Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società
Luciano Vasapollo
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2. Il modello neoliberista italiano
Si sta completando anche in Italia una fase di ristrutturazione
e ridefinizione del modello capitalistico che aveva caratterizzato il periodo
della ricostruzione post-bellica e della corsa allo sviluppo industriale tipica
degli anni ’60 e ’70. Non si tratta soltanto del passaggio dall’era taylorista
alle forme di liberismo post-fordista, ma anche al diffondersi di diversi modi
di presentarsi delle attività produttive, di mutamenti nelle dinamiche evolutive
dello sviluppo e delle soggettualità socio-economiche.
È infatti in atto un intenso processo di territorializzazione
dell’economia spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione
che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di presentarsi
del modello di sviluppo capitalistico. Si afferma una diversa logica economico-produttiva,
quelle di una “nuova fabbrica sociale nel territorio”, sempre più diversificata
rispetto ai precedenti processi produttivi, in particolare quelli di tipo industriale.
Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di
una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una diversa concezione
della qualità dello sviluppo, della nascita di nuove attività, la maggior parte
delle quali a carattere terziario e precario, che generano, e forzano nello
stesso tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della società
e di accumulazione del capitale.
Tali considerazioni ci inducono ad indagare il fenomeno della
localizzazione economica tenendo presente che si tratta di un processo di ridefinizione
del capitalismo italiano, processo che spesso provoca supersfruttamento, emarginazione,
distruzione delle garanzie e nuove povertà.
Infatti se la localizzazione è il processo di scelta
dei luoghi per l’installazione delle attività economiche, è anche vero che i
fattori che interessano tale processo sono numerosi e riguardano aspetti di
ordine naturale, tecnici, demografici, socio-culturali, anche se gli aspetti
determinanti sono quelli economici, derivanti dai rapporti di forza tra
capitale e lavoro.
Nelle imprese italiane il modello adottato si pone a metà tra
il modello renano e quello anglosassone, anche se sembra prevalere quest’ultimo.
Certamente ancora oggi non è definitivamente chiaro quale modello economico
finirà per prevalere in Italia, se quello anglosassone, basato fondamentalmente
sul mercato e sulle dinamiche di Borsa in particolare, o quello renano-nipponico
che ha invece il suo elemento centrale nello stretto legame fra impresa e banca.
Bisogna innanzitutto considerare che il sistema economico del
nostro Paese è caratterizzato da un numero molto elevato di piccole e medie
imprese spesso ad altissima redditività e produttività; da un mercato borsistico
e finanziario e creditizio in genere che, nonostante le modifiche, le accelerazioni
e le leggi istitutive di nuovi intermediari, vive ancora una fase in cui un
vero e proprio sviluppo non c’è stato.
Nella situazione italiana che realizza quel sistema di gestione
aziendale chiamato da alcuni studiosi di tipo “padronale”, sono presenti
infatti tutti i limiti finanziari precedentemente evidenziati. Vi sono inoltre
limiti economici perché si verifica un alto costo del capitale dovuto alle esigue
possibilità degli azionisti di diversificare il proprio portafoglio di investimenti;
infine anche la classe manageriale sovente è poco dotata di professionalità
in quanto i ricambi del vertice seguono logiche dinastiche, politico-clientelari
e non professionali.
Gli obiettivi di redditività a breve periodo hanno portato
a scarsi investimenti nello sviluppo tecnologico e quindi a una limitata competitività
delle imprese italiane nei confronti delle altre aziende europee. Per riuscire
a raggiungere un più elevato livello di competitività è necessario ottenere
elevate risorse finanziarie e finora le imprese italiane sono ricorse soprattutto
a mutui assistiti e a debiti bancari.
Si è reso allora necessario per il capitalismo italiano strutturare
diversamente le strategie di finanziamento anche attraverso dei cambiamenti
nel rapporto banca-impresa. Va anche ricordato che il comportamento delle banche
nei confronti delle imprese varia non solo in base alle dimensioni di queste
ma anche in relazione alle varie zone geografiche. Si ha così che a fronte di
un tasso di interesse medio, attestato nel 1995 al 12,9%, si è avuto un differenziale
tra i tassi praticati nel Sud d’Italia e il resto del paese pari al 2,2%: c’è
quindi un divario molto elevato soprattutto se si considera che mentre al Nord
le banche concedono fidi bancari a fronte di garanzie reali pari al 55%, nel
Mezzogiorno questa percentuale sale al 90%. È evidente che in tal modo invece
di favorire lo sviluppo delle zone più arretrate del Paese si tende a renderlo
ancora più evidente.
L’evoluzione nei rapporti banca-impresa si scontra però molto
spesso con le posizioni delle “famiglie proprietarie”, le quali temono
in questo modo di perdere l’effettivo controllo sulla gestione dell’azienda
stessa.
La concezione gerarchica presente nelle grandi aziende del
nostro Paese, contraria al contemperamento degli interessi, è caratterizzata
dal fatto che l’interesse prioritario è ancora quello di mantenere inalterato
il potere del gruppo di controllo.
In realtà la situazione che si è venuta a creare è quella di
una sempre maggiore effettiva concentrazione gerarchica nella gestione delle
imprese.
A tale configurazione del modello di capitalismo italiano è
funzionale anche la marginalizzazione dell’economia del Sud e la formazione
periferica del C-N-E (Centro-Nord-Est); fermo rimanendo che nel N-O (Nord-Ovest)
esiste una forma dell’industria con caratteri specifici che si è posta come
forma dominante dello sviluppo nazionale, sia nelle varie articolazioni settoriali
sia sul territorio. Tale capitalismo delle grandi famiglie è comunque dominante
e centrale dell’economia italiana, corrisponde e si configura come centralista
e basato sull’industria caratterizzata da maggiori dimensioni d’impresa,
maggiore intensità di capitale fisso, maggior uso di tecnologie moderne e maggiore
innovazione, nonché un carattere strategico della produzione in relazione agli
altri comparti. Su queste basi il N-O sembra essere l’unica area a rispettare
i termini imposti da questi parametri propri dell’economia del capitalismo
delle grandi famiglie.
Il carattere di forte dipendenza, la scarsità
e la disarticolazione di ogni forma di ricomposizione organizzata sono
i risultati determinati e attesi dei processi di ristrutturazione del capitalismo
italiano e delle nuove scelte localizzative di sviluppo. È così che può essere
interpretato il rapporto fra un modello geo-economico periferico, perlopiù formato
da piccola impresa, tradizionale o interstiziale, che non
sembra né vuole evolvere verso le grandi, anche se a volte vi è la possibilità
che ciò accada perché funzionale al modello locale, ed un modello economico
centrale che cerca di creare nuovi spazi produttivi e punta a razionalizzare
e consolidare le produzioni o entrare in nuovi settori con produzione diversificate.
In Italia si può allora sostenere che esistono e coesistono
distinte strutture economiche, disomogenee tendenze di sviluppo a cui corrispondono
soggettualità diverse, derivanti in maniera naturale da tali strutture e tendenze
a formazioni degenerative di un processo che ha assunto a volte connotati e
risultati non attesi, che possono tramutarsi anche in elementi di forte conflittualità
sociale. Infatti certamente si può identificare una economia marginale,
che evolve nel tempo riproponendo nuove figure sociali, nuovi soggetti che se
fino a non molti anni fa erano garantiti e funzionali allo sviluppo, oggi vengono
esclusi, precarizzati, emarginati fino a costituire quelle povertà che l’attuale
modello tende a riprodurre in forme in parte nuove.
All’interno delle dinamiche dell’economia marginale va senza
dubbio considerato il rapporto, le relazioni che tutte le strutture dell’economia
stabiliscono con la realtà produttiva meridionale. Relazioni che mutano
nel tempo ma che continuano a configurare rapporti funzionali da sottosviluppo,
realizzati in maniera specifica per l’evoluzione del sistema in altre aree del
Paese, per la riproduzione e l’espansione della struttura centrale dell’economia.
Si passa così dalla funzione attribuita al Mezzogiorno di serbatoio di manodopera
e calmiere del costo del lavoro, di regolazione delle contraddizioni sociali
e produttive, alla considerazione di area di vendita , al sostegno redistributivo
ad aziende che vedono contrarre i profitti in campi tradizionali.
Questo è certamente il risultato di un rapporto di dominanza
con vere e proprie caratteristiche di colonizzazione delle aree meridionali,
nelle quali predominano l’alta disoccupazione, la precarizzazione, il lavoro
nero, trovando così maggiori possibilità di sviluppo proprio quelle attività
che meglio si prestano a lavorazioni sottopagate e a domicilio. Si tratta di
un vero rapporto espropriazione-appropriazione, di supersfruttamento del lavoro,
in cui le aziende madri, collocate nelle aree periferiche, mantengono le funzioni
strategiche e più redditizie del ciclo di produzione/commercializzazione. La
conseguenza è che quando si decidono processi di localizzazione produttiva nel
Meridione, molto spesso si allocano stabilimenti e ditte affiliate, mentre i
centri direzionali sono in altre zone, determinando anche nelle produzioni tradizionali
una manifesta debolezza a cui corrisponde la precoce mortalità di tantissime
filiali e la fine di molte imprese; sopravvivono solo alcune piccole o piccolissime
imprese a forte caratterizzazione produttiva locale, che si rassegnano ad una
situazione di micro-mercato accogliendo gli effetti della logica residuale.
Anche tali processi di marginalizzazione dell’economia meridionale
rispondono al progetto della “via italiana” alla globalizzazione dell’economia,
che ha costretto il capitalismo ad una scelta di modello di sviluppo distribuito
sul territorio e fondamentalmente basato su forme sempre più pressanti di terziario
implicito ed esplicito, veicolando il consenso alle forme di produzione diffusa
, con la conseguente precarizzazione del lavoro e frammentazione dell’unità
di classe.
Tutto ciò si realizza attraverso modalità del consenso che
si diffondono tramite politiche di un nuovo consociativismo che attraversa e
coinvolge il sistema dei partiti, i sindacati confederali, le associazioni imprenditoriali,
le istituzioni bancarie-finanziarie e il connesso sistema delle comunicazioni
di massa. Se il consociativismo nasce e si sviluppa già a partire dagli anni
‘70 ,è negli anni ‘80 e negli anni ‘90 che la tendenza aclassista della cogestione
e concertazione delle organizzazioni storiche dei lavoratori trova la sua massima
espressione e punto di non ritorno.
È in questo contesto che si configurano gli attacchi allo Stato
sociale anche nel nostro Paese, in una rincorsa all’individualismo utilitarista
anglosassone, a quel modello di capitalismo selvaggio e alle politiche monetariste
diventate ormai ideologia egemone, disarticolando e travolgendo anche gli stessi
principi di civiltà come quelli di tolleranza e di solidarietà tra gruppi diversi
e tra generazioni diverse, principi guida in un Paese come il nostro in cui
significativo e fondamentale è stato ed è, sul piano del condizionamento delle
scelte di politica economica e sul piano culturale, il contributo delle tradizioni
e della forza del movimento di opposizione di classe e operaio e del pensiero
economico-solidaristico della Chiesa.
Si è in una fase, dunque, di passaggio epocale nella trasformazione
delle modalità di sviluppo nel nostro Paese; una fase in cui, si stanno velocemente
affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità, nuove povertà
e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di ricomposizione e organizzazione
del dissenso sociale. Un profondo processo di trasformazione di questo tipo
deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche
e sociali, le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione
dei tempi, e le stesse ipotesi di intervento per un progetto di antagonismo,
di alternativa, di fuoriuscita dal capitalismo.
3. La centralità economico-sociale dell’impresa
Ogni processo comportamentale e relazionale viene oggi determinato
in funzione del nuovo modello economico-sociale neoliberista imperniato su una
istituzione divenuta ormai divinità sociale; tale istituzione è l’impresa. Ed
è solo a partire dai diversi sistemi di impresa proposti dalle forme di capitalismo
e dalle sue interrelazioni con l’intero macrosistema ambientale (azionisti,
banche, finanziatori vari, manager, lavoratori, pubblica amministrazione, clienti,
fornitori ecc.) che si può realmente interpretare l’effettiva portata dello
scontro in atto all’interno delle varie componenti del “liberismo globale”.
La prima considerazione da fare a questo punto, è che ogni
modello di impresa è il frutto delle condizioni economiche della storia, delle
tradizioni e della cultura del paese nel quale agisce. Pertanto le finalità
di ogni impresa , ossia la creazione di valore economico, si può raggiungere
attraverso differenti obiettivi di gestione, i quali cambiano naturalmente nel
corso del tempo dovendo tener conto degli aspetti economico-concorrenziali,
culturali, tecnologici, conflittuali e socio-politici.
Il controllo di un’azienda, la facoltà di prendere le decisioni
strategiche e operativo-fondamentali dipendono dalle diverse posizioni che gli
operatori economici assumono: si passa quindi da un controllo tipico delle Public
Companies dei modelli anglosassoni, nelle quali gli obiettivi sono determinati
dal vertice, ad una situazione opposta nel modello germanico-giapponese, nel
quale il management ha una funzione soprattutto di mediazione ( caratterizzato
da una rigidità del controllo azionario soprattutto favorito dagli incroci azionari)
e ha il compito di elaborare e realizzare le strategie decise dalle varie componenti
dell’azienda. Nelle imprese del modello anglosassone,inoltre, gli obiettivi
sono finalizzati più a una ricerca del massimo profitto nel breve periodo, mentre
in quelle di tipo renano-giapponesi si è più orientati ai risultati di accumulazione
valoriale complessiva e di lungo termine, alla ricerca di efficienza, di crescita
e razionalizzazione della produzione in un’ottica di miglioramento della qualità
dei prodotti ottenuti.
Negli ultimi anni si sta verificando una graduale evoluzione
nei sistemi di governo delle imprese per cercare di equilibrare e di rendere
minimi i disagi che questi modelli comportano. Si assiste in sostanza ad un
graduale riavvicinamento dei due modelli opposti delle Public Companies e delle
imprese consociative; in quanto mentre negli Stati Uniti ci si avvia verso un
azionariato più stabile, in Giappone diminuisce l’incidenza degli incroci azionari
e si tende ad allargare la partecipazione e la dipendenza delle imprese direttamente
dal mercato finanziario.
Accade che il modello anglosassone, pur essendo concepito secondo
principi molto meno egualitari, nel quale anzi sono l’aggressività, l’individualismo,
il darwinismo economico a dominare, sta sempre di più diffondendosi, nonostante
le evidenti ingiustizie socio-economiche che questo sistema comporta a scapito
delle classi sociali più svantaggiate.
In Italia sembra che vi sia in atto un tentativo di adeguamento
del modello di sviluppo al capitalismo anglosassone più che al sistema renano;
la scelta non è necessariamente legata al diverso referente finanziario: il
mercato borsistico per il modello anglosassone e il legame banca-impresa per
quello renano-nipponico. Le modalità di scelta si giocano sulla diversa interpretazione
dello Stato sociale, del sistema del solidarismo, delle garanzie sociali. Sembra
di più affacciarsi sul panorama economico-finanziario italiano un’ipotesi di
liberismo selvaggio poco preoccupato delle compatibilità socio-politiche del
modello di sviluppo economico, nel quale si vorrebbe far prendere sempre più
spazio a processi di finanziarizzazione dell’economia che si fa sempre più virtuale
e legata alle logiche dei grossi potentati finanziari internazionali.
In conclusione, comunque, qualunque sia il modello di capitalismo
di riferimento questo sarà basato sull’esaltazione del libero mercato nel quale,
anche se in forme differenziate, prevale sempre e comunque l’economia finanziaria
speculativa a danno del fattore produttivo lavoro. Ma è proprio il capitale
finanziario, attraverso i suoi flussi e la sua sintesi monetaria che, puntando
all’ottenimento del profitto a migliori condizioni, esporta nello stesso tempo
le contraddizioni del modello capitalistico complessivo.