Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società

Luciano Vasapollo

Di seguito si presentano alcune considerazioni che, riferendosi ad altri recenti interventi tenuti in occasioni diverse2, possono contribuire a sollecitare e meglio indirizzare la riflessione scientifica in ordine ai problemi politico-economici e la relativa proposta di dibattito, a partire dall’analisi delle trasformazioni in atto dell’economia e della società nel suo complesso e da una lettura attenta delle dinamiche evolutive del modello di capitalismo italiano. Su queste tematiche il Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali, (CESTES-PROTEO), è disponibile ed invita al confronto, anche attraverso le pagine di questa rivista, le associazioni di base presenti nel territorio, le organizzazioni dei lavoratori, i comitati di quartiere, gli studiosi, le associazioni culturali, i centri studi e tutti coloro che vogliono esprimere un punto di vista non conforme alle ipotesi del neo-consociativismo liberista.

1. Globalizzazione e finanziarizzazione

È ormai entrato nell’uso corrente del linguaggio economico, e non, il termine “globalizzazione” come segno irrinunciabile della tendenza del liberismo economico ad essere l’unico modello di sviluppo che la storia non riuscirà a contraddire e a superare.

I risultati macroeconomici evidenziati in questi ultimi anni, accompagnati da vere e proprie tragedie etnico-nazionali causate dalla nuova redifinizione e spartizione dei territori in funzione degli equilibri di potenza e delle necessità del capitalismo internazionale, hanno cominciato a mettere in discussione in maniera chiara e definitiva quello che si configurava come un vero e proprio dogma socio-economico, inconfutabile, basato su un modello di sviluppo non compatibile né in termini sociali né in termini ambientali.

È all’interno di tale logica complessiva della globalizzazione del modello capitalistico che si deve anche leggere la scelta, che sembra ormai irreversibile, tra investimenti produttivi nell’economia reale e processi di investimento ad esclusivo connotato finanziario speculativo. Si va infatti sempre più affermando una divaricazione tra andamento dell’economia reale, con i connessi processi politico economico-sociali da una parte, e scelte di finanziarizzazione dell’economia dall’altra. Modelli decisori liberisti quest’ultimi che puntano su investimenti finanziari scollegati dall’evoluzione dei processi produttivi reali e che seguono esclusivamente una logica speculativa attuando percorsi all’interno di dinamiche staccate, anzi spesso contrapposte, al quadro economico politico generale, perseguendo semplicemente la loro logica interna della massimizzazione dei profitti complessivi, attraverso incrementi di dividendi, interessi e capital gain.

Quando tutto è demandato ad una cieca fiducia nelle leggi di mercato, senza meccanismi di controllo che sappiano o possano salvaguardare l’interesse sociale collettivo accade normalmente che i buoni andamenti borsistici, i profitti finanziari, creino le condizioni di contrazione degli investimenti produttivi, percorsi negativi dell’economia reale, provocando così alta disoccupazione strutturale e incremento dei costi sociali in genere.

È in tale contesto di “bolla finanziaria” che si continuano a realizzare profitti senza fatica, creando rendite finanziarie e di posizione che, se per l’economia del Paese si traducono in una illusione di ricchezza distruggendo efficienza, competitività e disarticolando i meccanismi del tessuto produttivo, nel contempo diventano non solo fonti di ricchezza facile per gli investitori, ma elementi reddituali e patrimoniali a bassa tassazione, se non addirittura molto spesso fonte stessa di completa evasione ed elusione fiscale. E l’Italia è un terreno fertile per la speculazione internazionale finanziaria, favorita da una Borsa giovane, asfittica, instabile, dove i nuovi mercenari del capitalismo finanziario trovano conveniente rincorrere l’illusione della ricchezza cartacea, la rendita finanziaria.

Se ci si attiene alle impostazioni dottrinali risulta che il sistema economico debba essere strettamente connesso al sistema finanziario e, di conseguenza, i mercati dei capitali non dovrebbero avere una vita autonoma separata dal contesto generale economico-sociale, in quanto costituiscono nelle dinamiche dello sviluppo capitalistico una sorta di termometro della credibilità e del grado di efficienza dei sistemi-paese e del sistema capitalistico internazionale nel suo complesso.

Se si osserva quanto quotidianamente avviene nella realtà dei mercati si ha l’immediata consapevolezza che ancora una volta gli schemi della dottrina più comuni sono smentiti. Le leggi del capitalismo non hanno una morale; gli investimenti finanziari seguono percorsi speculativi con dinamiche proprie che esulano dal quadro economico-politico, rincorrendo la maggiore remunerazione e la legge ferrea dei profitti a tutti i costi, indebolendo l’economia reale. Non esiste una motivazione scientifica sull’andamento degli investimenti finanziari; tutto è demandato ad una cieca fiducia nelle leggi di mercato, meccanismi che puntano esclusivamente alle migliori condizioni di redditività, provocando alti costi sociali.

Molto spesso si assiste a forti divaricazioni tra andamento dell’economia reale e dimensione del mercato dei capitali; basti pensare che in Inghilterra dove si ha il più alto tasso di capitalizzazione borsistica si realizzano dati sconfortanti per l’economia reale e, viceversa, la Germania, che evidenzia una forte egemonia economica sicuramente a livello continentale, realizza invece scarsissimi risultati in termini di sviluppo del mercato borsistico.

Da ciò si deduce che non necessariamente una forte capitalizzazione della Borsa assicura un efficiente e forte sviluppo dell’economia reale; cioè frequentemente la “bisca finanziaria” elargisce premi a quelle imprese capaci di tagliare l’occupazione, di diminuire i salari reali distribuiti ai lavoratori, di incrementare al massimo la flessibilità e la mobilità dei lavoratori e della loro retribuzione.

Siamo, quindi, in un contesto di capitalismo soprattutto a connotati finanziari, un capitalismo, senza leggi, spesso anzi fuori legge capace di giustificare tutto con le ipotetiche, illusorie capacità di autoregolamentazione del mercato.

Con la finanziarizzazione dell’economia, esplosa già al tempo delle crisi energetiche degli anni ’70, il capitalismo internazionale si è posto in un contesto di mutazione con carattere sempre più degenerativo, nell’illusione che l’aumento dei mezzi di pagamento cartacei ed elettronici possa essere in grado di creare ricchezza reale.

Basta considerare, ad esempio, l’andamento dei mercati finanziari in quest’ultimo mese. Già da oltre un anno si profilava all’orizzonte dei mercati asiatici il gonfiarsi di una gigantesca bolla finanziaria speculativa, che si configurava nella forte sopravvalutazione dei titoli. Conseguentemente i capitali hanno cominciato ad abbandonare la tigre asiatica per riversarsi negli Stati Uniti portando il dollaro a superquotazioni; ma le economie asiatiche essendo molto legate all’andamento del dollaro, hanno subito contraccolpi pesanti nella loro bilancia dei pagamenti. Tali perdite di competitività dell’economia reale fa aumentare lo spostamento di capitali speculativi dai mercati asiatici a quelli statunitensi ed europei cortocircuitando la bolla speculativa anche su questi ultimi mercati, i quali stanno presentando indici borsistici estremamente gonfiati rispetto al valore reale dell’assetto economico-produttivo. A ciò si aggiunge il gioco speculativo dei ribassisti che diffondendo “terrore” continuano a vendere titoli provocando così anche le svendite dei piccoli risparmiatori, per poter poi speculare sugli stessi titoli riacquistati a prezzi stracciati. I risultati complessivi sono stati evidenti in queste ultime settimane. Tutto il sistema della globalizzazione capitalistica è entrato in fibrillazione. Si realizza così il legame indissolubile fra globalizzazione e finanziarizzazione dimostrando l’enorme fragilità di un modello capitalistico basato sulla speculazione finanziaria che sempre più si distanzia dall’effettivo valore dell’economia reale. Tant’è che ora anche coloro che si sono contraddistinti come i maggiori fautori del liberismo selvaggio e del mercato non regolamentato hanno dei ripensamenti ed invitano a rivedere il ruolo dello Stato-Impresa per restituirgli un compito normativo di regolatore, rafforzando anche i compiti delle autorità di vigilanza. È notizia di questi ultimi giorni che i vari governi asiatici, in particolare quello giapponese, stanno accorrendo a soccorso del sistema creditizio e finanziario, anche per il salvataggio di banche sommerse da crediti inesigibili derivanti dagli effetti del rigonfiamento dell’economia dei primi anni ‘90. Di fatto la Tigre asiatica è stata attaccata dalla speculazione internazionale e poi attraverso la globalizzazione gli effetti perversi si sono ripercossi sulle varie aree e sui vari attori del conflitto.

Questo è il vero significato della globalizzazione, una globalizzazione dei mercati finanziari in cui ha buon gioco solo la libertà assoluta dei movimenti di capitale a danno del lavoro, mentre i movimenti delle persone e delle merci continuano ad essere sottoposti a politiche protezioniste spesso a connotati razziali. Il movimento dei capitali in chiave globale è un fenomeno che ha assunto caratteri di irreversibilità a danno dello sviluppo dell’economia reale, concentrando ricchezza in un numero sempre minore di soggetti, aumentando le aree di povertà nel pianeta, i livelli e gradi di emarginazione, producendo attività estranee e contrarie all’utilità sociale collettiva.

I veri risultati emergono chiaramente: fare finanza speculativa significa esportare ovunque un capitalismo finanziario che attacca ogni forma di solidarismo in nome dell’individualismo, del darwinismo economico-sociale, creando idiosincrasia per tutto ciò che è pubblico, per tutto ciò che significa relazioni sociali a contenuto valoriale non misurato attraverso la moneta.


2. Il modello neoliberista italiano

Si sta completando anche in Italia una fase di ristrutturazione e ridefinizione del modello capitalistico che aveva caratterizzato il periodo della ricostruzione post-bellica e della corsa allo sviluppo industriale tipica degli anni ’60 e ’70. Non si tratta soltanto del passaggio dall’era taylorista alle forme di liberismo post-fordista, ma anche al diffondersi di diversi modi di presentarsi delle attività produttive, di mutamenti nelle dinamiche evolutive dello sviluppo e delle soggettualità socio-economiche.

È infatti in atto un intenso processo di territorializzazione dell’economia spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico. Si afferma una diversa logica economico-produttiva, quelle di una “nuova fabbrica sociale nel territorio”, sempre più diversificata rispetto ai precedenti processi produttivi, in particolare quelli di tipo industriale. Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una diversa concezione della qualità dello sviluppo, della nascita di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario e precario, che generano, e forzano nello stesso tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della società e di accumulazione del capitale.

Tali considerazioni ci inducono ad indagare il fenomeno della localizzazione economica tenendo presente che si tratta di un processo di ridefinizione del capitalismo italiano, processo che spesso provoca supersfruttamento, emarginazione, distruzione delle garanzie e nuove povertà.

Infatti se la localizzazione è il processo di scelta dei luoghi per l’installazione delle attività economiche, è anche vero che i fattori che interessano tale processo sono numerosi e riguardano aspetti di ordine naturale, tecnici, demografici, socio-culturali, anche se gli aspetti determinanti sono quelli economici, derivanti dai rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Nelle imprese italiane il modello adottato si pone a metà tra il modello renano e quello anglosassone, anche se sembra prevalere quest’ultimo. Certamente ancora oggi non è definitivamente chiaro quale modello economico finirà per prevalere in Italia, se quello anglosassone, basato fondamentalmente sul mercato e sulle dinamiche di Borsa in particolare, o quello renano-nipponico che ha invece il suo elemento centrale nello stretto legame fra impresa e banca.

Bisogna innanzitutto considerare che il sistema economico del nostro Paese è caratterizzato da un numero molto elevato di piccole e medie imprese spesso ad altissima redditività e produttività; da un mercato borsistico e finanziario e creditizio in genere che, nonostante le modifiche, le accelerazioni e le leggi istitutive di nuovi intermediari, vive ancora una fase in cui un vero e proprio sviluppo non c’è stato.

Nella situazione italiana che realizza quel sistema di gestione aziendale chiamato da alcuni studiosi di tipo “padronale”, sono presenti infatti tutti i limiti finanziari precedentemente evidenziati. Vi sono inoltre limiti economici perché si verifica un alto costo del capitale dovuto alle esigue possibilità degli azionisti di diversificare il proprio portafoglio di investimenti; infine anche la classe manageriale sovente è poco dotata di professionalità in quanto i ricambi del vertice seguono logiche dinastiche, politico-clientelari e non professionali.

Gli obiettivi di redditività a breve periodo hanno portato a scarsi investimenti nello sviluppo tecnologico e quindi a una limitata competitività delle imprese italiane nei confronti delle altre aziende europee. Per riuscire a raggiungere un più elevato livello di competitività è necessario ottenere elevate risorse finanziarie e finora le imprese italiane sono ricorse soprattutto a mutui assistiti e a debiti bancari.

Si è reso allora necessario per il capitalismo italiano strutturare diversamente le strategie di finanziamento anche attraverso dei cambiamenti nel rapporto banca-impresa. Va anche ricordato che il comportamento delle banche nei confronti delle imprese varia non solo in base alle dimensioni di queste ma anche in relazione alle varie zone geografiche. Si ha così che a fronte di un tasso di interesse medio, attestato nel 1995 al 12,9%, si è avuto un differenziale tra i tassi praticati nel Sud d’Italia e il resto del paese pari al 2,2%: c’è quindi un divario molto elevato soprattutto se si considera che mentre al Nord le banche concedono fidi bancari a fronte di garanzie reali pari al 55%, nel Mezzogiorno questa percentuale sale al 90%. È evidente che in tal modo invece di favorire lo sviluppo delle zone più arretrate del Paese si tende a renderlo ancora più evidente.

L’evoluzione nei rapporti banca-impresa si scontra però molto spesso con le posizioni delle “famiglie proprietarie”, le quali temono in questo modo di perdere l’effettivo controllo sulla gestione dell’azienda stessa.

La concezione gerarchica presente nelle grandi aziende del nostro Paese, contraria al contemperamento degli interessi, è caratterizzata dal fatto che l’interesse prioritario è ancora quello di mantenere inalterato il potere del gruppo di controllo.

In realtà la situazione che si è venuta a creare è quella di una sempre maggiore effettiva concentrazione gerarchica nella gestione delle imprese.

A tale configurazione del modello di capitalismo italiano è funzionale anche la marginalizzazione dell’economia del Sud e la formazione periferica del C-N-E (Centro-Nord-Est); fermo rimanendo che nel N-O (Nord-Ovest) esiste una forma dell’industria con caratteri specifici che si è posta come forma dominante dello sviluppo nazionale, sia nelle varie articolazioni settoriali sia sul territorio. Tale capitalismo delle grandi famiglie è comunque dominante e centrale dell’economia italiana, corrisponde e si configura come centralista e basato sull’industria caratterizzata da maggiori dimensioni d’impresa, maggiore intensità di capitale fisso, maggior uso di tecnologie moderne e maggiore innovazione, nonché un carattere strategico della produzione in relazione agli altri comparti. Su queste basi il N-O sembra essere l’unica area a rispettare i termini imposti da questi parametri propri dell’economia del capitalismo delle grandi famiglie.

Il carattere di forte dipendenza, la scarsità e la disarticolazione di ogni forma di ricomposizione organizzata sono i risultati determinati e attesi dei processi di ristrutturazione del capitalismo italiano e delle nuove scelte localizzative di sviluppo. È così che può essere interpretato il rapporto fra un modello geo-economico periferico, perlopiù formato da piccola impresa, tradizionale o interstiziale, che non sembra né vuole evolvere verso le grandi, anche se a volte vi è la possibilità che ciò accada perché funzionale al modello locale, ed un modello economico centrale che cerca di creare nuovi spazi produttivi e punta a razionalizzare e consolidare le produzioni o entrare in nuovi settori con produzione diversificate.

In Italia si può allora sostenere che esistono e coesistono distinte strutture economiche, disomogenee tendenze di sviluppo a cui corrispondono soggettualità diverse, derivanti in maniera naturale da tali strutture e tendenze a formazioni degenerative di un processo che ha assunto a volte connotati e risultati non attesi, che possono tramutarsi anche in elementi di forte conflittualità sociale. Infatti certamente si può identificare una economia marginale, che evolve nel tempo riproponendo nuove figure sociali, nuovi soggetti che se fino a non molti anni fa erano garantiti e funzionali allo sviluppo, oggi vengono esclusi, precarizzati, emarginati fino a costituire quelle povertà che l’attuale modello tende a riprodurre in forme in parte nuove.

All’interno delle dinamiche dell’economia marginale va senza dubbio considerato il rapporto, le relazioni che tutte le strutture dell’economia stabiliscono con la realtà produttiva meridionale. Relazioni che mutano nel tempo ma che continuano a configurare rapporti funzionali da sottosviluppo, realizzati in maniera specifica per l’evoluzione del sistema in altre aree del Paese, per la riproduzione e l’espansione della struttura centrale dell’economia. Si passa così dalla funzione attribuita al Mezzogiorno di serbatoio di manodopera e calmiere del costo del lavoro, di regolazione delle contraddizioni sociali e produttive, alla considerazione di area di vendita , al sostegno redistributivo ad aziende che vedono contrarre i profitti in campi tradizionali.

Questo è certamente il risultato di un rapporto di dominanza con vere e proprie caratteristiche di colonizzazione delle aree meridionali, nelle quali predominano l’alta disoccupazione, la precarizzazione, il lavoro nero, trovando così maggiori possibilità di sviluppo proprio quelle attività che meglio si prestano a lavorazioni sottopagate e a domicilio. Si tratta di un vero rapporto espropriazione-appropriazione, di supersfruttamento del lavoro, in cui le aziende madri, collocate nelle aree periferiche, mantengono le funzioni strategiche e più redditizie del ciclo di produzione/commercializzazione. La conseguenza è che quando si decidono processi di localizzazione produttiva nel Meridione, molto spesso si allocano stabilimenti e ditte affiliate, mentre i centri direzionali sono in altre zone, determinando anche nelle produzioni tradizionali una manifesta debolezza a cui corrisponde la precoce mortalità di tantissime filiali e la fine di molte imprese; sopravvivono solo alcune piccole o piccolissime imprese a forte caratterizzazione produttiva locale, che si rassegnano ad una situazione di micro-mercato accogliendo gli effetti della logica residuale.

Anche tali processi di marginalizzazione dell’economia meridionale rispondono al progetto della “via italiana” alla globalizzazione dell’economia, che ha costretto il capitalismo ad una scelta di modello di sviluppo distribuito sul territorio e fondamentalmente basato su forme sempre più pressanti di terziario implicito ed esplicito, veicolando il consenso alle forme di produzione diffusa , con la conseguente precarizzazione del lavoro e frammentazione dell’unità di classe.

Tutto ciò si realizza attraverso modalità del consenso che si diffondono tramite politiche di un nuovo consociativismo che attraversa e coinvolge il sistema dei partiti, i sindacati confederali, le associazioni imprenditoriali, le istituzioni bancarie-finanziarie e il connesso sistema delle comunicazioni di massa. Se il consociativismo nasce e si sviluppa già a partire dagli anni ‘70 ,è negli anni ‘80 e negli anni ‘90 che la tendenza aclassista della cogestione e concertazione delle organizzazioni storiche dei lavoratori trova la sua massima espressione e punto di non ritorno.

È in questo contesto che si configurano gli attacchi allo Stato sociale anche nel nostro Paese, in una rincorsa all’individualismo utilitarista anglosassone, a quel modello di capitalismo selvaggio e alle politiche monetariste diventate ormai ideologia egemone, disarticolando e travolgendo anche gli stessi principi di civiltà come quelli di tolleranza e di solidarietà tra gruppi diversi e tra generazioni diverse, principi guida in un Paese come il nostro in cui significativo e fondamentale è stato ed è, sul piano del condizionamento delle scelte di politica economica e sul piano culturale, il contributo delle tradizioni e della forza del movimento di opposizione di classe e operaio e del pensiero economico-solidaristico della Chiesa.

Si è in una fase, dunque, di passaggio epocale nella trasformazione delle modalità di sviluppo nel nostro Paese; una fase in cui, si stanno velocemente affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità, nuove povertà e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di ricomposizione e organizzazione del dissenso sociale. Un profondo processo di trasformazione di questo tipo deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche e sociali, le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione dei tempi, e le stesse ipotesi di intervento per un progetto di antagonismo, di alternativa, di fuoriuscita dal capitalismo.

3. La centralità economico-sociale dell’impresa

Ogni processo comportamentale e relazionale viene oggi determinato in funzione del nuovo modello economico-sociale neoliberista imperniato su una istituzione divenuta ormai divinità sociale; tale istituzione è l’impresa. Ed è solo a partire dai diversi sistemi di impresa proposti dalle forme di capitalismo e dalle sue interrelazioni con l’intero macrosistema ambientale (azionisti, banche, finanziatori vari, manager, lavoratori, pubblica amministrazione, clienti, fornitori ecc.) che si può realmente interpretare l’effettiva portata dello scontro in atto all’interno delle varie componenti del “liberismo globale”.

La prima considerazione da fare a questo punto, è che ogni modello di impresa è il frutto delle condizioni economiche della storia, delle tradizioni e della cultura del paese nel quale agisce. Pertanto le finalità di ogni impresa , ossia la creazione di valore economico, si può raggiungere attraverso differenti obiettivi di gestione, i quali cambiano naturalmente nel corso del tempo dovendo tener conto degli aspetti economico-concorrenziali, culturali, tecnologici, conflittuali e socio-politici.

Il controllo di un’azienda, la facoltà di prendere le decisioni strategiche e operativo-fondamentali dipendono dalle diverse posizioni che gli operatori economici assumono: si passa quindi da un controllo tipico delle Public Companies dei modelli anglosassoni, nelle quali gli obiettivi sono determinati dal vertice, ad una situazione opposta nel modello germanico-giapponese, nel quale il management ha una funzione soprattutto di mediazione ( caratterizzato da una rigidità del controllo azionario soprattutto favorito dagli incroci azionari) e ha il compito di elaborare e realizzare le strategie decise dalle varie componenti dell’azienda. Nelle imprese del modello anglosassone,inoltre, gli obiettivi sono finalizzati più a una ricerca del massimo profitto nel breve periodo, mentre in quelle di tipo renano-giapponesi si è più orientati ai risultati di accumulazione valoriale complessiva e di lungo termine, alla ricerca di efficienza, di crescita e razionalizzazione della produzione in un’ottica di miglioramento della qualità dei prodotti ottenuti.

Negli ultimi anni si sta verificando una graduale evoluzione nei sistemi di governo delle imprese per cercare di equilibrare e di rendere minimi i disagi che questi modelli comportano. Si assiste in sostanza ad un graduale riavvicinamento dei due modelli opposti delle Public Companies e delle imprese consociative; in quanto mentre negli Stati Uniti ci si avvia verso un azionariato più stabile, in Giappone diminuisce l’incidenza degli incroci azionari e si tende ad allargare la partecipazione e la dipendenza delle imprese direttamente dal mercato finanziario.

Accade che il modello anglosassone, pur essendo concepito secondo principi molto meno egualitari, nel quale anzi sono l’aggressività, l’individualismo, il darwinismo economico a dominare, sta sempre di più diffondendosi, nonostante le evidenti ingiustizie socio-economiche che questo sistema comporta a scapito delle classi sociali più svantaggiate.

In Italia sembra che vi sia in atto un tentativo di adeguamento del modello di sviluppo al capitalismo anglosassone più che al sistema renano; la scelta non è necessariamente legata al diverso referente finanziario: il mercato borsistico per il modello anglosassone e il legame banca-impresa per quello renano-nipponico. Le modalità di scelta si giocano sulla diversa interpretazione dello Stato sociale, del sistema del solidarismo, delle garanzie sociali. Sembra di più affacciarsi sul panorama economico-finanziario italiano un’ipotesi di liberismo selvaggio poco preoccupato delle compatibilità socio-politiche del modello di sviluppo economico, nel quale si vorrebbe far prendere sempre più spazio a processi di finanziarizzazione dell’economia che si fa sempre più virtuale e legata alle logiche dei grossi potentati finanziari internazionali.

In conclusione, comunque, qualunque sia il modello di capitalismo di riferimento questo sarà basato sull’esaltazione del libero mercato nel quale, anche se in forme differenziate, prevale sempre e comunque l’economia finanziaria speculativa a danno del fattore produttivo lavoro. Ma è proprio il capitale finanziario, attraverso i suoi flussi e la sua sintesi monetaria che, puntando all’ottenimento del profitto a migliori condizioni, esporta nello stesso tempo le contraddizioni del modello capitalistico complessivo.


4. Dal Welfare al Profit State per lo Stato-Impresa

In Italia l’attuale assetto politico e i progetti di riforma del Welfare State, del sistema elettorale, della forma di Stato, della Costituzione, trovano il loro punto di riferimento sul piano della ristrutturazione produttiva legata alle prospettive del modello di sviluppo neo-liberista. Modello basato come sempre sull’intensificazione dei processi di accumulazione, poi sulle riforme istituzionali in modo da piegare i nuovi bisogni sociali alle esigenze di conservazione. E i nuovi bisogni sono basati non solo sulla necessità di consumare merci ma soprattutto di consumare servizi, cioè di rendere compatibile l’organizzazione della produzione basata su sempre più intensi processi di terziarizzazione funzionali all’adeguamento sulle nuove realtà del capitale.

Ma le contraddizioni di tale modello sono evidenti. Infatti il quadro macroeconomico del nostro Paese evidenzia per il 1997, contrazione e precarizzazione dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione dovuta soprattutto al forte calo della domanda. Inoltre si segnalano oltre 8 milioni di poveri; 650 mila circa sono gli anziani che percepiscono l’assegno di pensione sociale di neppure 500.000 lire; più di sette milioni sono i titolari di pensioni INPS con una pensione inferiore al milione al mese e tra questi oltre quattro milioni ne percepiscono una al di sotto delle 700.000. Oltre tre milioni sono i disoccupati dichiarati (con un tasso di disoccupazione che sfiora il 13% e al Sud supera ampiamente il 20%); nei prossimi cinque anni si ipotizza un tasso medio di disoccupazione al 15%, con punte di disoccupazione femminile che nel Mezzogiorno potrebbero toccare il 55%. Non è ben precisato il numero dei sottoccupati, dei sottopagati, dei precari, delle persone che svolgono lavoro nero, e di tutti i cosiddetti disoccupati invisibili. Un ruolo fondamentale è ormai svolto dalla precarizzazione, del lavoro e delle retribuzioni, e dalla mobilità (tra il 1995 e il ’96 oltre due milioni di occupati hanno cambiato settore lavorativo essendo costretti ad accettare spesso forme di flessibilizzazione del salario; e solo nel ’96 circa 600 mila occupati si sono ritrovati nella condizione di disoccupati). Vanno inoltre considerate le vere e proprie forme di povertà ed emarginazione assoluta, la miseria di un sempre crescente numero di persone che non riescono ad accedere neppure ai livelli minimi di sopravvivenza, ad indispensabili cure mediche e ospedaliere, ad una pur minima dignitosa qualità complessiva della vita.

A fronte della drammaticità che si può evincere dal precedente quadro macroeconomico, il quale renderebbe necessario ed immediato un rafforzamento delle politiche e delle prestazioni sociali, si susseguono proposte, provenienti da destra e da sinistra, dalla Confindustria, dalla Banca d’Italia, dai sindacati confederali, fino a una folta schiera di economisti e Centri Studi, che spingono sempre più alla realizzazione di un modello sociale ed economico che individua lo Stato non più come garante e regolatore dei conflitti ma come parte in causa a difesa della centralità non solo economica ma anche sociale dell’impresa ed interprete sociale della logica, degli obiettivi e della cultura di un mercato sempre più deregolamentato.

Ecco lo Stato sociale che si trasforma in Stato-Impresa, che assume come centrale la logica di mercato, la salvaguardia e l’incremento del profitto, trasforma i diritti sociali in elargizioni di beneficenza, effettua comunicazione sociale che fa assumere il profitto, la flessibilità, la produttività come nuove forme di “divinità sociale”, come la filosofia ispiratrice dell’unico modello di sviluppo possibile. Si realizza così il passaggio definitivo dallo Stato sociale della cittadinanza al Profit State del consociativismo neo-liberista!

Il messaggio sociale che viene quotidianamente trasmesso, anche se con modalità a volte diverse, è sempre basato sulla considerazione dogmatica della validità dei criteri di efficienza dell’impostazione imprenditoriale, realizzando così ogni forma di flessibilità sociale, del lavoro e salariale, finalizzata all’abbattimento di ogni comportamento che si riveli rigido, conflittuale, non omologabile alle compatibilità del profitto, alle leggi di un mercato sempre meno regolato e sempre più selvaggio.

L’impianto delle proposte politico-economiche si incentra, allora, con sfumature diverse, su politiche di tagli alla spesa pubblica, su incentivi e trasferimenti sempre più cospicui alle grandi imprese, su riforme istituzionali e costituzionali di stampo presidenzialista e sempre più autoritario, di soffocamento delle minoranze e delle diverse incompatibilità; senza mai considerare i costi sociali di tale modello, le esclusioni, le diversità, le emarginazioni, le nuove povertà provocate da questo modo di essere dello sviluppo economico.

Da questo momento lo Stato comincia a distanziarsi dal suo ruolo di garante e regolatore dei conflitti, poiché assume la cultura d’impresa come determinante, come principio e unità concreta di iniziativa, come organizzazione e gestione immediata della convivenza sociale. La centralità d’impresa diventa per le istituzioni statali fattore di determinazione sociale, per cui è dai processi di ristrutturazione dell’impresa che si può avviare un’analisi per determinare la rottura dell’unità di classe, per influenzare e determinare processi di mutamento della società e di tentativo di annientamento dell’antagonismo, della conflittualità sociale.

È in questo quadro di riferimento che deve essere letto il duro attacco che tale modello concertativo neo-liberista sta effettuando alle condizioni di vita dei lavoratori, degli anziani, dei disoccupati, degli emarginati, che trova, tramite la “riforma del Welfare State” l’esplicitazione della logica della performance imprenditoriale come modalità di riforma di uno Stato sociale che seguendo tale impostazione di fatto si trasforma in Stato-Impresa. Per raggiungere questo scopo si è impostata una politica di risparmi in settori fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando come obiettivi prioritari la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli indiscriminati alla spesa sociale.

Si propone una sanità sempre meno pubblica e più privata, con l’introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa, la gestione privata di alcuni ospedali molto grandi.

Le proposte consociative di abbattimento dello Stato sociale sono basate sulla personalizzazione e privatizzazione del sistema di protezione sociale, in particolare sul passaggio al mercato della sanità e della previdenza, perché è la centralità d’impresa e del mercato che deve ormai contagiare ogni tessuto sociale. Infatti anche l’impostazione globale delle politiche del lavoro è fortemente ispirata dalle logiche contributive ed assicurative che non fanno altro che produrre diminuzione delle tutele realizzando un lavoro e un salario flessibile, non normativo, a basse garanzie.

Ciò che domina ormai per la scena economica è l’abbattimento di qualsiasi rigidità di costi e di normative, per favorire l’impresa. Anche la riforma del collocamento è indirizzata a sempre più intensi processi di privatizzazione con la nascita di agenzie specializzate nel nuovo “caporalato” attraverso il lavoro interinale.

Il nesso inscindibile tra lavoro e formazione diventa la formazione che si modella sugli interessi delle aziende. La ricerca, la formazione, la scuola, il rafforzamento della conoscenza collettiva sono ormai orientati alla determinazione di un sistema formativo subalterno agli interessi degli industriali, sempre più privatizzato; si veda in tal senso il finanziamento pubblico alle scuole private che ha unito le istituzioni e quasi tutti i partiti in un coro osannante di una superiore e omologata formazione privatistica.

Anche per l’assistenza, per la quale l’Italia impiega risorse in questo settore solo per il 3.5% del PIL, le scelte sono finalizzate al trasferimento della spesa per sanità e previdenza alla spesa più propriamente di natura assistenziale. Nascono così proposte di un selezionato nuovo assistenzialismo clientelare proponendo forme di accesso ad alcuni servizi sociali in base a processi individuali che favoriscono la connessione e la ricomposizione istituzionale e compatibile delle forme di dissenso sociale. È questo il vero significato di proposte quali la “carta sociale”, l’introduzione di un “Fondo per i non autosufficienti”, del “Minimo vitale”, sollecitando lo sviluppo di un sistema fondato sulla “carità minima garantita” agli esclusi. Proposte finalizzate al controllo delle fasce più deboli della società, rendendole ricattabili e condizionate dal potere, innescando senza dubbio fattori che favoriscono la conflittualità orizzontale fra le varie componenti sociali, ostacolando la ricomposizione di classe, favorendo invece la nascita di veri e propri assistiti sociali, funzionali ad un regolamento al ribasso del conflitto sociale e politico.

Per ciò che concerne il sistema pensionistico dal coro consociativo si ascoltano messaggi univoci che parlano di una quota sproporzionata della spesa previdenziale rispetto agli altri paesi europei, senza però chiarire che in Italia vengono conteggiati, nella quota destinata alla spesa per pensioni, anche i trattamenti di fine rapporto che negli altri paesi non esistono; inoltre si inserisce nel computo delle pensioni anche quella parte di costo di carattere assistenziale come le integrazioni al minimo e quelle non coperte da contribuzione. Non si dice, inoltre, che nel resto d’Europa oltre il 10% del salario è destinato a fondi pensione a carattere integrativo che in Italia a tutt’oggi hanno uno scarso peso. Tutto ciò porta ad invertire l’ordine del problema, cioè in Italia la spesa per pensioni è largamente inferiore a quella della media europea.

Sindacati confederali, imprenditori e Governo propongono in continuazione messaggi apocalittici sull’abbattimento della spesa sociale poiché questa non è più finanziabile a causa della tendenza demografica ad un invecchiamento della popolazione, e quindi della conseguente elevata incidenza della spesa pensionistica e sanitaria. Non si tiene invece conto dell’elemento economicamente più importante e cioè che le politiche di Welfare sono in difficoltà perché non ci sono più le condizioni, a causa delle scelte padronali che puntano al mantenimento del profitto attraverso la riduzione della quantità di lavoro e del suo costo, che avevano caratterizzato le fasi economicamente tendenti alla piena occupazione e all’incremento del monte salari dai cui contributi proveniva il finanziamento dello Stato sociale. Oggi con la disoccupazione strutturale di massa si ha una conseguente contrazione del monte salari ( che in Italia tra il 1980 e il 1995 è passato dal 48% del PIL al 41%), che accompagnata da una evasione fiscale e contributiva istituzionalizzata, determina una condizione complessiva macroeconomica in funzione della quale vengono a mancare le modalità principali di finanziamento dello Stato sociale.

5. Fondi pensioni e speculazione finanziaria

Il vero obiettivo non è quello di riformare le pensioni, ma è quello di privatizzarle, facendo pagare anche ai lavoratori italiani un alto contributo per arricchire le assicurazioni private. Si introduce così pesantemente la logica forzata del ricorso ai fondi pensione senza considerare i crack finanziari e le ripercussioni estremamente negative sull’economia reale che hanno prodotto ad esempio i fondi inglesi e statunitensi. Si pensi che i fondi pensione dell’area del capitalismo anglosassone (Stati Uniti e Gran Bretagna) e di quello renano (Germania e Giappone) muovono diverse decine di milioni di miliardi di lire, che, circolando in mercati non disciplinati, non controllati, in cui predomina un capitalismo selvaggio che insegue la mera realizzazione del profitto, creando seri scompensi sociali in termini di sottrazione di risorse agli impieghi in investimenti reali, provocando quindi aumento della disoccupazione, abbassamento della qualità della vita in genere, abbattimento delle garanzie sociali collettive.

I fondi pensione gestiscono cifre impressionanti che si spostano da un paese all’altro inseguendo gli investimenti più redditivi, muovendo interessi internazionali colossali, cogliendo ogni occasione favorevole offerta dai mercati, producendo così in fase di rialzo un sostenimento del corso dei titoli ed impressionanti cadute quando l’incertezza diventa predominante, come si può evincere anche dalle crisi finanziarie che si sono susseguite in questo ultimo mese. In tal modo i fondi pensione diventano fattore destabilizzante non solo del corso dei titoli ma dello stesso assetto economico-sociale e politico dei vari paesi che di volta in volta diventano bersaglio della speculazione finanziaria internazionale.

Va inoltre considerato che un fondo pensione è istituito con il fine di effettuare ad una scadenza prefissata una prestazione in favore del beneficiario sotto forma di rendita o di liquidazione del valore del capitale. Si tratta comunque di prestazioni finanziarie generalmente erogate sul lungo termine, in cui le scelte di gestione dovrebbero quindi essere legate a politiche di investimento di medio-lungo periodo. Si configurano così degli investitori istituzionali che dovrebbero agire con una elevata prevedibilità tra flussi di entrata e di uscita.

Pertanto, anche qui da un punto di vista teorico, si tenta di attribuire all’introduzione dei fondi pensione nel nostro Paese la capacità di sviluppare fortemente il mercato borsistico italiano, ancora asfittico ed arretrato rispetto a quello degli altri paesi a capitalismo avanzato. Si afferma inoltre da parte delle più autorevoli fonti istituzionali, partitiche e sindacali che i fondi pensione dovrebbero avere un effetto stabilizzante, capacità di consentire un allungamento della vita media del debito pubblico, di stimolare la propensione al risparmio attraverso una diversificazione degli strumenti finanziari offerti ai risparmiatori, favorendo inoltre il processo di riallocazione della proprietà delle imprese del nostro sistema produttivo, agendo così da veicolo per la diffusione dell’azionariato popolare, dell’allargamento delle basi di democrazia economica. Ma negli altri paesi dove i fondi pensione sono più diffusi, paesi nei quali i mercati finanziari hanno spessore ed estensione molto più significativa di quello italiano, si sono verificati episodi drammatici che hanno messo in discussione la stessa strutturazione dei fondi stessi rivelando la loro reale funzione e finalità. Il fondo pensione di per sé dovrebbe essere caratterizzato da una rischiosità non eccessivamente elevata in quanto dovrebbe realizzare operazioni di medio-lungo periodo. Ma la realtà ha dimostrato che la rincorsa al profitto ha incentivato la realizzazione di politiche speculative di breve termine e l’investimento dei fondi sul mercato azionario, contrastando così con la finalità di tipo previdenziale che doveva essere assolta e provocando in momenti di calo borsistico dei veri propri crolli con ripercussioni impressionanti sulla stabilità del fondo e sull’andamento generale dell’economia.

L’esperienza ha quindi dimostrato che i fondi pensione hanno spesso avuto un effetto destabilizzante per il mercato, accompagnato anche da una lievitazione dei prezzi azionari causata dall’eccessiva liquidità.

È assurdo allora pensare che i problemi legati alla crisi della previdenza pubblica possano essere risolti con lo sviluppo dei fondi pensione legati ad enormi interessi privati; gli stessi sindacati confederali vogliono partecipare alla “spartizione del bottino” contrattando la svendita della previdenza pubblica con la loro assunzione diretta ed indiretta alla gestione dei fondi pensione e contrabbandando questa come partecipazione dei lavoratori ai processi di distribuzione dell’accumulazione.

La soluzione è da ricercare in un rafforzamento del sistema previdenziale pubblico, in un aumento del suo grado di efficienza, in una ricerca di equilibrio strutturale fra entrate e spese, fra modi di finanziamento e tipi di prestazioni.

La privatizzazione della previdenza, una previdenza del mercato e del profitto, rompe definitivamente il vincolo solidaristico intergenerazionale, distrugge le prospettive di una tranquilla anzianità per il singolo lavoratore; e tale determinazione privatistica oggi viene utilizzata contro le speranze di finalmente liberare lo svolgimento di un’economia capace di garantire equilibri sociali, crescita economica ed umana misurata attraverso la capacità di distribuire socialmente reddito e ricchezza.

6. Stratificazione di classe e nuovi soggetti del dissenso sociale

I vari modelli di analisi economica e sociale adottati a tutt’oggi da studiosi di varia formazione e collocazione politica risultano ancorati a forme di misurazione basati su parametri elaborati e desunti da una logica interpretativa di “stampo industrialista”, logica che è assunta come centrale da gran parte delle forze sindacali confederali e da forze politiche della sinistra, anche di una parte di quella radicale e alternativa.

Per tali studiosi, per tali forze sindacali e politiche è sempre l’industria, è sempre un modello “operaista” a spiegare l’articolazione degli schemi dello sviluppo economico localizzativo e sociale ed a costituire la variabile di riferimento nella definizione delle linee di indirizzo e di intervento politico-economico.

Continua, invece, la tendenza del nostro assetto produttivo alla terziarizzazione, spesso realizzata attraverso flessibilità del lavoro e delle remunerazioni, lavoro atipico e non garantito, sottoccupazione, supersfruttamento, precarizzazione sociale in genere. Il processo di ristrutturazione e ridefinizione del modello di capitalismo italiano ha quindi bisogno di nuove logiche interpretative, di nuovi strumenti ignorati dalle analisi economiche di impostazione “industrialista”.

Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni nell’essere e nell’interagire dei nuovi soggetti produttivi e sociali in genere, e ciò non è possibile leggerlo e interpretarlo solo attraverso analisi ancora basate sulla centralità operaia e di fabbrica.

Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati, i nuovi soggetti economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati, perché è predominante la cultura delle compatibilità industriale; una tipica cultura anche di molte nuove intellettualità di sinistra che, al di là della dichiarata collocazione politica, si rivelano portatori di un punto di vista concertativo.

È così ancora una volta dimostrata la capacità penetrativa del pensiero unico che propone come emergenti e vincenti le schiere dei nuovi conservatori, i quali si arroccano a difendere un contesto economico ed istituzionale non più rappresentativo della realtà sociale. Una realtà che invece è in continua trasformazione, che fa si che siano definitivamente superate le categorie interpretative di tipo industrialista, esclusivamente basate sulla centralità della fabbrica classica e sul riconoscimento della superiorità ed intramontabilità del pensiero liberista, anche se a correzioni riformiste.

È in quest’ottica che vanno interpretate le linee di riqualificazione dell’attuale modello di sviluppo che continuamente propone nuove attività economiche quasi sempre a carattere terziario, ufficiale e atipico non regolamentato; nuovi e più intensi processi di terziarizzazione impliciti ed espliciti della produzione industriale e un sempre maggiore sviluppo di servizi per il terziario. Un terziario che sempre più identifica e si identifica in nuovi soggetti sociali, che tende a caratterizzarsi anche con forme di lavoro a sempre più alto contenuto di precarizzazione e di flessibilità del lavoro e del salario; con falsi processi di crescita imprenditoriale che spesso nascondono gli incrementi di disoccupazione, la esternalizzazione di commesse, soprattutto di servizi, appaltate ad ex dipendenti licenziati e costretti, per realizzare un reddito, a “mettersi in proprio”, con false promesse di ottenere lavori dall’impresa madre, per poi chiudere presto l’avventura di “nuovi imprenditori”. Così va letto il continuo aumento delle iscrizioni agli Uffici IVA e la corrispondente alta mortalità che si riscontra annualmente.

In tale contesto va prestata attenzione al ruolo che può assumere l’economia della partecipazione, come l’azionariato da lavoro, l’azionariato diffuso e popolare, le forme di cogestione, di autoimprenditorialità, e di qualità totale, comprendendo anche la riduzione dell’orario di lavoro che non tenga conto degli incrementi di produttività attraverso l’aumento dell’intensità dei ritmi e della saturazione dei tempi morti, anche detta condensazione, e del maggior ricorso al lavoro straordinario per prolungare la giornata lavorativa. Si tratta in ogni caso di forme più o meno occulte di cottimo generalizzato legato al ricatto della mobilità e della flessibilità del lavoro e del salario funzionale alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta vivendo.

L’autoimprenditorialità, la precarizzazione del lavoro, la flessibilità del salario, l’occupazione interinale, cioè il nuovo caporalato, il telelavoro, la multifunzionalità del lavoro, la fabbrica diffusa e integrata, rappresentano la vera partecipazione dei lavoratori all’incremento di produttività, alla determinazione delle nuove modalità di accumulazione del capitale derivanti da sempre maggiori quantità di lavoro sociale complessivo erogato con modalità tecnologiche e retributive diverse.

Si realizza così una società con maggiori differenziazioni sociali, in cui è sempre più ridotto il sistema di protezione sociale a favore delle fasce dei cittadini più deboli, fasce che si allargano sempre più andando a comprendere anche quegli strati di società che fino a non molti anni fa erano ritenuti protetti; come ad esempio i lavoratori del pubblico impiego, alcune fasce di artigiani e commercianti, i pensionati, creando invece nel contempo nuove povertà, nuovi bisogni a cui non si riesce o non si vuole dare risposta, ampliando in ultima analisi l’area dell’emarginazione sociale complessiva.

Cambia così radicalmente il quadro dello sviluppo economico dell’Italia, con il passaggio da un modello polarizzato ed accentrato a quello della “fabbrica sociale territorialmente diffusa”, caratterizzata da un forte decentramento produttivo, dall’abbandono delle aree centrali e dalla diminuzione delle dimensioni medie delle imprese e degli impianti, tutto incentrato su precarizzazione dei rapporti di lavoro, negazione delle garanzie, alta mobilità e flessibilità del lavoro.

A questo proposito un elemento di fondamentale rilievo diviene il ruolo assunto dalle piccole e medie imprese. Queste sono protagoniste dello sviluppo in funzione della loro specializzazione e capacità autopropulsiva basata sulle nuove forme di “cottimizzazione” generalizzata del lavoro e sul massiccio ritorno alla precarizzazione, alla flessibilità produttiva, del lavoro e dei salari.

Un profondo processo di trasformazione di questo tipo deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche, i vecchi soggetti produttivi, le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione dei tempi.

La ristrutturazione capitalistica ha di fatto dissolto le grandi fabbriche dove meglio si organizzava l’antagonismo di classe, queste sono di fatto smantellate e divise nei distretti, nelle imprese-rete, nelle filiere, nei reparti produttivi diffusi nel territorio. La modifica della struttura produttiva, i processi di ristrutturazione del sistema capitalistico hanno significato anche modifiche nei bisogni, modifiche nelle figure produttive, modifiche nelle soggettualità dello sviluppo.

Nei processi evolutivi dei sistemi produttivi locali e della funzione imprenditoriale emerge ancora più chiaramente quanto il complesso delle relazioni socio-economiche sia legato e determinato dai processi di riqualificazione del modello capitalistico italiano.

Un nuovo modello che a fianco all’espulsione di manodopera, alla disoccupazione che si fa strutturale, alla disoccupazione invisibile, al lavoro sommerso, nero e sottopagato, alla precarizzazione e flessibilità, crea nel contempo gli ammortizzatori del conflitto sociale attraverso le alte retribuzioni agli operai specializzati, sviluppa una aristocrazia operaia che si fa compartecipe e soggetto cogestionale. Si vengono così a realizzare false forme di democrazia economica e industriale attraverso meccanismi controllati e funzionali di cogestione, creando in modo funzionale al nuovo assetto produttivo il mito del “fai da te”, dell’autoimprenditorialità.

Ma dietro gli incentivi, gli straordinari, i premi di produzione, l’azionariato dei lavoratori, il lavoro autonomo di seconda generazione, il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del “popolo degli imprenditori”, altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni che provocano incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro.

L’enorme aumento delle aperture di partita IVA, cioè i nuovi lavoratori autonomi, i nuovi piccoli imprenditori, altro non sono che il risultato della scelta del capitale di espellere manodopera, di creare un indotto a carattere prevalentemente terziario mal retribuito, senza il carico contributivo, di sollecitare un generalizzato ricorso a forme più o meno nascoste di cottimo corporativo da contrapporre ad ogni forma di rigidità del lavoro e retributiva, rendendo tutto flessibile e compatibile al sistema della centralità dell’impresa e del profitto.

Ma dalla diffusione nel territorio del modello di produzione terziaria nascono e si sviluppano i nuovi soggetti dell’antagonismo che si sostituiscono all’operaio massa e all’operaio sociale, costruendosi invece come nuove figure deboli del meccanismo produttivo derivanti dalla parte di classe operaia resa più flessibile e meno garantita; dal ceto impiegatizio del terziario pubblico e privato, da alcune categorie più marginali di artigiani e commercianti, oltre che dagli strati di precari, di emarginati e di fasce sempre più consistenti di disoccupati.

La riflessione complessiva per la riapertura di un dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società, deve partire da una prima fase di studio, di approfondimento scientifico che consiste nel classificare il territorio dato secondo le caratteristiche delle unità produttive in esso localizzate, giungendo conseguentemente ad identificare la forma che spazialmente assume la distribuzione e l’interdipendenza delle attività produttive. Verificando poi se emergono specializzazioni economiche capaci di generare modificazioni nel mercato del lavoro, nelle tipologie del lavoro, nel tessuto sociale, nella quantità e qualità delle risorse umane espulse o messe ai margini del nuovo assetto socio-produttivo che si va definendo.

Il territorio viene ad assumere dei nuovi connotati di classe a partire dalle nuove caratteristiche sociali e demografiche della popolazione residente, per identificare la forma che spazialmente assumono le aree residenziali e quali gruppi sociali le contraddistinguono, per definire una diversa soggettualità sociale che in precedenza era propria della fabbrica ed in questa si identificava e si organizzava.

È così che si valutano le tipologie sociali spazialmente localizzate che contraddistinguono l’area di specializzazione produttiva e si può verificare se esiste una aderenza fra identità produttiva, modello geografico ed economico di sviluppo e nuove identità sociali capaci di ricomporre un’unità di tutti i lavoratori, garantiti e non garantiti, per ritrovarsi nella capacità di proporre diverse forme di dissenso sociale, uscendo dalle battaglie difensive, riproponendo conflittualità offensive e verticalizzate fra capitale e lavoro.

Attraverso questa procedura oggettiva e scientifica, si può analizzare entro lo stesso ambito di studio l’analisi economica territoriale per verificare le modalità di insediamento del sistema economico spazialmente concentrato, specializzato in un certo settore o in certe modalità produttive, relazionandolo ad una popolazione socialmente caratterizzata in modo coerente, capace cioè di innescare contraddizioni economico-sociali e processi di socializzazione. Valori e comportamenti orientati e derivati dalla presenza di un modello di sviluppo che a causa della ristrutturazione dell’impresa e del capitale incide profondamente sul territorio.

Territorio che rappresenta il centro verso il quale converge una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle nuove soggettualità che operano in una fabbrica sociale diffusa nel sistema territoriale, nuovi soggetti che si ricompongono ad unità su un corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di proporre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.

È quindi a partire da tali nuove soggettualità dell’antagonismo sociale che si può riorganizzare l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire dall’organizzazione in fabbrica.


7. La riduzione dell’orario di lavoro e la proposta del reddito sociale minimo di cittadinanza

Il processo di modernizzazione del Paese non può passare attraverso il massiccio ricorso alle privatizzazioni, aziendali e del Welfare, viste ormai dai più qualificati ambienti politici, sindacali, imprenditoriali come l’unica strada percorribile per il risanamento complessivo dell’azienda Italia. Non si può escludere una forte presenza dello Stato, un competente ed efficiente intervento e controllo pubblico nei settori economici strategici ,cioè in tutti quei servizi in cui il carattere pubblico è ineliminabile per la funzione sociale svolta, di uno Stato che si riproponga in veste di occupatore, cioè capace di creare e distribuire lavoro, soprattutto a carattere di utilità pubblica e a definizione non mercantile. Le esperienze internazionali ci insegnano che i processi di privatizzazione non solo hanno determinato aumento dei prezzi, coniugato spesso ad un abbassamento della qualità del servizio erogato, ma nel contempo non si sono collegati a progetti di incentivazione dell’investimento produttivo capace di creare occupazione; anzi le privatizzazioni sono state il banco di prova dei cosiddetti “tagliatori di teste”, aumentando la disoccupazione e il disagio sociale senza nel contempo abbattere il sistema clientelare, assistenziale, inefficiente e tangentocratico.

La stessa costruzione dell’Europa basata sui parametri di Maastricht rappresenta la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto del modello del capitalismo europeo alla partecipazione da protagonista a quella economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco. Un percorso definitorio neoliberista che in nome di un malfigurato progresso, di un capitalismo sempre più selvaggio si apre all’incontro-scontro con i diversi modelli di mercato, tutti comunque finalizzati a lasciare un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella miseria, aumentando le diseguaglianze economico-sociali nel nome della gigantesca mistificazione europea.

La costruzione di un’Europa dei popoli, un’Europa sociale del lavoro, non può non tener conto che qualunque sia il sistema di capitalismo, risultano sempre e comunque dominanti quelle forze tese alla ricerca di obiettivi di guadagno, immediato o a medio lungo termine, che non si trasformano mai in processi di redistribuzione equa e di utilità sociale generale. Gli equilibri, la stabilità, la redditività cercata dal sistema capitalistico internazionale si sono rivelati soltanto processi di destabilizzazione degli equilibri politici, sociali e ambientali.

Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore, a parità di salario, di ritmi e controllando i turni e il lavoro straordinario, adeguando il tempo di lavoro a favore del tempo liberato e di una migliore socialità dell’intera collettività.

Date le attuali condizioni internazionali di sviluppo dell’innovazione tecnologica si può ipotizzare che la quota di lavoro socialmente necessario alla sussistenza media dell’intera classe dei lavoratori sia pari a circa il 20% dell’attuale giornata lavorativa sociale a livello internazionale; ed è questa la parte di lavoro retribuita, mentre il resto è pluslavoro destinato ad accumulazione di capitale.

Allora la battaglia per la riduzione dell’orario deve da subito porsi su un terreno offensivo per superare le ostilità e il tentativo palese, da parte della Confindustria, di opporsi al connotato conflittuale di tale proposta. Bisogna altresì combattere le ipotesi di riportare la riduzione dell’orario di lavoro su una media annuale, ipotesi legata la tentativo di mediare in tal modo i periodi ad alta intensità con quelli a bassa intensità di lavoro.

L’attenzione va posta anche sulle difficoltà interpretative e sulla divisione fra i lavoratori che la proposta sulla riduzione dell’orario di lavoro può provocare, sia in funzione di una difesa del lavoro straordinario sia relativamente alla rincorsa verso il secondo lavoro, spesso sommerso e atipico, aumentando così la divaricazione tra l’economia ufficiale e l’economia del lavoro nero e “grigio”, soprattutto legata al modello delle piccole e medie imprese.

Se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei garantiti e dei non garantiti; se tale proposta non è legata alla più ampia battaglia relativa alla socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo a tutti i non garantiti un reddito sociale minimo di cittadinanza; se le organizzazioni dei lavoratori non impongono la parità del salario reale, il controllo dei ritmi, della condensazione del lavoro, il mantenimento degli stessi turni, specialmente nelle attività produttive a ciclo continuo; se non si ha il controllo sul lavoro straordinario e sull’aumento dell’utilizzo degli impianti che può più che compensare l’incremento del salario-orario derivante dalla riduzione dell’orario; se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è effettuata considerando l’intero arco di vita del lavoratore; allora si può cadere in un contesto contraddittorio, difensivistico, compatibile con le esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico, creando anche forti conflitti orizzontali all’interno della stessa classe dei lavoratori.

Si deve anzi riportare la battaglia sulla riduzione dell’orario di lavoro in funzione di una forte richiesta di diversificazione della qualità della vita, di socializzazione del tempo liberato dal lavoro, con la consapevolezza che l’obiettivo delle 35 ore è di natura intermedia, poiché il livello di tecnologia raggiunto e di produttività media del lavoro fa si che soltanto con il 20% dell’intera giornata lavorativa oggi si possa coprire il salario sociale spettante all’intera classe dei lavoratori.

Nell’economia capitalistica l’abbreviazione della giornata lavorativa corrisponde semplicemente alla riduzione del lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza per l’intera classe dei lavoratori, mantenendo o aumentando la parte di pluslavoro non pagato. In tale contesto gli incrementi internazionali di produttività media corrispondono a decrementi della massa salariale sociale complessiva, mantenendo od aumentando così il tasso di sfruttamento.

Allora non si tratta di dare ulteriori incentivi fiscali, sgravi e agevolazioni contributive alle imprese che accettano la riduzione dell’orario di lavoro, ma va immediatamente capito che l’incremento di produttività è ricchezza sociale che può garantire il soddisfacimento di nuovi bisogni, redistribuendo socialmente l’accumulazione di capitale, e ponendo un programma di iniziativa che entro pochi anni può portare alla giornata lavorativa, a parità di condizioni, di 15 ore e non di 35!

Si può intanto imporre immediatamente l’allargamento della base occupazionale a partire da politiche reali di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, senza intaccare la certezza dei diritti acquisiti e delle conquiste dei lavoratori in termini di organizzazione dei turni, dei ritmi, dei tempi e della qualità del lavoro. Bisogna allora considerare la riduzione dell’orario sull’intero arco di vita del lavoratore, collegando tale riduzione ad una prospettiva di iniziativa complessiva, una campagna di opinione, di lotta, un appello all’Europa sociale del lavoro per rivendicare il diritto al reddito sociale minimo di cittadinanza.

La redistribuzione del reddito ha assunto e assume un carattere limitativo perché basata sulla concessione del salario individuale, mentre il conflitto sociale ha possibilità di volgere dalla parte dei lavoratori solo se le lotte per il salario assumono quella portata globale che rivendica il salario sociale reale complessivo.

È la dimensione sociale di classe del salario che fa sì che esso costituisca il prezzo dei costi di esistenza e di riproduzione dell’intera classe lavoratrice. Di conseguenza la categoria economica del salario minimo non può essere riferita al singolo individuo, poiché un grandissimo numero dei singoli soggetti appartenenti alla classe lavoratrice non ricevono quel minimo vitale necessario per esistere e riprodursi. È solo il salario complessivamente appartenente all’intera classe lavoratrice (compresi i disoccupati, i precari, gli inoccupati e sottoccupati) che assume la forma di salario minimo per permettere la vita e la riproduzione dell’intera classe.

Il salario è allora determinato dal suo rapporto con il profitto, assumendo la forma di salario relativo, cioè prezzo del lavoro fornito ad un determinato istante, confrontato col prezzo del lavoro anticipato e accumulato che si trasforma in fattore produttivo capitale. Il salario relativo è indissolubilmente legato alla capacità del capitale di trarre vantaggio dagli incrementi di produttività.

Il salario è così una grandezza sociale perché riguarda i lavoratori come entità sociale, e pertanto essendo relazionato all’insieme dei mezzi di sussistenza ingloba anche le prestazioni sociali collettive a carattere assistenziale, previdenziale (tredicesima, liquidazione, pensione) e l’insieme dei consumi collettivi erogati gratuitamente o a prezzi controllati (sanità, trasporti, istruzione, assistenza, spesa sociale in genere, ecc.), comprendendo infine anche quella parte di valore sociale della forza lavoro corrispondente all’impiego di tempo di lavoro non retribuito (come ad esempio il lavoro delle casalinghe,ecc.). Il reddito sociale è quindi destinato all’acquisizione da parte dell’intera classe lavoratrice dei mezzi di sussistenza indispensabili alla sopravvivenza dignitosa anche dei disoccupati, dei precari, degli anziani, dei giovani, degli inabili al lavoro.

A partire da tale necessaria premessa ne deriva che bisogna prestare particolare attenzione quando, seguendo alcune impostazioni di carattere economico-sociale, cooperativo, apparentemente solidaristico, (vedi ipotesi sull’economia della partecipazione , sull’impresa sociale, sul Terzo Settore), si propongono alcune forme di salario minimo garantito che, se non tengono conto del carattere di per sé già sociale del salario, cadendo di fatto nella richiesta di assistenzialismo, di carità garantita, di riproposizioni di clientele, di rapporti subordinati di scambio che svuotano, delegittimano e ostacolano la riproposizione del conflitto a partire dalla centralità del diritto al lavoro.

Anche questo può essere un modo per realizzare profitto da parte del capitale attraverso il controllo della cosiddetta economia sociale, sfruttando anche in termini fiscali le donazioni a fini solidaristici, allargando le possibilità di finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico. Si realizza così anche un uso strumentale del Terzo Settore finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.

Non si tratta quindi di richiedere quel minimo vitale a carattere etico e filantropico che può assumere la forma di salario minimo o reddito garantito, ma si vuole imporre semplicemente il pieno riconoscimento della forma sociale del salario riferito all’intera classe lavoratrice e storicamente determinato e derivato dai rapporti tra lavoro e capitale. È per questo che tale diritto preferiamo individuarlo con i nome di reddito sociale minimo di cittadinanza.

In questa visione lo stesso Welfare State è un concetto limitativo, poiché voluto e derivato dal punto di vista del capitale come possibilità di limitare la rivendicazione dell’intero reddito sociale che globalmente spetta alla classe lavoratrice. Quando si attraversano fasi di crisi o di ristrutturazione complessiva (vedi l’Europa di Maastricht) allora il capitale si sceglie la via di allontanarsi sempre più dal reddito minimo sociale globale, tagliando la spesa pubblica e affidando alcuni servizi sociali al volontariato.

È per questo che oggi va riproposta una battaglia europea dell’intera classe dei lavoratori, occupati e non occupati, garantiti e non, come momento centrale della iniziativa legata alla riproposizione verticale dei conflitti sociali a partire dalla distribuzione sociale dell’accumulazione del capitale, della ricchezza sociale generale complessivamente prodotta. Si propone così una iniziativa politica a livello europeo sulla salvaguardia e rivendicazione di distribuzione a tutti i lavoratori, occupati e non, dell’intero spettante salario sociale prodotto come classe, tralasciando le richieste corporative basate sul salario individuale e sulle forme di elargizione caritatevole di “soccorso agli esclusi”. Questo è il significato legato al riconoscimento del reddito sociale minimo di cittadinanza.

Non sono quindi le parvenze di un “equo” Stato sociale, di forme di democrazia economica basate sull’apparente partecipazione e la cogestione, non è quindi la richiesta corporativa di elargizione caritatevole di un minimo vitale, che possono riverticalizzare il conflitto sociale bensì è attraverso la lettura storico-economica del rapporto fra capitale e lavoro, che si può esigere il pagamento di un equo reddito sociale reale complessivo.

8. Una nuova fiscalità: distribuzione sociale degli incrementi di produttività e dell’accumulazione

Riaffermare la centralità del reddito sociale reale complessivo, attraverso il riconoscimento, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita e di un reddito sociale minimo di cittadinanza, significa rimettere le mani sul bilancio pubblico incrementando le entrate che derivano dalla tassazione del capitale e dell’accumulazione. In tal modo si può abbandonare la logica del salario individuale che deriva dalla contrattazione aziendale e comunque basata sui rapporti di forza tra capitale e lavoro, riportando la contraddizione ad un livello più alto fra Stato e capitale, facendo pesare la realizzazione di tali obiettivi fiscalità generale, addossata maggiormente al capitale, in modo da restituire alla classe lavoratrice ciò che nel tempo ha dato in termini di incremento di produttività e di contributo forzoso all’accumulazione.

Per iniziare a realizzare tali obiettivi minimi bisogna a questo punto inserire un altro argomento macroeconomico fondamentale, che è volutamente sorvolato o affrontato in chiave esclusivamente “morale” e, quindi, non risolutiva dai tecnici ed economisti che fanno riferimento al nuovo modello economico-sociale concertativo. Stiamo parlando dell’evasione e dell’elusione fiscale, e più in generale di una radicale riforma fiscale in grado di prelevare le entrate del bilancio pubblico da una maggiore e più articolata tassazione dei capitali.

Il sistema fiscale italiano insiste nell’assoluta persistenza di protezione dell’evasione e dell’elusione e di continui e massicci trasferimenti, agevolazioni ed incentivi alle imprese. Si consideri che negli ultimi anni mediamente oltre i due terzi delle società di capitale denunciano un IRPEG negativa, e più del 25% dimostrano di realizzare un reddito imponibile al di sotto dei 20 milioni; senza considerare che la stragrande maggioranza dei lavoratori autonomi denunciano redditi inferiori ai loro dipendenti. All’opposto invece i lavoratori dipendenti, i pensionati e i redditi da famiglia in genere sono giunti a carichi contributivi ormai insostenibili.

La costruzione di un’Europa sociale del lavoro ha bisogno di ridistribuire reddito e ricchezza attraverso un fisco che aumenti la massa dei contribuenti, contraendo l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, colpendo i capitali speculativi, i movimenti di capitale all’estero, tassando l’innovazione tecnologica, recuperando in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività del lavoro che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni.

Perché non porre come perno centrale delle politiche economiche la lotta seria all’evasione ed elusione fiscale in modo da ampliare le possibilità di intervento dello Stato sociale, abbandonando le politiche monetariste restrittive, le politiche neo-liberiste dei tagli alla spesa sociale, della mobilità e flessibilità; di un sistema dei diritti che si trasforma in benevola carità cristiana puntando ad un Terzo Settore, un volontariato che deve sostituire il Welfare State, ma piuttosto realizzando una incisiva politica delle entrate che finalmente punti alla riduzione dell’evasione fiscale che in Italia raggiunge valori altissimi.

Ed allora bisogna trovare politiche, sistemi di controllo in grado effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto e una rendita che non siano di fatto esentati dalla contribuzione; invertendo così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota dei trasferimenti di reddito allo Stato sempre più aumentare a scapito delle famiglie e a vantaggio delle imprese.

Si può così contribuire ad invertire la tendenza di una politica di fiscalità che si esprime a favore del “nuovo patto sociale”, attraverso le elargizioni dirette e indirette di favore al “nuovo blocco sociale” che ruota intorno alle centralità delle imprese, realizzando un sistema fiscale nel quale più si è ricchi, più si è detentori del fattore capitale e meno si partecipa alla spesa collettiva, con la rendita e il profitto che non devono essere intaccati, e con un’evasione fiscale che è di fatto legalizzata. Di contro sono sempre i redditi delle famiglie ad essere direttamente e indirettamente spremuti, restringendo ulteriormente le forme di redistribuzione del reddito; trasformando le forme di redistribuzione egualitaria del reddito in forme al ribasso di uguaglianza che puntano a ripartire tra i poveri solo la miseria; contrapponendo i giovani agli anziani, gli occupati ai disoccupati, il diritto al lavoro ai diritti del lavoro, gli aumenti occupazionali a salari ridotti, alla flessibilità, alla grande precarietà, al continuo abbassamento della qualità del lavoro e della qualità della vita.

Si tratta di scegliere un terreno offensivo anche in ordine alle politiche fiscali, recuperando per i lavoratori almeno parte del tempo reso disponibile dagli incrementi di produttività del lavoro che il capitale trasforma in disoccupazione strutturale, in quanto si tratta di forza-lavoro che non è più compatibile far tornare all’impiego, perché i bisogni derivanti dalla domanda di produzione mercantile non sostengono più lo sviluppo capitalistico. Visto quindi l’enorme incremento di accumulazione media del capitale, derivante da incrementi di produttività, è giunto allora il momento di tassare di meno i lavoratori e invece di aumentare fortemente la tassazione sulle macchine, sui robot, sulle innovazioni tecnologiche, sui grandi patrimoni.

L’introduzione dell’IRAP è una nuova scelta per favorire ancora le multinazionali, le grandi imprese, i grandi capitali, colpendo invece in maniera ancora più forte le microimprese e in genere i redditi medio-bassi.

Un terreno immediatamente praticabile è invece quello di applicare una efficace imposta patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi patrimoni, di tassare i guadagni in conto capitale (capital gain), di ridurre le agevolazioni verso le imprese, per poter così aumentare la spesa pubblica in modo che questo possa rappresentare un investimento ad alta redditività sociale basato su principi di giustizia fiscale e tributaria, e quindi di giustizia sociale.

Invertire la tendenza abbassando il carico fiscale sul lavoro dipendente e sul lavoro autonomo più marginale, colpendo maggiormente le società di capitale, le rendite finanziarie, i profitti, i capital gain, i grandi patrimoni significa semplicemente assolvere ai dettami costituzionali secondo i quali il carico fiscale deve servire per redistribuire i redditi dall’alto verso il basso. Significa, inoltre, recuperare quasi 300.000 miliardi annui di evasione di imposte dirette, di imposte immobiliari, di imposte indirette e di evasione contributiva. Già il recupero di una parte di tali ingenti somme di evasione annua significa poter adeguare le entrate pubbliche finalizzandole ad un rafforzamento del Welfare State e non ad una rincorsa dei tagli della spesa sociale.

Si consideri inoltre che le plusvalenze, realizzate dalla differenza fra quanto ricavato al momento della vendita di un titolo azionario e quanto pagato per il suo acquisto (capital gain), non è attualmente gravato da alcuna imposta. D’altro canto non esiste in generale una seria tassazione dei redditi da capitale, vanno quindi riviste e incrementate le aliquote delle ritenute almeno a partire da una determinata soglia minima di possesso dei titoli (si dovrebbe per lo meno giungere, sia per i titoli privati sia per i titoli pubblici, ad un passaggio dall’attuale aliquota del 12,5% ad una del 30%) facendo si che gli interessi maturati sui titoli debbano essere indicati nella dichiarazione dei redditi. È inoltre assente una qualsiasi forma di tassazione sulle transazioni riguardanti prodotti finanziari denominati in valuta estera, senza che siano colpiti in alcun modo i trasferimenti internazionali di capitale, neppure quelli a finalità speculativa.

Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capitale, fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.

Inoltre il sistema fiscale deve allargare l’area delle tutele, permettendo maggiori deducibilità fiscali delle spese a carattere sociale sostenute dalle famiglie, in modo tra l’altro da contribuire così a colpire vasti fenomeni di evasione ed elusione fiscale. Si fa ovviamente riferimento ad una serie di spese, che in uno Stato dei diritti e delle garanzie universali, dovrebbero essere tutte a carico della fiscalità generale ( spese per lo studio, spese per l’assistenza, spese per le manutenzioni della casa, spese per l’affitto di abitazioni principali, riparazioni di autoveicoli, ecc.).

Le soluzioni sono a portata di mano e realizzabili in maniera tale da diminuire il carico fiscale su pensioni, su lavoro dipendente, su artigiani e piccoli commercianti, sulle microimprese, e trovando invece il bilanciamento con forme diverse di tassazione che si trasferiscono dai salari alle rendite, ai patrimoni, all’accumulazione di capitale, aumentando e migliorando così lo Stato sociale.

Si tratta di recuperare all’occupazione, al rafforzamento dello Stato sociale, al riconoscimento di un reddito sociale minimo di cittadinanza, qualcosa come diverse centinaia di migliaia di miliardi l’anno. Ci sembra quindi un obiettivo minimo, praticabile quello di aprire una battaglia, una iniziativa di dibattito e di lotta, già a partire dalla Finanziaria del prossimo anno, che realizzi la nostra “ragionevole utopia”: riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione del lavoro; riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore; un milione di posti di lavoro ripartendo da produzioni non mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore; almeno 50 mila miliardi da destinare al reddito sociale minimo di cittadinanza.


9. Porre le basi per la costruzione di un modello di sviluppo solidale fuorimercato socio-ecocompatibile

Per iniziare a realizzare quanto su esposto è necessario studiare, proporre le modalità di un diverso sviluppo economico, al fine di migliorare la produzione, accrescendo quella non necessariamente mercantile, utilizzando le tecnologie più avanzate nel rispetto delle norme ambientali e del controllo dell’inquinamento, riconsiderando la quantità e la qualità del tempo liberato e le modalità di un lavoro a valenza sociale complessiva.

Tali finalità mettono da subito in discussione l’ipotesi neoliberista incentrata sulla competitività d’impresa, sul ruolo di un nuovo Profit State, sulle “insuperabili” leggi di mercato, e impongono che la progettualità strategica sia mediata attraverso tappe di opportunità tattica immediatamente praticabili. Si può, conseguentemente, aprire già da oggi una intensa campagna di sensibilizzazione sulla socio-eco-compatibilità produttiva che investa i produttori, i consumatori e lo Stato, uno Stato non solo garante ma con un ruolo di forte e attivo interventismo volto alla realizzazione di leggi occupazionali e di controllo e indirizzo dell’attività economica, facendo concorrere anche adeguati strumenti fiscali in grado di forzare le aziende ad intraprendere politiche occupazionali ed innovative, a forte connotato di compatibilità sociale ed ecologica.

In questa fase del dibattito politico-economico bisogna uscire da una logica difensiva, riporre come centrale il problema dell’antagonismo sociale e ripartire all’attacco anche con obiettivi intermedi di fase, ma ben definiti e caratterizzati. Le politiche monetariste del Profit State, le logiche consociative neo-liberiste che puntano all’abbattimento dello Stato sociale si possono controbattere interpretando in chiave di progresso il legame fra evasione fiscale e disoccupazione, perseguendo quindi non solo l’evasione e l’elusione fiscale ma colpendo le rendite finanziarie, economiche e di posizione.

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un modello di sviluppo solidale fuorimercato socio-ecocompatibile in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale.

Bisogna imporre un passaggio definitivo dal Profit State del consociativismo neo-liberista ad una riqualificazione non solo dello Stato sociale della cittadinanza, ma ad un nuovo Welfare State capace di redistribuire e socializzare la ricchezza complessiva.

Un nuovo modello di crescita economica, un forte progetto di rinnovamento che riaccenda le speranze sopite con una seria e corretta politica sociale non più basata sull’assistenzialismo e le spese improduttive, ma un percorso verso un progetto di una reale democrazia economica dell’antagonismo sociale e del lavoro. Al centro dell’iniziativa politica e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, le organizzazioni dei lavoratori che non hanno scelto il consociativismo, ma che anzi pongano come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.

 

 

Note

1 Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

2 Si vedano in proposito: Vasapollo L., “Uno Stato sociale per i nuovi bisogni della società terziarizzata del post capitalismo”, in “Il loro Welfare State”, Materiali, Commenti, Proposte, a cura delle Rappresentanze Sindacali di Base, Luglio, 1997; Martufi R., “Commissione Onofri: dallo Stato sociale allo Stato-impresa”, in “Il loro Welfare State”, Materiali, Commenti, Proposte, a cura delle Rappresentanze Sindacali di Base, Luglio, 1997; Martufi R., Vasapollo L., “Sviluppo capitalistico e modelli d’impresa”, in “Altra Europa” anno 3, n.8, 1997; Vasapollo L., “Dal Welfare State della cittadinanza al Profit State del consociativismo neo-liberista”; Intervento per il convegno nazionale del Partito della Rifondazione Comunista “Lo Stato sociale si riforma non si abbatte”, Roma, 7/8 giugno 1997.