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“Le pensioni a fondo“. L’agonia dello Stato

Roberto Romano

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Il libro di Vasapollo e Martufi “Le pensioni a fondo” edito dai tipi della Media Print ha una caratteristica molto interessante: la puntualità politica. Infatti, il dibattito sviluppatosi in questi ultimi mesi attorno alla previdenza ha monopolizzato molta della attenzione di istituti di ricerca, centri studi e opinionisti.

Purtroppo l’informazione diffusa e la precisione del dibattito mostrata dai media non è stata pari alla sua intensità.

Spesso si sono viste performance televisive non solo deludenti, ma molto prossime al ridicolo.

E dire che il tema trattato dall’amico Vasapollo e dalla amica Martufi - la previdenza- non si presta, o non dovrebbe prestarsi, a facili approssimazioni.

Chi scrive ha modelli interpretativi e luoghi di elaborazione non coincidenti con Vasapollo e Martufi, ma il contributo offerto è una elaborazione fondata su documentazione certa, attendibile e manifesta un rigore metodologico apprezzabile e un po’ abbandonato dal mondo accademico e della ricerca economica.

L’ufficio studi della CGIL Lombardia da tempo ha sviluppato una propria indagine attorno allo Stato sociale, avvalendosi di preziose collaborazioni e con l’ambizione di aprire una discussione franca e aperta anche in CGIL.

Infatti, è preoccupante il gap informativo che investe un pezzo consistente e importante del mondo politico e sindacale sulla materia.

Prima ancora di assumere una posizione definitiva sullo Stato sociale e in particolare sulla previdenza, occorre una seria analisi delle informazioni disponibili.

Ascolto sempre con molta attenzione le critiche e i suggerimenti dei compagni e delle compagne che sollecitano una posizione chiara sui temi che interessano la “riproduzione” e il diritto alla assicurazione per chi ha contribuito allo sviluppo economico del Paese, ma non sono convinto che l’assunzione di una posizione definitiva e forte possa modificare il profilo e il target della discussione.

In un seminario organizzato da “Alternativa Sindacale” e in un convegno della Camera di lavoro di Brescia ho manifestato tutte le mie perplessità sulla riforma della previdenza e sull’utilizzo del TFR per alimentare la previdenza integrativa, ma ho sempre avuto la netta percezione e sensazione che ciò non fosse sufficiente.

L’utilizzo del trattamento di fine rapporto per alimentare il reddito da pensione e la verifica del 2001 della riforma Dini sono appuntamenti importanti che suggeriscono una forte consapevolezza e chiarezza di intenti in termini politici e progettuali, ma prima ancora suggerisce una discussione di merito che ci affranchi da facili stereotipi.

La verifica dell’equilibrio economico della riforma Dini è un appuntamento che misura l’efficacia e la correttezza delle associazioni sindacali e dei partiti, ma occorre evitare lo sviluppo di posizioni fondate sui numeri (maggioranza e minoranza).

Prima di arrivare a questi importanti appuntamenti con dei schieramenti contrapposti, e forse per evitare questo triste modo di fare politica, occorre creare le condizioni ideali per sviluppare un dibattito di merito capace di coinvolgere proprio tutti.

Se ciò non dovesse realizzarsi, non vorrei essere facile profeta, l’esito finale della verifica della riforma Dini e del TFR sarà scontato.

Sono convinto che sia possibile aprire una discussione di merito e sono altrettanto convinto che sia possibile suggerire/introdurre dei dubbi a chi ritiene non più rinviabile una riforma della previdenza (già durissima per il mondo del lavoro prima ancora che per i pensionati) o l’utilizzo del trattamento di fine rapporto come strumento finanziario.

Ho apprezzato il riferimento all’articolo 38 della Costituzione proposto e suggerito dagli autori:

“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurarti i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto alla educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.

Il richiamo ai principi costituzionali, forse poco di moda in questo periodo di riforme virtuali e/o referendarie -non dimentichiamo la sentenza della Corte Costituzionale-” sono un atto nobile di memoria e richiama tutti quanti a una “severità” di giudizio:

I principi e i diritti sanciti dalla Costituzione sono intangibili.

Ho letto con piacevole sorpresa e leggerezza la parte descrittiva della previdenza. È uno stile che apprezzo e ricorda molto lo spirito della scuola di Barbiana di Don Milani.

Da cattolico e da “militante” della scuola popolare di Don Milani non posso che essere “comprato” da questo linguaggio. Infatti, il libro non è rivolto solo ai cosiddetti addetti ai lavori, ma è una sorta di “glossario” che aiuta nella compressione della materia trattata.

Quindi un libro da leggere indipendentemente dalla associazione e/o organizzazione di appartenenza.

Questo non mi impedisce di sollevare alcune riflessioni che il libro tratta con forme e con toni forse insufficienti:

Penso alle dinamiche economiche del paese ed in particolare al tasso di occupazione; penso ai vincoli economici del paese soprattutto in materia di investimenti da e per l’estero; penso ai rischi inflazionistici determinati dall’utilizzo del TFR in attività finanziarie; penso al recupero delle teorie liberali e ai limiti del mercato che queste teorie suggerivano.

Relativamente alle dinamiche economiche sviluppate nella premessa del libro (lo Stato tra welfare e profitto), l’Ufficio Studi della Cgil Lombardia ha adottato un modello interpretativo che produce una analisi diversa della realtà rappresentata dall’amico Vasapollo, anche se nei risultati è possibile trovare evidenti similitudini.

Non è questa la sede per valutare le affinità e le diversità, ma un uno sforzo di rappresentazione della nostra idea appare opportuna e forse chiarificatrice di alcune diversità.

Dai dati a nostra disposizione si constata una ridotta capacità del paese ad agganciare la crescita economica mondiale. Ciò non è vero solo in termini congiunturali, ma soprattutto in termini storico-tendenziale.

Indipendentemente dalla politica adottata, bassi tassi di interesse e bassa inflazione, il sistema economico nazionale mostra limiti non giustificabili con le sole misure di politiche di contenimento della domanda adottate dalla pubblica amministrazione.

Infatti, queste politiche sono intervenute su una ampio numero di paesi della comunità ed hanno inciso sulla tenuta economica della Unione Europea, ma con effetti diversi da paese a paese.

I paesi industrializzati e della Comunità Europea mostrano tassi di crescita del prodotto interno lordo sistematicamente superiore ai tassi di crescita evidenziati dall’Italia, a cagione di strutture economiche tutt’altro che identiche.

Non è altrimenti giustificabile la forbice che separa la crescita dei paesi industrializzati e della Unione europea rispetto all’Italia:

• Facendo cento il 1989 si osserva come la crescita del prodotto interno lordo nei paesi industrializzati sale a 119 nel 1998 e a 117,7 per l’Unione Europea, mentre l’Italia registra il più basso livello di crescita nel decennio considerato (graf. 1).

Soprattutto si registra un progressivo allargamento della forbice negli anni più recenti (1995-1998). Ciò è estremamente grave:

• L’Italia si allontana sempre più dal circuito della crescita europea e mondiale quanto più le condizioni macroeconomiche (bassi tassi di interesse e di inflazione) si avvicinano alla media europea e dei paesi industrializzati.

Le difficoltà della struttura economica nazionale trova una ulteriore conferma nella tabella 1 (Prometeia, Prof. Angelo Tantazzi).

L’Italia registra tassi di crescita della domanda interna tra il 1996 e il 1998 pari al 5,1%, cioè tassi di crescita largamente e sostanzialmente maggiori rispetto a Francia e Germania, ma allo stesso tempo manifesta tassi di crescita del Pil su base triennale largamente e sostanzialmente più bassi rispetto ai Paesi appena considerati.

L’assioma crescita della domanda uguale a sviluppo del Pil, sostenuta da quasi tutte le forze politiche, che siano di destra o di sinistra, non regge per la realtà economica nazionale.

In particolare si può osservare come la crescita del Pil, e per questa via creare nuova occupazione, è data dalla capacità di penetrazione economica nei mercati esteri da parte di Francia e Germania.

L’Italia, secondo dati dell’ISAE - su base OCSE - ha perso rilevanti quote di mercato del commercio mondiale. Se nel 1994 il made in Italy occupava il 5% delle esportazioni mondiali, nel 1998 questa quota è scesa al 4,7%, cioè una quota monetaria estremamente significativa per l’Italia trattandosi di percentuali mondiali. Nell’arco dello stesso periodo la quota del commercio mondiale di Francia e Germania si sono consolidate, passando rispettivamente dal 5,4% al 5,7% e dal 9,6% al 9,9%.

L’aumento della domanda interna del Paese, magari attraverso l’uso del TFR, che permetterebbe comunque di alleviare solo in parte alla sperequazione fiscale, riducendo comunque il ruolo di intermediazione sociale da parte del sindacato, non è una condizione per favorire la crescita del Pil nazionale.

Paesi con tassi di crescita della domanda interna significativamente più bassi di quelli dell’Italia hanno migliorato la propria capacità di crescita del Pil, e per questa via mantenuto livelli occupazionali, cosa molto diversa dai tassi di disoccupazione, attraverso il miglioramento del tessuto produttivo e l’incremento delle proprie esportazioni.

Tutto ciò è intervenuto in un regime di forte ribasso dei tassi di interesse, che tuttavia non ha dato effetti positivi tranne che per il settore delle costruzioni, in un regime di cambio nominale fisso e di cambio reale che, pur apprezzandosi, è tuttora più vantaggioso che agli inizi del decennio.

Questi comportamenti hanno sviluppato un paradosso e un vincolo insostenibile (graf. 2):

• Solo bassi tassi di crescita del prodotto interno lordo permettono un pareggio della bilancia commerciale, ovvero l’equilibrio economico con l’estero si ottiene attraverso una compressione della crescita economica.

Questa constatazione empirica interroga a fondo il nostro sistema economico così come le politiche adottate per fare fronte alle debolezze insiste nel sistema.

Il pareggio della bilancia dei pagamenti è stato sostenuto attraverso alti tassi di interesse, svalutazioni competitive e un incremento del debito con l’estero, sostenuto da una forte propensione al risparmio delle famiglie italiane, scivolato dal primo posto a livello mondiale al 3° in quanto costretto ad attingere ai propri risparmi per fare fronte alla riduzione dei propri redditi.

La debolezza del sistema economico nazionale è manifesta se osserviamo con attenzione i flussi internazionali degli investimenti diretti esteri, in particolare quelli legati al settore della produzione industriali in senso stretto.

Le informazioni disponibili (Banca d’Italia 1999) palesano l’incapacità del sistema economico nazionale ad intercettare quote significative degli investimenti diretti esteri mondiali.

Il saldo degli investimenti diretti dall’estero (disinvestimento/investimento) è agli stessi livelli di dieci anni addietro, mentre gli investimenti diretti all’estero nazionali hanno registrato un significativo incremento, passando dai quattromila mld del 1989 ai ventimila mld nel 1998.

Il grafico 2 mostra con efficacia l’incapacità dell’Italia ad intercettare i flussi finanziari internazionali sul proprio territorio a cagione di un profilo economico-finanziario-produttivo non equivalente alla media dei paesi europei.

Più preoccupante è l’analisi relativa agli IDE dei prodotti industriali nazionali ed internazionali.

Nonostante la curva erratica degli IDE dall’estero dei prodotti industriali, si osserva un tendenziale processo di disinvestimento dall’Italia e allo stesso tempo si osserva una forte incapacità a penetrare i mercati stranieri da parte degli investimenti diretti all’estero dall’Italia, che sono ormai al livello del 1991.

L’Italia ha perso nel corso degli anni capacità sistemiche in materia industriale e sviluppato attività “finanziarie” (comunque di gran lunga inferiore alla media comunitaria e dei paesi OCSE) incapace di compensare la perdita di posizioni nell’attività manifatturiera.

Tale andamento è lo sviluppo di politiche industriali ed economiche tese a favorire dimensioni produttive e tecnologiche troppo distanti dagli interessi e dalle necessità dei flussi internazionali (forte presenza di piccole imprese sul territorio italiano); specularmente mostrano l’incapacità e l’impossibilità a sviluppare politiche di investimento all’estero da parte di unità produttive nazionali addizionali e non sostitutive delle attività presenti sul territorio nazionale.

E’ dunque necessario costruire un ambiente economico-manifatturiero-tecnologico capace di traguardare gli investimenti diretti dall’estero in tema di know how al fine di affrancasi da una competizione fondata sulla competitività di costo e su tassi di produttività estremamente superiori alla media dei paesi OCSE.

Per questa via è anche possibile intercettare parte dei capitali internazionali da destinare allo sviluppo di nuove attività produttive sul territorio nazionale (graf. 3 e 4).

Sempre in tema di investimenti diretti da e per l’Italia nel comparto manifatturiero, si osserva un forte ridimensionamento degli IDE nazionali per l’estero nelle aree industrializzate. Se questo fenomeno è osservato dal lato degli addetti addizionali attribuiti al saldo tra nuove iniziative e dismissioni si nota, addirittura, un significativo arretramento nelle aree industrializzate.

L’ultimo rapporto del CNEL “Italia multinazionale 1998” documenta con rara efficacia la ritirata delle imprese italiane dalle aree appena considerate:

“.......la forte contrazione delle iniziative in Europa occidentale e in nord America appare il sintomo di una ridotta capacità di crescita dell’industria italiana sui grandi mercati oligopolistici dell’occidente, ove i vantaggi competitivi risiedono principalmente nello sviluppo e nell’uso di tecnologie e tecniche manageriali avanzate”.

Ciò trova conferma nei dati relativi alla distribuzione per macro-settori:

• tradizionali;

• scala;

• specialistico;

• scince based.

I settori specialistici e scince based si attestano su quote particolarmente modeste sul complesso degli investimenti diretti all’estero dell’Italia, rispettivamente 10,1% e 9,1%.

Si conferma, quindi, il modesto profilo dei settori specialistici e scince based, in particolare nell’informatica, nell’elettronica, nelle Tlc, nella farmaceutica e nella chimica fine.

Dal lato degli IDE dall’estero è rilevante osservare come l’aumento della taglia dimensionale delle partecipazioni acquisite sia da collegarsi, nella sua quasi totalità, al processo di privatizzazione e dismissione delle partecipazioni statali.

Il ridimensionamento degli IDE in entrata verificatosi nell’ultimo anno, ovvero con l’esaurirsi delle grandi privatizzazioni, è in gran parte attribuibile alla scarsa dotazione di assets competitivi presenti nel Paese.

Esiste, quindi, una forte preoccupazione e rischio:

l’Italia corre il serio pericolo di rimanere esclusa dal circuito internazionale dei grandi investimenti internazionali, con particolare riferimento ai settori scince based.

A tal fine si possono immaginare iniziative legislative, soprattutto se queste sono tese a richiamare capacità occupazionale addizionale nei settori H-T; settori che difficilmente devono misurarsi con il costo del lavoro, ma piuttosto sulla qualità delle maestranze e sulla qualità delle infrastrutture presenti nell’area interessata dall’investimento (tab. 2).

Indagati alcuni elementi macroeconomici dell’Italia, occorre comprendere le peculiarità del sistema produttivo nazionale.

In particolare appare opportuno precisare la relazione investimenti e forza lavoro, assieme al tasso di produttività totale e del lavoro stesso.

L’analisi dei dati raccolti suggerisce un intervento “importante” sul tessuto produttivo.

Infatti, indipendentemente dal tentativo di parte governativa di abbassare il costo del lavoro, sul quale appare opportuno un approfondimento serio, si impone l’esigenza di migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’apparato produttivo, nella prospettiva di dinamiche crescenti dei costi di produzione e nella ipotesi ed esigenza di far fronte a una concorrenza tendente ad esprimersi sempre meno in termini di puro prezzo:

• In realtà sembra delinearsi un binomio prezzo-qualità.

 

 

L’Italia è sempre riuscita ad aumentare la propria produttività attraverso una sistematica riduzione dei fattori di produzione. Infatti, l’intensità dei fattori di produzione per unità di prodotto si è sistematicamente compressa attraverso tre fasi così riassumibili:

• Fordismo ed economia di scala;

• Riorganizzazione dei processi produttivi attraverso una deverticalizzazione;

• Introduzione della meccanizzazione flessibile.

L’impossibilità a comprimere ulteriormente il costo dei fattori di produzione, pena una caduta della domanda aggregata, e l’impossibilità a intervenire in termini di tassi di interesse e svalutazioni competitive, suggerisce lo sviluppo di prodotti tecnologicamente avanzati da adattarsi alla vasta gamma dell’offerta tecnologica, ad una domanda progressivamente più esigente e sofisticata, sempre più tesa alla sostituzione dei beni esistenti.

Su questo ultimo oggetto - la presenza di una domanda di sostituzione piuttosto che una domanda che cerca di soddisfare bisogni crescenti e addizionali - occorre fare una precisazione.

In un articolo apparso sul quotidiano “Italia oggi” del 14.10.94, Stefano Zamagni, preside della Facoltà di Economia dell’Università di Bologna, afferma:

“Finisce l’era del consumismo. E con questo evento scioccamente dovranno fare i conti imprenditori e lavoratori. Così, per esempio, affrontare il problema dell’occupazione con i metodi tradizionali non serve quasi a nulla (...) Nel dopo - guerra, in Europa, c’era bisogno di tutto, perciò vi é stata una prolungata corsa ai consumi, con la produzione che per soddisfare tanta domanda crescente doveva spingere al massimo e realizzare performance straordinarie. Adesso l’era dei bisogni é finita e la gente si sta stancando di consumare per consumare. Quindi entriamo in una fase in cui l’aumento dei consumi sarà ridotto e quindi anche la produzione non sarà necessitata di crescere a ritmi forti”.

Stefano Zamagni ha colto nel segno. Non solo é difficile credere ad un aumento dei consumi, ma l’obsolescenza competitiva (i prodotti sul mercato non sono sostituiti per “esaurimento” tecnologico, ma dall’introduzione di un prodotto di maggior capacità/possibilità) praticata dalle imprese non può essere il volano di una nuova occupazione, in quanto la domanda (consumi) oggi ha strutturalmente un saggio di crescita negativo.

Lo scenario descritto suggerisce lo sviluppo di politiche tese ad aumentare il “valore” dell’output, e per questa via abbassare l’incidenza del costo del lavoro e degli altri fattori di produzione.

A questo proposito può essere particolarmente utile riprendere un articolo del dottore Leonello Tronti dell’ISTAT (il sole 24 del 3 agosto 1999).

L’intenzione del dirigente dell’ISTAT era quella di osservare “la dinamica della formazione di capitale fisso per persona nelle forze di lavoro al fine di valutare la velocità con la quale si accumulano, nel sistema produttivo nazionale, gli investimenti fissi lordi per persona che opera sul mercato della lavoro.

I dati disponibili mostrano la bassa e decrescente predisposizione del sistema produttivo nazionale, nel lungo periodo, all’investimento e all’accumulazione di capitale fisso, ma allo stesso tempo capace di implementare uno sviluppo “risparmiatore” di fattori di produzione (lavoro e mezzi di produzione) e sottocapitalizzato.

Ciò ha determinato una struttura imprenditoriale fortemente caratterizzata da piccole e piccolissime imprese, imprese familiari, lavoro autonomo, distretti industriali largamente superiore alla media OCSE (tab. 3).

Nonostante la bassa propensione agli investimenti l’Italia mantiene un “miracoloso”, è proprio il caso di parlare di miracolo, vantaggio nella dinamica della produttività del capitale e del lavoro.

Le motivazioni adottate dal Dottor Tronti sono sostanzialmente condivisibili e aprono una riflessione profonda sulla capacità di creare occupazione e attività produttiva con target e profili superiori, in quanto:

• L’incapacità a traguardare i nuovi target produttivi può essere attribuito a effetti di CATCHING-UP, ovvero l’introduzione di innovazioni produttive ed organizzative realizzate e sperimentate all’estero;

• Alla capacità italiana ad individuare e produrre beni tradizionali di qualità.

Questo modello comincia a mostrare i propri limiti a cagione della bassa propensione all’investimento intervenuto tra il 1970-1997, con preoccupante caduta tra il 1990 e il 1997:

Aumentare i tassi di produttività con bassi tassi di crescita occupazionale (negativi tra il 1990/97) assieme ad una crescita del tasso di disoccupazione medio annuo di tre punti percentuali sopra la media dei paesi G7, crea uno sviluppo incapace di traguardare profili superiori della crescita del prodotto interno lordo, di creare occupazione aggiuntiva nei settori ad alta tecnologia (che importiamo dall’estero, favorendo, per questa via, la crescita economica ed occupazionale dei Paesi esteri).

Non è allora un caso che i tassi di partecipazione della forza lavoro sia storicamente inferiore alla media Europea e dei paesi OCSE, senza che vi sia un qualsiasi segnale di contro tendenza.

Il raggiungimento di tassi di occupazione almeno prossimi alla media comunitaria, in un arco di tempo ragionevole, determinerebbe, inoltre, enormi sollievi per le casse dell’INPS e per tutto il sistema previdenziale. Occorre infatti ricordare che le stime di crescita della spesa previdenziale sul Pil formulate nella riforma Dini e ultimamente dalla Ragioneria Generale dello Stato si fondano su tassi di occupazione pari agli attuali livelli, cioè livelli insostenibili e non auspicabili per un Paese industrializzato.

Occorre una azione innovatrice in materia di welfare, soprattutto oggi che sono venuti meno tutta una serie di presupposti che lo sostenevano, ma allo stesso tempo occorre coniugare questa azione riformatrice dello Stato sociale allo sviluppo economico.

Se questo non dovesse accadere, le risorse da destinare allo sviluppo e al miglioramento delle prestazioni sociali sarebbe destinata a fallire per mancanza di risorse. La crescita del Pil sarebbe comunque insufficiente a garantire qualsiasi livello minimo di welfare.

Ma su un altro aspetto del dibattito politico occorre calibrare la nostra attenzione:

La contrazione del ruolo di intermediazione dello Stato.

Infatti, oggi non è in gioco la previdenza, molto probabilmente è solo uno strumento e/o oggetto, ma il ruolo di intermediazione della PA nella distribuzione del reddito prodotto annualmente dalla collettività, cioè per ottenere gli stessi servizi resi dallo Stato occorre che una parte consistente del risparmio delle famiglie sia convogliatoverso strumenti integrativi privati.

In questo modo le spese fisse dello Stato diventano variabili e più onerose:

Variabili in quanto è il mercato e la capacità di rinuncia di parte del reddito di un singolo cittadino a determinare l’integrazione assicurativa;

Onerosa perché lo Stato deve rinunciare a parte delle le proprie entrate per sostenere il welfare integrativo, e allo spesso tempo deve mantenere le prestazioni pregresse di chi ha acquisito dei diritti e di chi non ha una sufficiente capacità di risparmio per provvedere ad una assistenza integrativa.

Non è in discussione come fare aumentare il reddito prodotto dal paese per alimentare lo Stato sociale, ma la compressione dello Stato nella economia e una diversa distribuzione della ricchezza prodotta annualmente.

È del tutto evidente che il ruolo dello Stato in materia di Stato sociale e di presenza economica nell’economia del paese deve essere riconsiderato e calibrato alle nuove necessità, ma occorre attenzione e misura nelle proposte di riforma.

Infatti, è del tutto ingiustificato il vincolo macroeconomico (Pil/previdenza) introdotto dalla riforma Dini alla luce del progressivo invecchiamento della popolazione.

Il risultato finale è una contrazione delle erogazioni e un progressivo indebolimento economico di un prezzo consistente della popolazione.

In realtà occorre una riqualificazione e una riconfigurazione dei presupposti di imposta che sostengono il finanziamento del welfare, magari adottando come modello la nuova imposta regionale IRAP.

Sento la difficoltà e la costrizione del dibattito relativo alla previdenza che adotta come criterio di valutazione il solo equilibrio economico e che ci costringe a prendere “posizione”: lo Stato Sociale è da sempre alla ricerca di equilibri superiori e alla ricerca di forme e modi per soddisfare i diritti e i bisogni che la società ritiene non più rinviabili.

Più che sui vincoli economici, credo sia opportuno aprire una discussione sulle forme di finanziamento dello Stato Sociale.

E’ invero strano che lo stato sociale debba essere finanziato (quasi integralmente) attraverso un bene “scarso” come il lavoro piuttosto che dalla fiscalità generale.

Considerata la trasformazione del mondo del lavoro e la difficoltà che molti dei nuovi assunti avranno a maturare una vita contributiva sufficiente per garantirsi una assicurazione, è possibile immaginare un intervento sulla fiscalità generale per sostenere queste figure deboli del mercato del lavoro?

In questo senso sono utili tutti i contributi che servono a fare chiarezza in tema di previdenza e stato sociale, ma trovo altrettanto utile lo sviluppo di un laboratorio capace di implementare un progetto capace di intercettare i bisogni emergenti della società e capace di riconoscere i limiti del mercato.

Chiunque si misuri con i temi trattati dal libro “Le pensioni a fondo” può offrire un contributo prezioso alla comprensione dei temi legati allo Stato sociale, ma chi adotterà rigore e consapevolezza riceverà la mia critica e la mia severità.

Nel libro sono suggerite una serie di interventi, ma occorre attenzione e ponderatezza. Sicuramente alcune proposte sono anche suggestive, ma la debolezza del nostro sistema economico mi inducono a credere che sia molto più urgente riguardare il nostro sistema imprenditoriale.

In conclusione si può parlare di una evidente difficoltà delle forze sindacali e politiche a trovare una soluzione originale ai problemi legati al welfare, ma questo non può impedirci di individuare i vincoli delle proposte avanzate dai nostri interlocutori.

Gli stessi vincoli economici suggeriscono dei provvedimenti “atipici” da contrattare con l’Unione europea in tema di TFR e Fondi Pensione.

Infatti, si deve immaginare per i fondi pensione e soprattutto per i gestori degli stessi uno statuto sul modello delle fondazioni con dei vincoli statutari, oppure a delle obbligazioni emesse dal Ministero del tesoro tese ad intercettare il TFR con una rivalutazione pari a quella offerta dal mercato, da destinare a consistenti investimenti infrastrutturali sul territorio nazionale, di cui l’Italia ha urgente bisogno, occorre un Patto per lo sviluppo, per l’ammodernamento delle infrastrutture del paese, che aiuterebbe il bisogno di occupazione, cioè un patto tra lavoratori e Stato.

Una cosa è certa:

i vincoli economici, la necessità di trovare nuove forme integrative all’attuale stato sociale, così come la necessità di soddisfare i bisogni emersi con la trasformazione economica e sociale del paese nel recente passato, rappresentano una sfida senza precedenti per il sindacato e per la sinistra nel suo insieme, ma occorre attenzione a non proporre un rimedio che può essere peggiore del male che si intende curare.

PS:
Vecchioni in una sua canzone diceva:
Forse non lo sai ma anche questo è amore.