Il libro di Vasapollo e Martufi “Le pensioni a fondo”
edito dai tipi della Media Print ha una caratteristica molto interessante: la
puntualità politica. Infatti, il dibattito sviluppatosi in questi ultimi mesi
attorno alla previdenza ha monopolizzato molta della attenzione di istituti di
ricerca, centri studi e opinionisti.
Purtroppo l’informazione diffusa e la precisione del
dibattito mostrata dai media non è stata pari alla sua intensità.
Spesso si sono viste performance televisive non solo
deludenti, ma molto prossime al ridicolo.
E dire che il tema trattato dall’amico Vasapollo e dalla
amica Martufi - la previdenza- non si presta, o non dovrebbe prestarsi, a facili
approssimazioni.
Chi scrive ha modelli interpretativi e luoghi di elaborazione
non coincidenti con Vasapollo e Martufi, ma il contributo offerto è una
elaborazione fondata su documentazione certa, attendibile e manifesta un rigore
metodologico apprezzabile e un po’ abbandonato dal mondo accademico e della
ricerca economica.
L’ufficio studi della CGIL Lombardia da tempo ha sviluppato
una propria indagine attorno allo Stato sociale, avvalendosi di preziose
collaborazioni e con l’ambizione di aprire una discussione franca e aperta
anche in CGIL.
Infatti, è preoccupante il gap informativo che investe un
pezzo consistente e importante del mondo politico e sindacale sulla materia.
Prima ancora di assumere una posizione definitiva sullo Stato
sociale e in particolare sulla previdenza, occorre una seria analisi delle
informazioni disponibili.
Ascolto sempre con molta attenzione le critiche e i
suggerimenti dei compagni e delle compagne che sollecitano una posizione chiara
sui temi che interessano la “riproduzione” e il diritto alla assicurazione
per chi ha contribuito allo sviluppo economico del Paese, ma non sono convinto
che l’assunzione di una posizione definitiva e forte possa modificare il
profilo e il target della discussione.
In un seminario organizzato da “Alternativa Sindacale” e
in un convegno della Camera di lavoro di Brescia ho manifestato tutte le mie
perplessità sulla riforma della previdenza e sull’utilizzo del TFR per
alimentare la previdenza integrativa, ma ho sempre avuto la netta percezione e
sensazione che ciò non fosse sufficiente.
L’utilizzo del trattamento di fine rapporto per alimentare
il reddito da pensione e la verifica del 2001 della riforma Dini sono
appuntamenti importanti che suggeriscono una forte consapevolezza e chiarezza di
intenti in termini politici e progettuali, ma prima ancora suggerisce una
discussione di merito che ci affranchi da facili stereotipi.
La verifica dell’equilibrio economico della riforma Dini è
un appuntamento che misura l’efficacia e la correttezza delle associazioni
sindacali e dei partiti, ma occorre evitare lo sviluppo di posizioni fondate sui
numeri (maggioranza e minoranza).
Prima di arrivare a questi importanti appuntamenti con dei
schieramenti contrapposti, e forse per evitare questo triste modo di fare
politica, occorre creare le condizioni ideali per sviluppare un dibattito di
merito capace di coinvolgere proprio tutti.
Se ciò non dovesse realizzarsi, non vorrei essere facile
profeta, l’esito finale della verifica della riforma Dini e del TFR sarà
scontato.
Sono convinto che sia possibile aprire una discussione di
merito e sono altrettanto convinto che sia possibile suggerire/introdurre dei
dubbi a chi ritiene non più rinviabile una riforma della previdenza (già
durissima per il mondo del lavoro prima ancora che per i pensionati) o l’utilizzo
del trattamento di fine rapporto come strumento finanziario.
Ho apprezzato il riferimento all’articolo 38 della
Costituzione proposto e suggerito dagli autori:
“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi
necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I
lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurarti i mezzi adeguati alle
loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto alla
educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo
articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
Il richiamo ai principi costituzionali, forse poco di moda in
questo periodo di riforme virtuali e/o referendarie -non dimentichiamo la
sentenza della Corte Costituzionale-” sono un atto nobile di memoria e
richiama tutti quanti a una “severità” di giudizio:
I principi e i diritti sanciti dalla Costituzione sono
intangibili.
Ho letto con piacevole sorpresa e leggerezza la parte
descrittiva della previdenza. È uno stile che apprezzo e ricorda molto lo
spirito della scuola di Barbiana di Don Milani.
Da cattolico e da “militante” della scuola popolare di
Don Milani non posso che essere “comprato” da questo linguaggio. Infatti, il
libro non è rivolto solo ai cosiddetti addetti ai lavori, ma è una sorta di
“glossario” che aiuta nella compressione della materia trattata.
Quindi un libro da leggere indipendentemente dalla
associazione e/o organizzazione di appartenenza.
Questo non mi impedisce di sollevare alcune riflessioni che
il libro tratta con forme e con toni forse insufficienti:
Penso alle dinamiche economiche del paese ed in particolare
al tasso di occupazione; penso ai vincoli economici del paese soprattutto in
materia di investimenti da e per l’estero; penso ai rischi inflazionistici
determinati dall’utilizzo del TFR in attività finanziarie; penso al recupero
delle teorie liberali e ai limiti del mercato che queste teorie suggerivano.
Relativamente alle dinamiche economiche sviluppate nella
premessa del libro (lo Stato tra welfare e profitto), l’Ufficio Studi della
Cgil Lombardia ha adottato un modello interpretativo che produce una analisi
diversa della realtà rappresentata dall’amico Vasapollo, anche se nei
risultati è possibile trovare evidenti similitudini.
Non è questa la sede per valutare le affinità e le
diversità, ma un uno sforzo di rappresentazione della nostra idea appare
opportuna e forse chiarificatrice di alcune diversità.
Dai dati a nostra disposizione si constata una ridotta
capacità del paese ad agganciare la crescita economica mondiale. Ciò non è
vero solo in termini congiunturali, ma soprattutto in termini
storico-tendenziale.
Indipendentemente dalla politica adottata, bassi tassi di
interesse e bassa inflazione, il sistema economico nazionale mostra limiti non
giustificabili con le sole misure di politiche di contenimento della domanda
adottate dalla pubblica amministrazione.
Infatti, queste politiche sono intervenute su una ampio
numero di paesi della comunità ed hanno inciso sulla tenuta economica della
Unione Europea, ma con effetti diversi da paese a paese.
I paesi industrializzati e della Comunità Europea mostrano
tassi di crescita del prodotto interno lordo sistematicamente superiore ai tassi
di crescita evidenziati dall’Italia, a cagione di strutture economiche tutt’altro
che identiche.
Non è altrimenti giustificabile la forbice che separa la
crescita dei paesi industrializzati e della Unione europea rispetto all’Italia:
• Facendo cento il 1989 si osserva come la crescita del
prodotto interno lordo nei paesi industrializzati sale a 119 nel 1998 e a
117,7 per l’Unione Europea, mentre l’Italia registra il più basso livello
di crescita nel decennio considerato (graf. 1).
Soprattutto si registra un progressivo allargamento della
forbice negli anni più recenti (1995-1998). Ciò è estremamente grave:
• L’Italia si allontana sempre più dal circuito della
crescita europea e mondiale quanto più le condizioni macroeconomiche (bassi
tassi di interesse e di inflazione) si avvicinano alla media europea e dei
paesi industrializzati.
Le difficoltà della struttura economica nazionale trova una
ulteriore conferma nella tabella 1 (Prometeia, Prof. Angelo Tantazzi).
L’Italia registra tassi di crescita della domanda interna
tra il 1996 e il 1998 pari al 5,1%, cioè tassi di crescita largamente e
sostanzialmente maggiori rispetto a Francia e Germania, ma allo stesso tempo
manifesta tassi di crescita del Pil su base triennale largamente e
sostanzialmente più bassi rispetto ai Paesi appena considerati.
L’assioma crescita della domanda uguale a sviluppo del Pil,
sostenuta da quasi tutte le forze politiche, che siano di destra o di sinistra,
non regge per la realtà economica nazionale.
In particolare si può osservare come la crescita del Pil, e
per questa via creare nuova occupazione, è data dalla capacità di penetrazione
economica nei mercati esteri da parte di Francia e Germania.
L’Italia, secondo dati dell’ISAE - su base OCSE - ha
perso rilevanti quote di mercato del commercio mondiale. Se nel 1994 il made in
Italy occupava il 5% delle esportazioni mondiali, nel 1998 questa quota è scesa
al 4,7%, cioè una quota monetaria estremamente significativa per l’Italia
trattandosi di percentuali mondiali. Nell’arco dello stesso periodo la quota
del commercio mondiale di Francia e Germania si sono consolidate, passando
rispettivamente dal 5,4% al 5,7% e dal 9,6% al 9,9%.
L’aumento della domanda interna del Paese, magari
attraverso l’uso del TFR, che permetterebbe comunque di alleviare solo in
parte alla sperequazione fiscale, riducendo comunque il ruolo di intermediazione
sociale da parte del sindacato, non è una condizione per favorire la crescita
del Pil nazionale.
Paesi con tassi di crescita della domanda interna
significativamente più bassi di quelli dell’Italia hanno migliorato la
propria capacità di crescita del Pil, e per questa via mantenuto livelli
occupazionali, cosa molto diversa dai tassi di disoccupazione, attraverso il
miglioramento del tessuto produttivo e l’incremento delle proprie
esportazioni.
Tutto ciò è intervenuto in un regime di forte ribasso dei
tassi di interesse, che tuttavia non ha dato effetti positivi tranne che per il
settore delle costruzioni, in un regime di cambio nominale fisso e di cambio
reale che, pur apprezzandosi, è tuttora più vantaggioso che agli inizi del
decennio.
Questi comportamenti hanno sviluppato un paradosso e un
vincolo insostenibile (graf. 2):
• Solo bassi tassi di crescita del prodotto interno lordo
permettono un pareggio della bilancia commerciale, ovvero l’equilibrio
economico con l’estero si ottiene attraverso una compressione della crescita
economica.
Questa constatazione empirica interroga a fondo il nostro
sistema economico così come le politiche adottate per fare fronte alle
debolezze insiste nel sistema.
Il pareggio della bilancia dei pagamenti è stato sostenuto
attraverso alti tassi di interesse, svalutazioni competitive e un incremento del
debito con l’estero, sostenuto da una forte propensione al risparmio delle
famiglie italiane, scivolato dal primo posto a livello mondiale al 3° in quanto
costretto ad attingere ai propri risparmi per fare fronte alla riduzione dei
propri redditi.
La debolezza del sistema economico nazionale è manifesta se
osserviamo con attenzione i flussi internazionali degli investimenti diretti
esteri, in particolare quelli legati al settore della produzione industriali in
senso stretto.
Le informazioni disponibili (Banca d’Italia 1999) palesano
l’incapacità del sistema economico nazionale ad intercettare quote
significative degli investimenti diretti esteri mondiali.
Il saldo degli investimenti diretti dall’estero
(disinvestimento/investimento) è agli stessi livelli di dieci anni addietro,
mentre gli investimenti diretti all’estero nazionali hanno registrato un
significativo incremento, passando dai quattromila mld del 1989 ai ventimila mld
nel 1998.
Il grafico 2 mostra con efficacia l’incapacità dell’Italia
ad intercettare i flussi finanziari internazionali sul proprio territorio a
cagione di un profilo economico-finanziario-produttivo non equivalente alla
media dei paesi europei.
Più preoccupante è l’analisi relativa agli IDE dei
prodotti industriali nazionali ed internazionali.
Nonostante la curva erratica degli IDE dall’estero dei
prodotti industriali, si osserva un tendenziale processo di disinvestimento dall’Italia
e allo stesso tempo si osserva una forte incapacità a penetrare i mercati
stranieri da parte degli investimenti diretti all’estero dall’Italia, che
sono ormai al livello del 1991.
L’Italia ha perso nel corso degli anni capacità sistemiche
in materia industriale e sviluppato attività “finanziarie” (comunque di
gran lunga inferiore alla media comunitaria e dei paesi OCSE) incapace di
compensare la perdita di posizioni nell’attività manifatturiera.
Tale andamento è lo sviluppo di politiche industriali ed
economiche tese a favorire dimensioni produttive e tecnologiche troppo distanti
dagli interessi e dalle necessità dei flussi internazionali (forte presenza di
piccole imprese sul territorio italiano); specularmente mostrano l’incapacità
e l’impossibilità a sviluppare politiche di investimento all’estero da
parte di unità produttive nazionali addizionali e non sostitutive delle
attività presenti sul territorio nazionale.
E’ dunque necessario costruire un ambiente
economico-manifatturiero-tecnologico capace di traguardare gli investimenti
diretti dall’estero in tema di know how al fine di affrancasi da una
competizione fondata sulla competitività di costo e su tassi di produttività
estremamente superiori alla media dei paesi OCSE.
Per questa via è anche possibile intercettare parte dei
capitali internazionali da destinare allo sviluppo di nuove attività produttive
sul territorio nazionale (graf. 3 e 4).
Sempre in tema di investimenti diretti da e per l’Italia
nel comparto manifatturiero, si osserva un forte ridimensionamento degli IDE
nazionali per l’estero nelle aree industrializzate. Se questo fenomeno è
osservato dal lato degli addetti addizionali attribuiti al saldo tra nuove
iniziative e dismissioni si nota, addirittura, un significativo arretramento
nelle aree industrializzate.
L’ultimo rapporto del CNEL “Italia multinazionale 1998”
documenta con rara efficacia la ritirata delle imprese italiane dalle aree
appena considerate:
“.......la forte contrazione delle iniziative in Europa
occidentale e in nord America appare il sintomo di una ridotta capacità di
crescita dell’industria italiana sui grandi mercati oligopolistici dell’occidente,
ove i vantaggi competitivi risiedono principalmente nello sviluppo e nell’uso
di tecnologie e tecniche manageriali avanzate”.
Ciò trova conferma nei dati relativi alla distribuzione per macro-settori:
• tradizionali;
• scala;
• specialistico;
• scince based.
I settori specialistici e scince based si attestano su quote
particolarmente modeste sul complesso degli investimenti diretti all’estero
dell’Italia, rispettivamente 10,1% e 9,1%.
Si conferma, quindi, il modesto profilo dei settori
specialistici e scince based, in particolare nell’informatica, nell’elettronica,
nelle Tlc, nella farmaceutica e nella chimica fine.
Dal lato degli IDE dall’estero è rilevante osservare come
l’aumento della taglia dimensionale delle partecipazioni acquisite sia da
collegarsi, nella sua quasi totalità, al processo di privatizzazione e
dismissione delle partecipazioni statali.
Il ridimensionamento degli IDE in entrata verificatosi nell’ultimo
anno, ovvero con l’esaurirsi delle grandi privatizzazioni, è in gran parte
attribuibile alla scarsa dotazione di assets competitivi presenti nel Paese.
Esiste, quindi, una forte preoccupazione e rischio:
l’Italia corre il serio pericolo di rimanere esclusa dal
circuito internazionale dei grandi investimenti internazionali, con particolare
riferimento ai settori scince based.
A tal fine si possono immaginare iniziative legislative,
soprattutto se queste sono tese a richiamare capacità occupazionale addizionale
nei settori H-T; settori che difficilmente devono misurarsi con il costo del
lavoro, ma piuttosto sulla qualità delle maestranze e sulla qualità delle
infrastrutture presenti nell’area interessata dall’investimento (tab. 2).
Indagati alcuni elementi macroeconomici dell’Italia,
occorre comprendere le peculiarità del sistema produttivo nazionale.
In particolare appare opportuno precisare la relazione
investimenti e forza lavoro, assieme al tasso di produttività totale e del
lavoro stesso.
L’analisi dei dati raccolti suggerisce un intervento “importante”
sul tessuto produttivo.
Infatti, indipendentemente dal tentativo di parte governativa
di abbassare il costo del lavoro, sul quale appare opportuno un approfondimento
serio, si impone l’esigenza di migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’apparato
produttivo, nella prospettiva di dinamiche crescenti dei costi di produzione e
nella ipotesi ed esigenza di far fronte a una concorrenza tendente ad esprimersi
sempre meno in termini di puro prezzo:
• In realtà sembra delinearsi un binomio
prezzo-qualità.
L’Italia è sempre riuscita ad aumentare la propria
produttività attraverso una sistematica riduzione dei fattori di produzione.
Infatti, l’intensità dei fattori di produzione per unità di prodotto si è
sistematicamente compressa attraverso tre fasi così riassumibili:
• Fordismo ed economia di scala;
• Riorganizzazione dei processi produttivi attraverso una
deverticalizzazione;
• Introduzione della meccanizzazione flessibile.
L’impossibilità a comprimere ulteriormente il costo dei
fattori di produzione, pena una caduta della domanda aggregata, e l’impossibilità
a intervenire in termini di tassi di interesse e svalutazioni competitive,
suggerisce lo sviluppo di prodotti tecnologicamente avanzati da adattarsi alla
vasta gamma dell’offerta tecnologica, ad una domanda progressivamente più
esigente e sofisticata, sempre più tesa alla sostituzione dei beni esistenti.
Su questo ultimo oggetto - la presenza di una domanda di
sostituzione piuttosto che una domanda che cerca di soddisfare bisogni crescenti
e addizionali - occorre fare una precisazione.
In un articolo apparso sul quotidiano “Italia oggi” del
14.10.94, Stefano Zamagni, preside della Facoltà di Economia dell’Università
di Bologna, afferma:
“Finisce l’era del consumismo. E con questo evento
scioccamente dovranno fare i conti imprenditori e lavoratori. Così, per
esempio, affrontare il problema dell’occupazione con i metodi tradizionali non
serve quasi a nulla (...) Nel dopo - guerra, in Europa, c’era bisogno di
tutto, perciò vi é stata una prolungata corsa ai consumi, con la produzione
che per soddisfare tanta domanda crescente doveva spingere al massimo e
realizzare performance straordinarie. Adesso l’era dei bisogni é finita e la
gente si sta stancando di consumare per consumare. Quindi entriamo in una fase
in cui l’aumento dei consumi sarà ridotto e quindi anche la produzione non
sarà necessitata di crescere a ritmi forti”.
Stefano Zamagni ha colto nel segno. Non solo é difficile
credere ad un aumento dei consumi, ma l’obsolescenza competitiva (i prodotti
sul mercato non sono sostituiti per “esaurimento” tecnologico, ma dall’introduzione
di un prodotto di maggior capacità/possibilità) praticata dalle imprese non
può essere il volano di una nuova occupazione, in quanto la domanda (consumi)
oggi ha strutturalmente un saggio di crescita negativo.
Lo scenario descritto suggerisce lo sviluppo di politiche
tese ad aumentare il “valore” dell’output, e per questa via abbassare l’incidenza
del costo del lavoro e degli altri fattori di produzione.
A questo proposito può essere particolarmente utile
riprendere un articolo del dottore Leonello Tronti dell’ISTAT (il sole 24 del
3 agosto 1999).
L’intenzione del dirigente dell’ISTAT era quella di
osservare “la dinamica della formazione di capitale fisso per persona nelle
forze di lavoro al fine di valutare la velocità con la quale si accumulano, nel
sistema produttivo nazionale, gli investimenti fissi lordi per persona che opera
sul mercato della lavoro.
I dati disponibili mostrano la bassa e decrescente
predisposizione del sistema produttivo nazionale, nel lungo periodo, all’investimento
e all’accumulazione di capitale fisso, ma allo stesso tempo capace di
implementare uno sviluppo “risparmiatore” di fattori di produzione (lavoro e
mezzi di produzione) e sottocapitalizzato.
Ciò ha determinato una struttura imprenditoriale fortemente
caratterizzata da piccole e piccolissime imprese, imprese familiari, lavoro
autonomo, distretti industriali largamente superiore alla media OCSE (tab. 3).
Nonostante la bassa propensione agli investimenti l’Italia
mantiene un “miracoloso”, è proprio il caso di parlare di miracolo,
vantaggio nella dinamica della produttività del capitale e del lavoro.
Le motivazioni adottate dal Dottor Tronti sono
sostanzialmente condivisibili e aprono una riflessione profonda sulla capacità
di creare occupazione e attività produttiva con target e profili superiori, in
quanto:
• L’incapacità a traguardare i nuovi target produttivi
può essere attribuito a effetti di CATCHING-UP, ovvero l’introduzione di
innovazioni produttive ed organizzative realizzate e sperimentate all’estero;
• Alla capacità italiana ad individuare e produrre beni
tradizionali di qualità.
Questo modello comincia a mostrare i propri limiti a cagione
della bassa propensione all’investimento intervenuto tra il 1970-1997, con
preoccupante caduta tra il 1990 e il 1997:
Aumentare i tassi di produttività con bassi tassi di
crescita occupazionale (negativi tra il 1990/97) assieme ad una crescita del
tasso di disoccupazione medio annuo di tre punti percentuali sopra la media dei
paesi G7, crea uno sviluppo incapace di traguardare profili superiori della
crescita del prodotto interno lordo, di creare occupazione aggiuntiva nei
settori ad alta tecnologia (che importiamo dall’estero, favorendo, per questa
via, la crescita economica ed occupazionale dei Paesi esteri).
Non è allora un caso che i tassi di partecipazione della
forza lavoro sia storicamente inferiore alla media Europea e dei paesi OCSE,
senza che vi sia un qualsiasi segnale di contro tendenza.
Il raggiungimento di tassi di occupazione almeno prossimi
alla media comunitaria, in un arco di tempo ragionevole, determinerebbe,
inoltre, enormi sollievi per le casse dell’INPS e per tutto il sistema
previdenziale. Occorre infatti ricordare che le stime di crescita della spesa
previdenziale sul Pil formulate nella riforma Dini e ultimamente dalla
Ragioneria Generale dello Stato si fondano su tassi di occupazione pari agli
attuali livelli, cioè livelli insostenibili e non auspicabili per un Paese
industrializzato.
Occorre una azione innovatrice in materia di welfare,
soprattutto oggi che sono venuti meno tutta una serie di presupposti che lo
sostenevano, ma allo stesso tempo occorre coniugare questa azione riformatrice
dello Stato sociale allo sviluppo economico.
Se questo non dovesse accadere, le risorse da destinare allo
sviluppo e al miglioramento delle prestazioni sociali sarebbe destinata a
fallire per mancanza di risorse. La crescita del Pil sarebbe comunque
insufficiente a garantire qualsiasi livello minimo di welfare.
Ma su un altro aspetto del dibattito politico occorre
calibrare la nostra attenzione:
La contrazione del ruolo di intermediazione dello Stato.
Infatti, oggi non è in gioco la previdenza, molto
probabilmente è solo uno strumento e/o oggetto, ma il ruolo di intermediazione
della PA nella distribuzione del reddito prodotto annualmente dalla
collettività, cioè per ottenere gli stessi servizi resi dallo Stato occorre
che una parte consistente del risparmio delle famiglie sia convogliatoverso
strumenti integrativi privati.
In questo modo le spese fisse dello Stato diventano variabili
e più onerose:
Variabili in quanto è il mercato e la capacità di rinuncia
di parte del reddito di un singolo cittadino a determinare l’integrazione
assicurativa;
Onerosa perché lo Stato deve rinunciare a parte delle le
proprie entrate per sostenere il welfare integrativo, e allo spesso tempo deve
mantenere le prestazioni pregresse di chi ha acquisito dei diritti e di chi non
ha una sufficiente capacità di risparmio per provvedere ad una assistenza
integrativa.
Non è in discussione come fare aumentare il reddito prodotto
dal paese per alimentare lo Stato sociale, ma la compressione dello Stato nella
economia e una diversa distribuzione della ricchezza prodotta annualmente.
È del tutto evidente che il ruolo dello Stato in materia di
Stato sociale e di presenza economica nell’economia del paese deve essere
riconsiderato e calibrato alle nuove necessità, ma occorre attenzione e misura
nelle proposte di riforma.
Infatti, è del tutto ingiustificato il vincolo
macroeconomico (Pil/previdenza) introdotto dalla riforma Dini alla luce del
progressivo invecchiamento della popolazione.
Il risultato finale è una contrazione delle erogazioni e un
progressivo indebolimento economico di un prezzo consistente della popolazione.
In realtà occorre una riqualificazione e una
riconfigurazione dei presupposti di imposta che sostengono il finanziamento del
welfare, magari adottando come modello la nuova imposta regionale IRAP.
Sento la difficoltà e la costrizione del dibattito relativo
alla previdenza che adotta come criterio di valutazione il solo equilibrio
economico e che ci costringe a prendere “posizione”: lo Stato Sociale è da
sempre alla ricerca di equilibri superiori e alla ricerca di forme e modi per
soddisfare i diritti e i bisogni che la società ritiene non più rinviabili.
Più che sui vincoli economici, credo sia opportuno aprire
una discussione sulle forme di finanziamento dello Stato Sociale.
E’ invero strano che lo stato sociale debba essere
finanziato (quasi integralmente) attraverso un bene “scarso” come il lavoro
piuttosto che dalla fiscalità generale.
Considerata la trasformazione del mondo del lavoro e la
difficoltà che molti dei nuovi assunti avranno a maturare una vita contributiva
sufficiente per garantirsi una assicurazione, è possibile immaginare un
intervento sulla fiscalità generale per sostenere queste figure deboli del
mercato del lavoro?
In questo senso sono utili tutti i contributi che servono a
fare chiarezza in tema di previdenza e stato sociale, ma trovo altrettanto utile
lo sviluppo di un laboratorio capace di implementare un progetto capace di
intercettare i bisogni emergenti della società e capace di riconoscere i limiti
del mercato.
Chiunque si misuri con i temi trattati dal libro “Le
pensioni a fondo” può offrire un contributo prezioso alla comprensione dei
temi legati allo Stato sociale, ma chi adotterà rigore e consapevolezza
riceverà la mia critica e la mia severità.
Nel libro sono suggerite una serie di interventi, ma occorre
attenzione e ponderatezza. Sicuramente alcune proposte sono anche suggestive, ma
la debolezza del nostro sistema economico mi inducono a credere che sia molto
più urgente riguardare il nostro sistema imprenditoriale.
In conclusione si può parlare di una evidente difficoltà
delle forze sindacali e politiche a trovare una soluzione originale ai problemi
legati al welfare, ma questo non può impedirci di individuare i vincoli delle
proposte avanzate dai nostri interlocutori.
Gli stessi vincoli economici suggeriscono dei provvedimenti
“atipici” da contrattare con l’Unione europea in tema di TFR e Fondi
Pensione.
Infatti, si deve immaginare per i fondi pensione e
soprattutto per i gestori degli stessi uno statuto sul modello delle fondazioni
con dei vincoli statutari, oppure a delle obbligazioni emesse dal Ministero del
tesoro tese ad intercettare il TFR con una rivalutazione pari a quella offerta
dal mercato, da destinare a consistenti investimenti infrastrutturali sul
territorio nazionale, di cui l’Italia ha urgente bisogno, occorre un Patto
per lo sviluppo, per l’ammodernamento delle infrastrutture del paese, che
aiuterebbe il bisogno di occupazione, cioè un patto tra lavoratori e Stato.
Una cosa è certa:
i vincoli economici, la necessità di trovare nuove forme
integrative all’attuale stato sociale, così come la necessità di soddisfare
i bisogni emersi con la trasformazione economica e sociale del paese nel recente
passato, rappresentano una sfida senza precedenti per il sindacato e per la
sinistra nel suo insieme, ma occorre attenzione a non proporre un rimedio che
può essere peggiore del male che si intende curare.
PS:
Vecchioni in una sua canzone diceva:
Forse non lo sai ma anche questo è amore.