Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società
Luciano Vasapollo
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7. La riduzione dell’orario di lavoro e la proposta del reddito
sociale minimo di cittadinanza
Il processo di modernizzazione del Paese non può passare attraverso
il massiccio ricorso alle privatizzazioni, aziendali e del Welfare, viste ormai
dai più qualificati ambienti politici, sindacali, imprenditoriali come l’unica
strada percorribile per il risanamento complessivo dell’azienda Italia. Non
si può escludere una forte presenza dello Stato, un competente ed efficiente
intervento e controllo pubblico nei settori economici strategici ,cioè in tutti
quei servizi in cui il carattere pubblico è ineliminabile per la funzione sociale
svolta, di uno Stato che si riproponga in veste di occupatore, cioè
capace di creare e distribuire lavoro, soprattutto a carattere di utilità pubblica
e a definizione non mercantile. Le esperienze internazionali ci insegnano che
i processi di privatizzazione non solo hanno determinato aumento dei prezzi,
coniugato spesso ad un abbassamento della qualità del servizio erogato, ma nel
contempo non si sono collegati a progetti di incentivazione dell’investimento
produttivo capace di creare occupazione; anzi le privatizzazioni sono state
il banco di prova dei cosiddetti “tagliatori di teste”, aumentando la disoccupazione
e il disagio sociale senza nel contempo abbattere il sistema clientelare, assistenziale,
inefficiente e tangentocratico.
La stessa costruzione dell’Europa basata sui parametri di Maastricht
rappresenta la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto
del modello del capitalismo europeo alla partecipazione da protagonista a quella
economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di
influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella
giapponese e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco. Un percorso definitorio
neoliberista che in nome di un malfigurato progresso, di un capitalismo sempre
più selvaggio si apre all’incontro-scontro con i diversi modelli di mercato,
tutti comunque finalizzati a lasciare un sempre maggior numero di persone senza
protezione, nella miseria, aumentando le diseguaglianze economico-sociali nel
nome della gigantesca mistificazione europea.
La costruzione di un’Europa dei popoli, un’Europa sociale
del lavoro, non può non tener conto che qualunque sia il sistema di
capitalismo, risultano sempre e comunque dominanti quelle forze tese alla ricerca
di obiettivi di guadagno, immediato o a medio lungo termine, che non si trasformano
mai in processi di redistribuzione equa e di utilità sociale generale. Gli equilibri,
la stabilità, la redditività cercata dal sistema capitalistico internazionale
si sono rivelati soltanto processi di destabilizzazione degli equilibri politici,
sociali e ambientali.
Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte
di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche
permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento
di produttività del lavoro. Incrementi di produttività che sono quindi ricchezza
sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono
essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità
della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro sull’intero arco
di vita del lavoratore, a parità di salario, di ritmi e controllando i turni
e il lavoro straordinario, adeguando il tempo di lavoro a favore del tempo
liberato e di una migliore socialità dell’intera collettività.
Date le attuali condizioni internazionali di sviluppo dell’innovazione
tecnologica si può ipotizzare che la quota di lavoro socialmente necessario
alla sussistenza media dell’intera classe dei lavoratori sia pari a circa il
20% dell’attuale giornata lavorativa sociale a livello internazionale; ed
è questa la parte di lavoro retribuita, mentre il resto è pluslavoro destinato
ad accumulazione di capitale.
Allora la battaglia per la riduzione dell’orario deve da subito
porsi su un terreno offensivo per superare le ostilità e il tentativo
palese, da parte della Confindustria, di opporsi al connotato conflittuale di
tale proposta. Bisogna altresì combattere le ipotesi di riportare la riduzione
dell’orario di lavoro su una media annuale, ipotesi legata la tentativo di mediare
in tal modo i periodi ad alta intensità con quelli a bassa intensità di lavoro.
L’attenzione va posta anche sulle difficoltà interpretative
e sulla divisione fra i lavoratori che la proposta sulla riduzione dell’orario
di lavoro può provocare, sia in funzione di una difesa del lavoro straordinario
sia relativamente alla rincorsa verso il secondo lavoro, spesso sommerso e atipico,
aumentando così la divaricazione tra l’economia ufficiale e l’economia del lavoro
nero e “grigio”, soprattutto legata al modello delle piccole e medie imprese.
Se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è
accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei
garantiti e dei non garantiti; se tale proposta non è legata alla più ampia
battaglia relativa alla socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo
a tutti i non garantiti un reddito sociale minimo di cittadinanza; se
le organizzazioni dei lavoratori non impongono la parità del salario reale,
il controllo dei ritmi, della condensazione del lavoro, il mantenimento
degli stessi turni, specialmente nelle attività produttive a ciclo continuo;
se non si ha il controllo sul lavoro straordinario e sull’aumento dell’utilizzo
degli impianti che può più che compensare l’incremento del salario-orario derivante
dalla riduzione dell’orario; se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro
non è effettuata considerando l’intero arco di vita del lavoratore; allora
si può cadere in un contesto contraddittorio, difensivistico, compatibile con
le esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico, creando anche forti
conflitti orizzontali all’interno della stessa classe dei lavoratori.
Si deve anzi riportare la battaglia sulla riduzione dell’orario
di lavoro in funzione di una forte richiesta di diversificazione della qualità
della vita, di socializzazione del tempo liberato dal lavoro, con
la consapevolezza che l’obiettivo delle 35 ore è di natura intermedia,
poiché il livello di tecnologia raggiunto e di produttività media del lavoro
fa si che soltanto con il 20% dell’intera giornata lavorativa oggi si possa
coprire il salario sociale spettante all’intera classe dei lavoratori.
Nell’economia capitalistica l’abbreviazione della giornata
lavorativa corrisponde semplicemente alla riduzione del lavoro necessario per
la produzione dei mezzi di sussistenza per l’intera classe dei lavoratori, mantenendo
o aumentando la parte di pluslavoro non pagato. In tale contesto gli incrementi
internazionali di produttività media corrispondono a decrementi della massa
salariale sociale complessiva, mantenendo od aumentando così il tasso di sfruttamento.
Allora non si tratta di dare ulteriori incentivi fiscali, sgravi
e agevolazioni contributive alle imprese che accettano la riduzione dell’orario
di lavoro, ma va immediatamente capito che l’incremento di produttività è
ricchezza sociale che può garantire il soddisfacimento di nuovi bisogni,
redistribuendo socialmente l’accumulazione di capitale, e ponendo un
programma di iniziativa che entro pochi anni può portare alla giornata lavorativa,
a parità di condizioni, di 15 ore e non di 35!
Si può intanto imporre immediatamente l’allargamento della
base occupazionale a partire da politiche reali di riduzione dell’orario
di lavoro a parità di salario, senza intaccare la certezza dei diritti acquisiti
e delle conquiste dei lavoratori in termini di organizzazione dei turni, dei
ritmi, dei tempi e della qualità del lavoro. Bisogna allora considerare la riduzione
dell’orario sull’intero arco di vita del lavoratore, collegando tale riduzione
ad una prospettiva di iniziativa complessiva, una campagna di opinione, di lotta,
un appello all’Europa sociale del lavoro per rivendicare il diritto al reddito
sociale minimo di cittadinanza.
La redistribuzione del reddito ha assunto e assume un carattere
limitativo perché basata sulla concessione del salario individuale, mentre il
conflitto sociale ha possibilità di volgere dalla parte dei lavoratori solo
se le lotte per il salario assumono quella portata globale che rivendica il
salario sociale reale complessivo.
È la dimensione sociale di classe del salario che fa sì che
esso costituisca il prezzo dei costi di esistenza e di riproduzione dell’intera
classe lavoratrice. Di conseguenza la categoria economica del salario minimo
non può essere riferita al singolo individuo, poiché un grandissimo numero dei
singoli soggetti appartenenti alla classe lavoratrice non ricevono quel
minimo vitale necessario per esistere e riprodursi. È solo il salario complessivamente
appartenente all’intera classe lavoratrice (compresi i disoccupati, i precari,
gli inoccupati e sottoccupati) che assume la forma di salario minimo per permettere
la vita e la riproduzione dell’intera classe.
Il salario è allora determinato dal suo rapporto con il profitto,
assumendo la forma di salario relativo, cioè prezzo del lavoro fornito
ad un determinato istante, confrontato col prezzo del lavoro anticipato e accumulato
che si trasforma in fattore produttivo capitale. Il salario relativo è indissolubilmente
legato alla capacità del capitale di trarre vantaggio dagli incrementi di produttività.
Il salario è così una grandezza sociale perché riguarda i lavoratori
come entità sociale, e pertanto essendo relazionato all’insieme dei mezzi di
sussistenza ingloba anche le prestazioni sociali collettive a carattere assistenziale,
previdenziale (tredicesima, liquidazione, pensione) e l’insieme dei consumi
collettivi erogati gratuitamente o a prezzi controllati (sanità, trasporti,
istruzione, assistenza, spesa sociale in genere, ecc.), comprendendo infine
anche quella parte di valore sociale della forza lavoro corrispondente all’impiego
di tempo di lavoro non retribuito (come ad esempio il lavoro delle casalinghe,ecc.).
Il reddito sociale è quindi destinato all’acquisizione da parte dell’intera
classe lavoratrice dei mezzi di sussistenza indispensabili alla sopravvivenza
dignitosa anche dei disoccupati, dei precari, degli anziani, dei giovani, degli
inabili al lavoro.
A partire da tale necessaria premessa ne deriva che bisogna
prestare particolare attenzione quando, seguendo alcune impostazioni di carattere
economico-sociale, cooperativo, apparentemente solidaristico, (vedi ipotesi
sull’economia della partecipazione , sull’impresa sociale, sul Terzo Settore),
si propongono alcune forme di salario minimo garantito che, se non tengono conto
del carattere di per sé già sociale del salario, cadendo di fatto nella richiesta
di assistenzialismo, di carità garantita, di riproposizioni di clientele, di
rapporti subordinati di scambio che svuotano, delegittimano e ostacolano la
riproposizione del conflitto a partire dalla centralità del diritto al lavoro.
Anche questo può essere un modo per realizzare profitto da
parte del capitale attraverso il controllo della cosiddetta economia sociale,
sfruttando anche in termini fiscali le donazioni a fini solidaristici, allargando
le possibilità di finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici
su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico. Si realizza
così anche un uso strumentale del Terzo Settore finalizzato alle regole dell’efficienza
capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si sostituisce al
ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica
di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate
da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.
Non si tratta quindi di richiedere quel minimo vitale
a carattere etico e filantropico che può assumere la forma di salario minimo
o reddito garantito, ma si vuole imporre semplicemente il pieno riconoscimento
della forma sociale del salario riferito all’intera classe lavoratrice e storicamente
determinato e derivato dai rapporti tra lavoro e capitale. È per questo che
tale diritto preferiamo individuarlo con i nome di reddito sociale minimo
di cittadinanza.
In questa visione lo stesso Welfare State è un concetto limitativo,
poiché voluto e derivato dal punto di vista del capitale come possibilità di
limitare la rivendicazione dell’intero reddito sociale che globalmente spetta
alla classe lavoratrice. Quando si attraversano fasi di crisi o di ristrutturazione
complessiva (vedi l’Europa di Maastricht) allora il capitale si sceglie la via
di allontanarsi sempre più dal reddito minimo sociale globale, tagliando la
spesa pubblica e affidando alcuni servizi sociali al volontariato.
È per questo che oggi va riproposta una battaglia europea
dell’intera classe dei lavoratori, occupati e non occupati, garantiti
e non, come momento centrale della iniziativa legata alla riproposizione verticale
dei conflitti sociali a partire dalla distribuzione sociale dell’accumulazione
del capitale, della ricchezza sociale generale complessivamente prodotta.
Si propone così una iniziativa politica a livello europeo sulla salvaguardia
e rivendicazione di distribuzione a tutti i lavoratori, occupati e non, dell’intero
spettante salario sociale prodotto come classe, tralasciando le richieste
corporative basate sul salario individuale e sulle forme di elargizione caritatevole
di “soccorso agli esclusi”. Questo è il significato legato al riconoscimento
del reddito sociale minimo di cittadinanza.
Non sono quindi le parvenze di un “equo” Stato sociale, di
forme di democrazia economica basate sull’apparente partecipazione e la cogestione,
non è quindi la richiesta corporativa di elargizione caritatevole di un minimo
vitale, che possono riverticalizzare il conflitto sociale bensì è attraverso
la lettura storico-economica del rapporto fra capitale e lavoro, che si può
esigere il pagamento di un equo reddito sociale reale complessivo.
8. Una nuova fiscalità: distribuzione sociale degli incrementi
di produttività e dell’accumulazione
Riaffermare la centralità del reddito sociale reale complessivo,
attraverso il riconoscimento, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro
sull’intero arco di vita e di un reddito sociale minimo di cittadinanza, significa
rimettere le mani sul bilancio pubblico incrementando le entrate che derivano
dalla tassazione del capitale e dell’accumulazione. In tal modo si può
abbandonare la logica del salario individuale che deriva dalla contrattazione
aziendale e comunque basata sui rapporti di forza tra capitale e lavoro, riportando
la contraddizione ad un livello più alto fra Stato e capitale, facendo pesare
la realizzazione di tali obiettivi fiscalità generale, addossata maggiormente
al capitale, in modo da restituire alla classe lavoratrice ciò che nel tempo
ha dato in termini di incremento di produttività e di contributo forzoso all’accumulazione.
Per iniziare a realizzare tali obiettivi minimi bisogna
a questo punto inserire un altro argomento macroeconomico fondamentale, che
è volutamente sorvolato o affrontato in chiave esclusivamente “morale” e, quindi,
non risolutiva dai tecnici ed economisti che fanno riferimento al nuovo modello
economico-sociale concertativo. Stiamo parlando dell’evasione e dell’elusione
fiscale, e più in generale di una radicale riforma fiscale in grado
di prelevare le entrate del bilancio pubblico da una maggiore e più articolata
tassazione dei capitali.
Il sistema fiscale italiano insiste nell’assoluta persistenza
di protezione dell’evasione e dell’elusione e di continui e massicci trasferimenti,
agevolazioni ed incentivi alle imprese. Si consideri che negli ultimi anni mediamente
oltre i due terzi delle società di capitale denunciano un IRPEG negativa, e
più del 25% dimostrano di realizzare un reddito imponibile al di sotto dei 20
milioni; senza considerare che la stragrande maggioranza dei lavoratori autonomi
denunciano redditi inferiori ai loro dipendenti. All’opposto invece i lavoratori
dipendenti, i pensionati e i redditi da famiglia in genere sono giunti a carichi
contributivi ormai insostenibili.
La costruzione di un’Europa sociale del lavoro ha bisogno
di ridistribuire reddito e ricchezza attraverso un fisco che aumenti la massa
dei contribuenti, contraendo l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva,
colpendo i capitali speculativi, i movimenti di capitale all’estero, tassando
l’innovazione tecnologica, recuperando in termini redistributivi gli immensi
incrementi di produttività del lavoro che si sono realizzati in particolare
in questi due ultimi decenni.
Perché non porre come perno centrale delle politiche economiche
la lotta seria all’evasione ed elusione fiscale in modo da ampliare le possibilità
di intervento dello Stato sociale, abbandonando le politiche monetariste restrittive,
le politiche neo-liberiste dei tagli alla spesa sociale, della mobilità e flessibilità;
di un sistema dei diritti che si trasforma in benevola carità cristiana puntando
ad un Terzo Settore, un volontariato che deve sostituire il Welfare State, ma
piuttosto realizzando una incisiva politica delle entrate che finalmente punti
alla riduzione dell’evasione fiscale che in Italia raggiunge valori altissimi.
Ed allora bisogna trovare politiche, sistemi di controllo in
grado effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto e
una rendita che non siano di fatto esentati dalla contribuzione; invertendo
così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota dei trasferimenti di reddito
allo Stato sempre più aumentare a scapito delle famiglie e a vantaggio delle
imprese.
Si può così contribuire ad invertire la tendenza di una politica
di fiscalità che si esprime a favore del “nuovo patto sociale”, attraverso le
elargizioni dirette e indirette di favore al “nuovo blocco sociale” che ruota
intorno alle centralità delle imprese, realizzando un sistema fiscale nel quale
più si è ricchi, più si è detentori del fattore capitale e meno si partecipa
alla spesa collettiva, con la rendita e il profitto che non devono essere intaccati,
e con un’evasione fiscale che è di fatto legalizzata. Di contro sono sempre
i redditi delle famiglie ad essere direttamente e indirettamente spremuti, restringendo
ulteriormente le forme di redistribuzione del reddito; trasformando le forme
di redistribuzione egualitaria del reddito in forme al ribasso di uguaglianza
che puntano a ripartire tra i poveri solo la miseria; contrapponendo i giovani
agli anziani, gli occupati ai disoccupati, il diritto al lavoro ai diritti del
lavoro, gli aumenti occupazionali a salari ridotti, alla flessibilità, alla
grande precarietà, al continuo abbassamento della qualità del lavoro e della
qualità della vita.
Si tratta di scegliere un terreno offensivo anche in ordine
alle politiche fiscali, recuperando per i lavoratori almeno parte del tempo
reso disponibile dagli incrementi di produttività del lavoro che il capitale
trasforma in disoccupazione strutturale, in quanto si tratta di forza-lavoro
che non è più compatibile far tornare all’impiego, perché i bisogni derivanti
dalla domanda di produzione mercantile non sostengono più lo sviluppo capitalistico.
Visto quindi l’enorme incremento di accumulazione media del capitale, derivante
da incrementi di produttività, è giunto allora il momento di tassare di meno
i lavoratori e invece di aumentare fortemente la tassazione sulle macchine,
sui robot, sulle innovazioni tecnologiche, sui grandi patrimoni.
L’introduzione dell’IRAP è una nuova scelta per favorire ancora
le multinazionali, le grandi imprese, i grandi capitali, colpendo invece in
maniera ancora più forte le microimprese e in genere i redditi medio-bassi.
Un terreno immediatamente praticabile è invece quello di applicare
una efficace imposta patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi
patrimoni, di tassare i guadagni in conto capitale (capital gain), di ridurre
le agevolazioni verso le imprese, per poter così aumentare la spesa pubblica
in modo che questo possa rappresentare un investimento ad alta redditività sociale
basato su principi di giustizia fiscale e tributaria, e quindi di giustizia
sociale.
Invertire la tendenza abbassando il carico fiscale sul lavoro
dipendente e sul lavoro autonomo più marginale, colpendo maggiormente le società
di capitale, le rendite finanziarie, i profitti, i capital gain, i grandi patrimoni
significa semplicemente assolvere ai dettami costituzionali secondo i quali
il carico fiscale deve servire per redistribuire i redditi dall’alto verso il
basso. Significa, inoltre, recuperare quasi 300.000 miliardi annui di evasione
di imposte dirette, di imposte immobiliari, di imposte indirette e di evasione
contributiva. Già il recupero di una parte di tali ingenti somme di evasione
annua significa poter adeguare le entrate pubbliche finalizzandole ad un rafforzamento
del Welfare State e non ad una rincorsa dei tagli della spesa sociale.
Si consideri inoltre che le plusvalenze, realizzate dalla differenza
fra quanto ricavato al momento della vendita di un titolo azionario e quanto
pagato per il suo acquisto (capital gain), non è attualmente gravato da alcuna
imposta. D’altro canto non esiste in generale una seria tassazione dei redditi
da capitale, vanno quindi riviste e incrementate le aliquote delle ritenute
almeno a partire da una determinata soglia minima di possesso dei titoli (si
dovrebbe per lo meno giungere, sia per i titoli privati sia per i titoli pubblici,
ad un passaggio dall’attuale aliquota del 12,5% ad una del 30%) facendo si che
gli interessi maturati sui titoli debbano essere indicati nella dichiarazione
dei redditi. È inoltre assente una qualsiasi forma di tassazione sulle transazioni
riguardanti prodotti finanziari denominati in valuta estera, senza che siano
colpiti in alcun modo i trasferimenti internazionali di capitale, neppure quelli
a finalità speculativa.
Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capitale, fino
a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, effettuare degli
appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente
anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della
popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza
sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo
in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo
vantaggio del capitale.
Inoltre il sistema fiscale deve allargare l’area delle tutele,
permettendo maggiori deducibilità fiscali delle spese a carattere sociale sostenute
dalle famiglie, in modo tra l’altro da contribuire così a colpire vasti fenomeni
di evasione ed elusione fiscale. Si fa ovviamente riferimento ad una serie di
spese, che in uno Stato dei diritti e delle garanzie universali, dovrebbero
essere tutte a carico della fiscalità generale ( spese per lo studio, spese
per l’assistenza, spese per le manutenzioni della casa, spese per l’affitto
di abitazioni principali, riparazioni di autoveicoli, ecc.).
Le soluzioni sono a portata di mano e realizzabili in maniera
tale da diminuire il carico fiscale su pensioni, su lavoro dipendente, su artigiani
e piccoli commercianti, sulle microimprese, e trovando invece il bilanciamento
con forme diverse di tassazione che si trasferiscono dai salari alle rendite,
ai patrimoni, all’accumulazione di capitale, aumentando e migliorando così lo
Stato sociale.
Si tratta di recuperare all’occupazione, al rafforzamento dello
Stato sociale, al riconoscimento di un reddito sociale minimo di cittadinanza,
qualcosa come diverse centinaia di migliaia di miliardi l’anno. Ci sembra
quindi un obiettivo minimo, praticabile quello di aprire una battaglia, una
iniziativa di dibattito e di lotta, già a partire dalla Finanziaria del prossimo
anno, che realizzi la nostra “ragionevole utopia”: riduzione dell’orario
di lavoro a 35 ore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione
del lavoro; riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di
vita del lavoratore; un milione di posti di lavoro ripartendo da produzioni
non mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore; almeno 50 mila
miliardi da destinare al reddito sociale minimo di cittadinanza.