Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società
Luciano Vasapollo
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4. Dal Welfare al Profit State per lo Stato-Impresa
In Italia l’attuale assetto politico e i progetti di riforma
del Welfare State, del sistema elettorale, della forma di Stato, della Costituzione,
trovano il loro punto di riferimento sul piano della ristrutturazione produttiva
legata alle prospettive del modello di sviluppo neo-liberista. Modello basato
come sempre sull’intensificazione dei processi di accumulazione, poi sulle riforme
istituzionali in modo da piegare i nuovi bisogni sociali alle esigenze di conservazione.
E i nuovi bisogni sono basati non solo sulla necessità di consumare merci ma
soprattutto di consumare servizi, cioè di rendere compatibile l’organizzazione
della produzione basata su sempre più intensi processi di terziarizzazione funzionali
all’adeguamento sulle nuove realtà del capitale.
Ma le contraddizioni di tale modello sono evidenti. Infatti
il quadro macroeconomico del nostro Paese evidenzia per il 1997, contrazione
e precarizzazione dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione
dell’inflazione dovuta soprattutto al forte calo della domanda. Inoltre si segnalano
oltre 8 milioni di poveri; 650 mila circa sono gli anziani che percepiscono
l’assegno di pensione sociale di neppure 500.000 lire; più di sette milioni
sono i titolari di pensioni INPS con una pensione inferiore al milione al mese
e tra questi oltre quattro milioni ne percepiscono una al di sotto delle 700.000.
Oltre tre milioni sono i disoccupati dichiarati (con un tasso di disoccupazione
che sfiora il 13% e al Sud supera ampiamente il 20%); nei prossimi cinque anni
si ipotizza un tasso medio di disoccupazione al 15%, con punte di disoccupazione
femminile che nel Mezzogiorno potrebbero toccare il 55%. Non è ben precisato
il numero dei sottoccupati, dei sottopagati, dei precari, delle persone che
svolgono lavoro nero, e di tutti i cosiddetti disoccupati invisibili. Un ruolo
fondamentale è ormai svolto dalla precarizzazione, del lavoro e delle retribuzioni,
e dalla mobilità (tra il 1995 e il ’96 oltre due milioni di occupati hanno cambiato
settore lavorativo essendo costretti ad accettare spesso forme di flessibilizzazione
del salario; e solo nel ’96 circa 600 mila occupati si sono ritrovati nella
condizione di disoccupati). Vanno inoltre considerate le vere e proprie forme
di povertà ed emarginazione assoluta, la miseria di un sempre crescente numero
di persone che non riescono ad accedere neppure ai livelli minimi di sopravvivenza,
ad indispensabili cure mediche e ospedaliere, ad una pur minima dignitosa qualità
complessiva della vita.
A fronte della drammaticità che si può evincere dal precedente
quadro macroeconomico, il quale renderebbe necessario ed immediato un rafforzamento
delle politiche e delle prestazioni sociali, si susseguono proposte, provenienti
da destra e da sinistra, dalla Confindustria, dalla Banca d’Italia, dai sindacati
confederali, fino a una folta schiera di economisti e Centri Studi, che spingono
sempre più alla realizzazione di un modello sociale ed economico che individua
lo Stato non più come garante e regolatore dei conflitti ma come parte in causa
a difesa della centralità non solo economica ma anche sociale dell’impresa ed
interprete sociale della logica, degli obiettivi e della cultura di un mercato
sempre più deregolamentato.
Ecco lo Stato sociale che si trasforma in Stato-Impresa, che
assume come centrale la logica di mercato, la salvaguardia e l’incremento del
profitto, trasforma i diritti sociali in elargizioni di beneficenza, effettua
comunicazione sociale che fa assumere il profitto, la flessibilità, la produttività
come nuove forme di “divinità sociale”, come la filosofia ispiratrice
dell’unico modello di sviluppo possibile. Si realizza così il passaggio definitivo
dallo Stato sociale della cittadinanza al Profit State del consociativismo
neo-liberista!
Il messaggio sociale che viene quotidianamente trasmesso, anche
se con modalità a volte diverse, è sempre basato sulla considerazione dogmatica
della validità dei criteri di efficienza dell’impostazione imprenditoriale,
realizzando così ogni forma di flessibilità sociale, del lavoro e salariale,
finalizzata all’abbattimento di ogni comportamento che si riveli rigido, conflittuale,
non omologabile alle compatibilità del profitto, alle leggi di un mercato sempre
meno regolato e sempre più selvaggio.
L’impianto delle proposte politico-economiche si incentra,
allora, con sfumature diverse, su politiche di tagli alla spesa pubblica, su
incentivi e trasferimenti sempre più cospicui alle grandi imprese, su riforme
istituzionali e costituzionali di stampo presidenzialista e sempre più autoritario,
di soffocamento delle minoranze e delle diverse incompatibilità; senza mai considerare
i costi sociali di tale modello, le esclusioni, le diversità, le emarginazioni,
le nuove povertà provocate da questo modo di essere dello sviluppo economico.
Da questo momento lo Stato comincia a distanziarsi dal
suo ruolo di garante e regolatore dei conflitti, poiché assume la cultura d’impresa
come determinante, come principio e unità concreta di iniziativa, come organizzazione
e gestione immediata della convivenza sociale. La centralità d’impresa
diventa per le istituzioni statali fattore di determinazione sociale, per cui
è dai processi di ristrutturazione dell’impresa che si può avviare un’analisi
per determinare la rottura dell’unità di classe, per influenzare e determinare
processi di mutamento della società e di tentativo di annientamento dell’antagonismo,
della conflittualità sociale.
È in questo quadro di riferimento che deve essere letto il
duro attacco che tale modello concertativo neo-liberista sta effettuando alle
condizioni di vita dei lavoratori, degli anziani, dei disoccupati, degli emarginati,
che trova, tramite la “riforma del Welfare State” l’esplicitazione della logica
della performance imprenditoriale come modalità di riforma di uno Stato
sociale che seguendo tale impostazione di fatto si trasforma in Stato-Impresa.
Per raggiungere questo scopo si è impostata una politica di risparmi in
settori fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando come obiettivi
prioritari la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli
indiscriminati alla spesa sociale.
Si propone una sanità sempre meno pubblica e più privata, con
l’introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa, la gestione
privata di alcuni ospedali molto grandi.
Le proposte consociative di abbattimento dello Stato sociale
sono basate sulla personalizzazione e privatizzazione del sistema di protezione
sociale, in particolare sul passaggio al mercato della sanità e della previdenza,
perché è la centralità d’impresa e del mercato che deve ormai contagiare ogni
tessuto sociale. Infatti anche l’impostazione globale delle politiche del
lavoro è fortemente ispirata dalle logiche contributive ed assicurative
che non fanno altro che produrre diminuzione delle tutele realizzando un lavoro
e un salario flessibile, non normativo, a basse garanzie.
Ciò che domina ormai per la scena economica è l’abbattimento
di qualsiasi rigidità di costi e di normative, per favorire l’impresa. Anche
la riforma del collocamento è indirizzata a sempre più intensi processi di privatizzazione
con la nascita di agenzie specializzate nel nuovo “caporalato” attraverso il
lavoro interinale.
Il nesso inscindibile tra lavoro e formazione diventa
la formazione che si modella sugli interessi delle aziende. La ricerca, la formazione,
la scuola, il rafforzamento della conoscenza collettiva sono ormai orientati
alla determinazione di un sistema formativo subalterno agli interessi degli
industriali, sempre più privatizzato; si veda in tal senso il finanziamento
pubblico alle scuole private che ha unito le istituzioni e quasi tutti i partiti
in un coro osannante di una superiore e omologata formazione privatistica.
Anche per l’assistenza, per la quale l’Italia impiega
risorse in questo settore solo per il 3.5% del PIL, le scelte sono finalizzate
al trasferimento della spesa per sanità e previdenza alla spesa più propriamente
di natura assistenziale. Nascono così proposte di un selezionato nuovo assistenzialismo
clientelare proponendo forme di accesso ad alcuni servizi sociali in base a
processi individuali che favoriscono la connessione e la ricomposizione istituzionale
e compatibile delle forme di dissenso sociale. È questo il vero significato
di proposte quali la “carta sociale”, l’introduzione di un “Fondo per i non
autosufficienti”, del “Minimo vitale”, sollecitando lo sviluppo di un sistema
fondato sulla “carità minima garantita” agli esclusi. Proposte finalizzate al
controllo delle fasce più deboli della società, rendendole ricattabili e condizionate
dal potere, innescando senza dubbio fattori che favoriscono la conflittualità
orizzontale fra le varie componenti sociali, ostacolando la ricomposizione di
classe, favorendo invece la nascita di veri e propri assistiti sociali, funzionali
ad un regolamento al ribasso del conflitto sociale e politico.
Per ciò che concerne il sistema pensionistico dal coro
consociativo si ascoltano messaggi univoci che parlano di una quota sproporzionata
della spesa previdenziale rispetto agli altri paesi europei, senza però chiarire
che in Italia vengono conteggiati, nella quota destinata alla spesa per pensioni,
anche i trattamenti di fine rapporto che negli altri paesi non esistono; inoltre
si inserisce nel computo delle pensioni anche quella parte di costo di carattere
assistenziale come le integrazioni al minimo e quelle non coperte da contribuzione.
Non si dice, inoltre, che nel resto d’Europa oltre il 10% del salario è destinato
a fondi pensione a carattere integrativo che in Italia a tutt’oggi hanno uno
scarso peso. Tutto ciò porta ad invertire l’ordine del problema, cioè in Italia
la spesa per pensioni è largamente inferiore a quella della media europea.
Sindacati confederali, imprenditori e Governo propongono in
continuazione messaggi apocalittici sull’abbattimento della spesa sociale poiché
questa non è più finanziabile a causa della tendenza demografica ad un invecchiamento
della popolazione, e quindi della conseguente elevata incidenza della spesa
pensionistica e sanitaria. Non si tiene invece conto dell’elemento economicamente
più importante e cioè che le politiche di Welfare sono in difficoltà perché
non ci sono più le condizioni, a causa delle scelte padronali che puntano al
mantenimento del profitto attraverso la riduzione della quantità di lavoro e
del suo costo, che avevano caratterizzato le fasi economicamente tendenti alla
piena occupazione e all’incremento del monte salari dai cui contributi proveniva
il finanziamento dello Stato sociale. Oggi con la disoccupazione strutturale
di massa si ha una conseguente contrazione del monte salari ( che in Italia
tra il 1980 e il 1995 è passato dal 48% del PIL al 41%), che accompagnata da
una evasione fiscale e contributiva istituzionalizzata, determina una condizione
complessiva macroeconomica in funzione della quale vengono a mancare le modalità
principali di finanziamento dello Stato sociale.
5. Fondi pensioni e speculazione finanziaria
Il vero obiettivo non è quello di riformare le pensioni, ma
è quello di privatizzarle, facendo pagare anche ai lavoratori italiani un alto
contributo per arricchire le assicurazioni private. Si introduce così pesantemente
la logica forzata del ricorso ai fondi pensione senza considerare i crack
finanziari e le ripercussioni estremamente negative sull’economia reale che
hanno prodotto ad esempio i fondi inglesi e statunitensi. Si pensi che i
fondi pensione dell’area del capitalismo anglosassone (Stati Uniti e Gran Bretagna)
e di quello renano (Germania e Giappone) muovono diverse decine di milioni di
miliardi di lire, che, circolando in mercati non disciplinati, non controllati,
in cui predomina un capitalismo selvaggio che insegue la mera realizzazione
del profitto, creando seri scompensi sociali in termini di sottrazione di risorse
agli impieghi in investimenti reali, provocando quindi aumento della disoccupazione,
abbassamento della qualità della vita in genere, abbattimento delle garanzie
sociali collettive.
I fondi pensione gestiscono cifre impressionanti che si spostano
da un paese all’altro inseguendo gli investimenti più redditivi, muovendo interessi
internazionali colossali, cogliendo ogni occasione favorevole offerta dai mercati,
producendo così in fase di rialzo un sostenimento del corso dei titoli ed impressionanti
cadute quando l’incertezza diventa predominante, come si può evincere anche
dalle crisi finanziarie che si sono susseguite in questo ultimo mese. In tal
modo i fondi pensione diventano fattore destabilizzante non solo del corso dei
titoli ma dello stesso assetto economico-sociale e politico dei vari paesi che
di volta in volta diventano bersaglio della speculazione finanziaria internazionale.
Va inoltre considerato che un fondo pensione è istituito con
il fine di effettuare ad una scadenza prefissata una prestazione in favore del
beneficiario sotto forma di rendita o di liquidazione del valore del capitale.
Si tratta comunque di prestazioni finanziarie generalmente erogate sul lungo
termine, in cui le scelte di gestione dovrebbero quindi essere legate a politiche
di investimento di medio-lungo periodo. Si configurano così degli investitori
istituzionali che dovrebbero agire con una elevata prevedibilità tra flussi
di entrata e di uscita.
Pertanto, anche qui da un punto di vista teorico, si tenta
di attribuire all’introduzione dei fondi pensione nel nostro Paese la capacità
di sviluppare fortemente il mercato borsistico italiano, ancora asfittico ed
arretrato rispetto a quello degli altri paesi a capitalismo avanzato. Si afferma
inoltre da parte delle più autorevoli fonti istituzionali, partitiche e sindacali
che i fondi pensione dovrebbero avere un effetto stabilizzante, capacità di
consentire un allungamento della vita media del debito pubblico, di stimolare
la propensione al risparmio attraverso una diversificazione degli strumenti
finanziari offerti ai risparmiatori, favorendo inoltre il processo di riallocazione
della proprietà delle imprese del nostro sistema produttivo, agendo così da
veicolo per la diffusione dell’azionariato popolare, dell’allargamento delle
basi di democrazia economica. Ma negli altri paesi dove i fondi pensione sono
più diffusi, paesi nei quali i mercati finanziari hanno spessore ed estensione
molto più significativa di quello italiano, si sono verificati episodi drammatici
che hanno messo in discussione la stessa strutturazione dei fondi stessi rivelando
la loro reale funzione e finalità. Il fondo pensione di per sé dovrebbe essere
caratterizzato da una rischiosità non eccessivamente elevata in quanto dovrebbe
realizzare operazioni di medio-lungo periodo. Ma la realtà ha dimostrato che
la rincorsa al profitto ha incentivato la realizzazione di politiche speculative
di breve termine e l’investimento dei fondi sul mercato azionario, contrastando
così con la finalità di tipo previdenziale che doveva essere assolta e provocando
in momenti di calo borsistico dei veri propri crolli con ripercussioni impressionanti
sulla stabilità del fondo e sull’andamento generale dell’economia.
L’esperienza ha quindi dimostrato che i fondi pensione hanno
spesso avuto un effetto destabilizzante per il mercato, accompagnato anche da
una lievitazione dei prezzi azionari causata dall’eccessiva liquidità.
È assurdo allora pensare che i problemi legati alla crisi della
previdenza pubblica possano essere risolti con lo sviluppo dei fondi pensione
legati ad enormi interessi privati; gli stessi sindacati confederali vogliono
partecipare alla “spartizione del bottino” contrattando la svendita della previdenza
pubblica con la loro assunzione diretta ed indiretta alla gestione dei fondi
pensione e contrabbandando questa come partecipazione dei lavoratori ai processi
di distribuzione dell’accumulazione.
La soluzione è da ricercare in un rafforzamento del sistema
previdenziale pubblico, in un aumento del suo grado di efficienza, in una ricerca
di equilibrio strutturale fra entrate e spese, fra modi di finanziamento e tipi
di prestazioni.
La privatizzazione della previdenza, una previdenza del mercato
e del profitto, rompe definitivamente il vincolo solidaristico intergenerazionale,
distrugge le prospettive di una tranquilla anzianità per il singolo lavoratore;
e tale determinazione privatistica oggi viene utilizzata contro le speranze
di finalmente liberare lo svolgimento di un’economia capace di garantire equilibri
sociali, crescita economica ed umana misurata attraverso la capacità di distribuire
socialmente reddito e ricchezza.
6. Stratificazione di classe e nuovi soggetti del dissenso
sociale
I vari modelli di analisi economica e sociale adottati a tutt’oggi
da studiosi di varia formazione e collocazione politica risultano ancorati a
forme di misurazione basati su parametri elaborati e desunti da una logica interpretativa
di “stampo industrialista”, logica che è assunta come centrale da gran parte
delle forze sindacali confederali e da forze politiche della sinistra, anche
di una parte di quella radicale e alternativa.
Per tali studiosi, per tali forze sindacali e politiche è sempre
l’industria, è sempre un modello “operaista” a spiegare l’articolazione degli
schemi dello sviluppo economico localizzativo e sociale ed a costituire la variabile
di riferimento nella definizione delle linee di indirizzo e di intervento politico-economico.
Continua, invece, la tendenza del nostro assetto produttivo
alla terziarizzazione, spesso realizzata attraverso flessibilità del lavoro
e delle remunerazioni, lavoro atipico e non garantito, sottoccupazione, supersfruttamento,
precarizzazione sociale in genere. Il processo di ristrutturazione e ridefinizione
del modello di capitalismo italiano ha quindi bisogno di nuove logiche interpretative,
di nuovi strumenti ignorati dalle analisi economiche di impostazione “industrialista”.
Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il
sistema socio-economico sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni nell’essere
e nell’interagire dei nuovi soggetti produttivi e sociali in genere, e ciò non
è possibile leggerlo e interpretarlo solo attraverso analisi ancora basate sulla
centralità operaia e di fabbrica.
Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati,
i nuovi soggetti economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati,
perché è predominante la cultura delle compatibilità industriale; una tipica
cultura anche di molte nuove intellettualità di sinistra che, al di là della
dichiarata collocazione politica, si rivelano portatori di un punto di vista
concertativo.
È così ancora una volta dimostrata la capacità penetrativa
del pensiero unico che propone come emergenti e vincenti le schiere dei nuovi
conservatori, i quali si arroccano a difendere un contesto economico ed istituzionale
non più rappresentativo della realtà sociale. Una realtà che invece è in continua
trasformazione, che fa si che siano definitivamente superate le categorie
interpretative di tipo industrialista, esclusivamente basate sulla
centralità della fabbrica classica e sul riconoscimento della superiorità ed
intramontabilità del pensiero liberista, anche se a correzioni riformiste.
È in quest’ottica che vanno interpretate le linee di riqualificazione
dell’attuale modello di sviluppo che continuamente propone nuove attività
economiche quasi sempre a carattere terziario, ufficiale e atipico non regolamentato;
nuovi e più intensi processi di terziarizzazione impliciti ed espliciti della
produzione industriale e un sempre maggiore sviluppo di servizi per il terziario.
Un terziario che sempre più identifica e si identifica in nuovi soggetti
sociali, che tende a caratterizzarsi anche con forme di lavoro a sempre
più alto contenuto di precarizzazione e di flessibilità del lavoro e del salario;
con falsi processi di crescita imprenditoriale che spesso nascondono gli incrementi
di disoccupazione, la esternalizzazione di commesse, soprattutto di servizi,
appaltate ad ex dipendenti licenziati e costretti, per realizzare un reddito,
a “mettersi in proprio”, con false promesse di ottenere lavori dall’impresa
madre, per poi chiudere presto l’avventura di “nuovi imprenditori”. Così va
letto il continuo aumento delle iscrizioni agli Uffici IVA e la corrispondente
alta mortalità che si riscontra annualmente.
In tale contesto va prestata attenzione al ruolo che può assumere
l’economia della partecipazione, come l’azionariato da lavoro, l’azionariato
diffuso e popolare, le forme di cogestione, di autoimprenditorialità, e di qualità
totale, comprendendo anche la riduzione dell’orario di lavoro che non tenga
conto degli incrementi di produttività attraverso l’aumento dell’intensità dei
ritmi e della saturazione dei tempi morti, anche detta condensazione, e del
maggior ricorso al lavoro straordinario per prolungare la giornata lavorativa.
Si tratta in ogni caso di forme più o meno occulte di cottimo generalizzato
legato al ricatto della mobilità e della flessibilità del lavoro e del salario
funzionale alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta vivendo.
L’autoimprenditorialità, la precarizzazione del lavoro, la
flessibilità del salario, l’occupazione interinale, cioè il nuovo caporalato,
il telelavoro, la multifunzionalità del lavoro, la fabbrica diffusa e integrata,
rappresentano la vera partecipazione dei lavoratori all’incremento di produttività,
alla determinazione delle nuove modalità di accumulazione del capitale derivanti
da sempre maggiori quantità di lavoro sociale complessivo erogato con modalità
tecnologiche e retributive diverse.
Si realizza così una società con maggiori differenziazioni
sociali, in cui è sempre più ridotto il sistema di protezione sociale a favore
delle fasce dei cittadini più deboli, fasce che si allargano sempre più andando
a comprendere anche quegli strati di società che fino a non molti anni fa erano
ritenuti protetti; come ad esempio i lavoratori del pubblico impiego,
alcune fasce di artigiani e commercianti, i pensionati, creando invece nel
contempo nuove povertà, nuovi bisogni a cui non si riesce o non si
vuole dare risposta, ampliando in ultima analisi l’area dell’emarginazione
sociale complessiva.
Cambia così radicalmente il quadro dello sviluppo economico
dell’Italia, con il passaggio da un modello polarizzato ed accentrato a quello
della “fabbrica sociale territorialmente diffusa”, caratterizzata da
un forte decentramento produttivo, dall’abbandono delle aree centrali
e dalla diminuzione delle dimensioni medie delle imprese e degli impianti, tutto
incentrato su precarizzazione dei rapporti di lavoro, negazione delle garanzie,
alta mobilità e flessibilità del lavoro.
A questo proposito un elemento di fondamentale rilievo diviene
il ruolo assunto dalle piccole e medie imprese. Queste sono protagoniste dello
sviluppo in funzione della loro specializzazione e capacità autopropulsiva basata
sulle nuove forme di “cottimizzazione” generalizzata del lavoro e sul
massiccio ritorno alla precarizzazione, alla flessibilità produttiva, del lavoro
e dei salari.
Un profondo processo di trasformazione di questo tipo deve
necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche, i vecchi
soggetti produttivi, le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate
dall’evoluzione dei tempi.
La ristrutturazione capitalistica ha di fatto dissolto le grandi
fabbriche dove meglio si organizzava l’antagonismo di classe, queste sono di
fatto smantellate e divise nei distretti, nelle imprese-rete, nelle filiere,
nei reparti produttivi diffusi nel territorio. La modifica della struttura produttiva,
i processi di ristrutturazione del sistema capitalistico hanno significato anche
modifiche nei bisogni, modifiche nelle figure produttive, modifiche nelle soggettualità
dello sviluppo.
Nei processi evolutivi dei sistemi produttivi locali e della
funzione imprenditoriale emerge ancora più chiaramente quanto il complesso delle
relazioni socio-economiche sia legato e determinato dai processi di riqualificazione
del modello capitalistico italiano.
Un nuovo modello che a fianco all’espulsione di manodopera,
alla disoccupazione che si fa strutturale, alla disoccupazione invisibile, al
lavoro sommerso, nero e sottopagato, alla precarizzazione e flessibilità, crea
nel contempo gli ammortizzatori del conflitto sociale attraverso le alte retribuzioni
agli operai specializzati, sviluppa una aristocrazia operaia che si fa
compartecipe e soggetto cogestionale. Si vengono così a realizzare false forme
di democrazia economica e industriale attraverso meccanismi controllati e funzionali
di cogestione, creando in modo funzionale al nuovo assetto produttivo il mito
del “fai da te”, dell’autoimprenditorialità.
Ma dietro gli incentivi, gli straordinari, i premi di produzione,
l’azionariato dei lavoratori, il lavoro autonomo di seconda generazione,
il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del
“popolo degli imprenditori”, altro non c’è che un capitalismo selvaggio
che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni che provocano
incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del
lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto
del lavoro.
L’enorme aumento delle aperture di partita IVA, cioè i nuovi
lavoratori autonomi, i nuovi piccoli imprenditori, altro non sono che il risultato
della scelta del capitale di espellere manodopera, di creare un indotto a carattere
prevalentemente terziario mal retribuito, senza il carico contributivo, di sollecitare
un generalizzato ricorso a forme più o meno nascoste di cottimo corporativo
da contrapporre ad ogni forma di rigidità del lavoro e retributiva, rendendo
tutto flessibile e compatibile al sistema della centralità dell’impresa e del
profitto.
Ma dalla diffusione nel territorio del modello di produzione
terziaria nascono e si sviluppano i nuovi soggetti dell’antagonismo che
si sostituiscono all’operaio massa e all’operaio sociale, costruendosi invece
come nuove figure deboli del meccanismo produttivo derivanti dalla
parte di classe operaia resa più flessibile e meno garantita; dal ceto impiegatizio
del terziario pubblico e privato, da alcune categorie più marginali di artigiani
e commercianti, oltre che dagli strati di precari, di emarginati e di fasce
sempre più consistenti di disoccupati.
La riflessione complessiva per la riapertura di un dibattito
sui processi di trasformazione dell’economia e della società, deve partire da
una prima fase di studio, di approfondimento scientifico che consiste nel classificare
il territorio dato secondo le caratteristiche delle unità produttive in esso
localizzate, giungendo conseguentemente ad identificare la forma che spazialmente
assume la distribuzione e l’interdipendenza delle attività produttive. Verificando
poi se emergono specializzazioni economiche capaci di generare modificazioni
nel mercato del lavoro, nelle tipologie del lavoro, nel tessuto sociale, nella
quantità e qualità delle risorse umane espulse o messe ai margini del nuovo
assetto socio-produttivo che si va definendo.
Il territorio viene ad assumere dei nuovi connotati
di classe a partire dalle nuove caratteristiche sociali e demografiche della
popolazione residente, per identificare la forma che spazialmente assumono le
aree residenziali e quali gruppi sociali le contraddistinguono, per definire
una diversa soggettualità sociale che in precedenza era propria della
fabbrica ed in questa si identificava e si organizzava.
È così che si valutano le tipologie sociali spazialmente localizzate
che contraddistinguono l’area di specializzazione produttiva e si può verificare
se esiste una aderenza fra identità produttiva, modello geografico ed economico
di sviluppo e nuove identità sociali capaci di ricomporre un’unità di
tutti i lavoratori, garantiti e non garantiti, per ritrovarsi nella
capacità di proporre diverse forme di dissenso sociale, uscendo dalle battaglie
difensive, riproponendo conflittualità offensive e verticalizzate fra capitale
e lavoro.
Attraverso questa procedura oggettiva e scientifica, si può
analizzare entro lo stesso ambito di studio l’analisi economica territoriale
per verificare le modalità di insediamento del sistema economico spazialmente
concentrato, specializzato in un certo settore o in certe modalità produttive,
relazionandolo ad una popolazione socialmente caratterizzata in modo coerente,
capace cioè di innescare contraddizioni economico-sociali e processi di socializzazione.
Valori e comportamenti orientati e derivati dalla presenza di un modello di
sviluppo che a causa della ristrutturazione dell’impresa e del capitale incide
profondamente sul territorio.
Territorio che rappresenta il centro verso il quale converge
una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle
nuove soggettualità che operano in una fabbrica sociale diffusa nel sistema
territoriale, nuovi soggetti che si ricompongono ad unità su un corpo
organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa
caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva
della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di proporre socialmente
la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.
È quindi a partire da tali nuove soggettualità dell’antagonismo
sociale che si può riorganizzare l’unità di interessi del mondo del lavoro ,
la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era
data a partire dall’organizzazione in fabbrica.