nei luoghi di lavoro, sostituendo la grande forza dell’unità delle forze di lavoro, con la più volgare forma di autoaffermazione del singolo.

La perdita di identità del movimento dei lavoratori ha come segno più visibile proprio l’affermazione di questo nuovo individualismo dei lavoratori. Questi hanno fatto propria la filosofia dell’avversario di classe, assumendo come valori propri la competitività, la meritocrazia, l’individualismo in un contesto di relazioni industriali dove non c’è freno al libero dispiegarsi degli “animal spirits” dei capitalisti, che anzi vengono assecondati e favoriti dal sindacalismo confederale.

È evidente che in un tale contesto si verifichino episodi di “esclusione” (to mob: escludere) che riguardano singoli soggetti che sono per lo più i più “deboli” - incapaci o non disponibili cioè ad adeguarsi al nuovo modello di relazioni interpersonali in azienda - o i più agguerriti e spregiudicati nel tentare di utilizzare al meglio quanto offre in termini di affermazione personale la nuova situazione.

Ho la netta sensazione che il dibattito in corso sul mobbing, il suo dilagare in ogni luogo in cui si discuta delle forme di tutela nel mondo del lavoro, stia in qualche modo prescindendo dalle cause strutturali che hanno prodotto questo fenomeno, o meglio, facendo in qualche modo “di necessità virtù” e quindi assumendolo come problema in sé da risolvere, senza tenere appunto conto che, in tal modo si legittima l’esistenza di un fenomeno estrapolandolo dalla necessaria e generale tutela dei lavoratori.

Probabilmente tra le cause del largo dibattito sul mobbing vi è anche una mania esterofila che nel nostro paese è sempre di moda. Il mobbing, e la discussione su di esso, arrivano in Italia importate da paesi in cui, ad esempio, la flessibilità, la precarizzazione, gli effetti della globalizzazione si sono fatti sentire prima e più fortemente che da noi e dove il ruolo del sindacato è da tempo marginale e marginalizzato. Mi sembra tra l’altro di poter affermare che il fenomeno del mobbing si stia verificando esclusivamente nelle società “opulente” e a democrazia sindacale compiuta (intendendo che esistono strumenti legali di tutela del mondo del lavoro, anche se non sufficenti). Dove non c’è davvero lavoro, dove non ci sono reddito e diritti, parlare di mobbing sarebbe davvero un vezzo insopportabile.

In conclusione ritengo che oggi sostenere con così tanta forza e impegno di energie la campagna di diffusione della conoscenza del fenomeno mobbing e quindi degli strumenti per affrontarlo, sia in qualche modo funzionale a chi ha interesse ad individualizzare sempre più i comportamenti, a rendere sempre più debole il ruolo di tutela generale delle organizzazioni dei lavoratori, ad impedire o a rendere superflui e residuali i momenti collettivi di rivendicazione favorendo al tempo stesso lo sviluppo dell’individualismo, della meritocrazia e, al fondo, la perdita di identità collettiva del movimento dei lavoratori.

La tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori nel loro complesso e a livello di singolo lavoratore debbono tornare ad essere momento primario dell’azione sindacale, rompendo la subalternità ai modelli proposti dall’avversario di classe e restituendo al movimento dei lavoratori dignità, autonomia ed indipendenza. Solo in questo modo sarà possibile bloccare i tentativi di esclusione che questo modello di società, in un mondo in cui vorrebbero non ci fosse spazio per chi non si adegua, proverà sempre ad attuare.