L’imbarazzante questione del diritto d’asilo. I rifugiati e le frontiere meridionali dell’Europa
Paolo Graziano
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Conosco molti che vanno in giro con un foglietto
dove c’è scritto quel che hanno di bisogno.
Chi gli capita di vedere il foglietto dice: è troppo.
Invece chi l’ha scritto dice: è il minimo.
Bertolt Brecht
1. Lo straniero in fuga e le paure dell’Occidente
Riconosciuto in via di principio dagli ordinamenti politici
della gran parte dei paesi del mondo, con diverse declinazioni giuridiche e
ideologiche, il diritto d’asilo ha tuttavia acquisito nell’ultimo decennio
una speciale rilevanza simbolica nel consesso democratico dell’Europa
occidentale, dando origine a controversi dibattiti, periodiche revisioni
normative ma anche ad allarmanti episodi di rimozione della questione, che in
alcuni momenti topici del suo sviluppo non riesce a superare la soglia di
disattenzione del sistema mass-mediatico e dell’opinione pubblica [1].
Si direbbe che le democrazie europee abbiano elaborato un
rapporto isterico con la questione dell’asilo politico, dovuto in buona misura
all’incapacità di conciliare le irrinunciabili petizioni di principio su cui
esse si fondano con la nuova configurazione assunta dalla massa dei rifugiati,
che per dimensioni, provenienza e composizione sociale risulta potenzialmente
dirompente nell’impatto con le strutture sociali dei paesi di destinazione. A
causa del mutato assetto geopolitico mondiale, che ha visto la sostituzione del
grande conflitto immateriale tra est e ovest con una miriade di micro-conflitti
reali dislocati nelle periferie del pianeta, il profilo del richiedente asilo è
radicalmente cambiato: esso corrisponde, attualmente, a quello dell’individuo
povero, appartenente ad un’etnia remota, proveniente da aree marginali e
depresse, in fuga dalla tirannia dell’indigenza come da quella di un qualche
governo autoritario - ma sono ancora compiutamente distinguibili le due cose?
Nel caso di queste persone l’applicazione del diritto viene
subordinata a una serie di considerazioni estranee alla sfera giuridica e
relative, piuttosto, alle questioni della sicurezza, dell’economia, dell’interesse
nazionale: in pratica, l’asilo politico diventa una delle tante variabili del
fenomeno dell’immigrazione, trattato con la stessa mistura di imbarazzo e
indifferenza, paternalismo e intolleranza. Nel cambiamento dell’atteggiamento
di governi e opinione pubblica occidentale nei confronti dei richiedenti asilo
ha avuto gioco certamente l’arresto dell’espansione economica delle ex
potenze coloniali, che nel secondo dopoguerra integravano agevolmente nel
tessuto produttivo i sudditi affrancati dei vecchi domini asiatici e africani,
ma anche lo sfaldamento delle contrapposizioni ideologiche che hanno formato in
occidente l’immagine del rifugiato politico. Finché esisteva la cortina di
ferro, le nazioni occidentali sentivano tra i propri doveri quello dell’accoglienza
degli esuli in fuga dalle dittature. Concedendo asilo a questo esiguo manipolo
di uomini, non propriamente stranieri perché soltanto da pochi decenni separati
dall’enclave europea o persino nazionale (è il caso della Germania), i
paesi del patto Atlantico potevano rappresentarsi come il bastione della
libertà e dei diritti umani senza pagare prezzi rilevanti in termini di
equilibrio sociale. Secondo Alessandro Dal Lago “questa situazione favorevole
alla cultura formale dei diritti umani si è interrotta drammaticamente con due
processi concomitanti, la fine del comunismo in Russia (e negli stati satelliti
dell’Est europeo) e quindi del bipolarismo, e l’inizio di una concorrenza
economica tra le grandi aree sviluppate del capitalismo mondiale. I conflitti
seguiti alla crisi dei regimi dell’Est europeo hanno fatto temere, a partire
dal 1991 (inizio della guerra nell’ex Jugoslavia) che masse di profughi si
riversassero negli stati dell’Europa occidentale, proprio come masse di
giovani della Ddr si erano riversati nella Germania federale nel 1989. Allo
stesso tempo, la paura del fondamentalismo islamico (dopo la Rivoluzione
iraniana e l’inizio della guerra civile in Algeria) e una crescente
insofferenza per i migranti provenienti dai paesi poveri hanno spinto gli stati
della Comunità europea ad assumere misure restrittive nei confronti degli
stranieri” [2].
Sono dunque le dimensioni del fenomeno, insieme all’incapacità
di riconoscere tratti familiari nei volti dei nuovi profughi, a determinare il
declassamento dell’asilo al livello delle problematiche concernenti l’immigrazione
comune, da trattare con gli strumenti della programmazione economica e dell’ordine
pubblico.
Paradossalmente, è proprio questa fuorviante equiparazione
ad accrescere l’interesse per il diritto d’asilo come oggetto di studio. Per
sua natura, infatti, la concessione dello status di rifugiato non può essere
esplicitamente subordinata alle logiche di gestione dei flussi migratori o alle
misure di deterrenza applicate per contenere l’ingresso di stranieri [3], ma deve
rispondere unicamente alle esigenze e agli interessi del richiedente: è un
riconoscimento all’esistenza che riguarda l’immigrato come persona,
non come forza-lavoro. Sulla maniera in cui viene trattata la questione dell’asilo
si può dunque misurare il rapporto che le società occidentali instaurano con
lo straniero, il diverso, l’altro in quanto tale, non in quanto
strumento utile alla propria prosperità. Ancor di più: l’asilo diventa la
lente con cui osservare il rapporto di una cultura con la diversità, l’alterità
e, di conseguenza, poiché la relazione con l’estraneo rivela sempre l’essenza
profonda del familiare, essa diventa l’occasione “per rendere palese ciò
che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per
smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a
ignorare e lasciare in uno stato di ‘innocenza’ o ignoranza sociale, per
portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente
è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra,
allo stato di segreto o non pensato sociale” [4].
2. Il fragile baluardo dell’Europa: il Meridione nella gestione delle
richieste d’asilo
Uno dei segnali più eloquenti dell’inclusione dei
richiedenti asilo nella massa indistinta e priva di diritti dei migranti che
tentano l’avventura occidentale è il cambiamento delle strutture e dei luoghi
deputati a trattare la questione nelle società di destinazione. Proprio nei
giorni in cui queste note vengono stese, sono stati licenziati i due regolamenti
attuativi della legge Bossi-Fini, che hanno il compito di specificare le
procedure per la concessione dell’asilo nel rinnovato quadro normativo: le
disposizioni, approvate il 9 luglio scorso, definiscono tra l’altro il
funzionamento di una delle novità capitali introdotte dalla Bossi-Fini in
materia di asilo, ovvero la commissioni territoriali per il riconoscimento dello
status di rifugiato, che di fatto sostituiscono la commissione centrale,
conservata dalla nuova normativa essenzialmente con compiti d’indirizzo e
coordinamento. D’altronde tale tendenza risultava già in parte emergente, di
fatto, in alcuni recenti provvedimenti eccezionali, come il temporaneo
trasferimento delle attività della commissione centrale presso la Prefettura di
Caserta dal 24 febbraio al 27 aprile 2004, per vagliare le richieste di quasi
mille profughi insediati lungo il litorale domizio. Nel corso del 2003 la
Commissione si era recata 8 volte nei luoghi di sbarco, esaminando durante
queste missioni 1607 domande e accogliendone 70 in tutto [5].
Di questa vicenda, utile ad esemplificare l’iter di una
richiesta d’asilo, si parlerà diffusamente più avanti. Il caso, tuttavia,
valga qui a specificare la natura del cambiamento cui si accennava, che vede lo
spostamento dei compiti relativi alla concessione dell’asilo dal centro alla
periferia dello Stato. In questo quadro, la lunga permanenza della commissione
in Campania come in altre zone del Sud chiarisce il ruolo che sta assumendo il
Meridione nella gestione del problema dei rifugiati e, viceversa, getta luce sul
mutamento culturale che ha investito la questione del diritto d’asilo su scala
ultranazionale. Il sud Italia è una delle aree deputate per l’Europa alla
contenzione e alla filtrazione dei flussi migratori: lo dimostra la
concentrazione sul territorio dei Centri di Permanenza Temporanea, situati per
lo più in prossimità delle coste meridionali (11 su 16) [6]. Tale dislocazione non è certo casuale, ma risponde a criteri
logistici inclusi nel testo della legge Turco-Napolitano, che all’articolo 12
comma 1 parla di centri di permanenza costituiti “preferibilmente in
prossimità del confine”. La presenza nella stessa area degli organi preposti
alla tutela di un diritto universale e di strutture sostanzialmente
detentive [7], in cui
spesso finiscono gli stessi richiedenti asilo, è indicativa di una convergenza
tra l’ottica con cui viene trattata la questione dell’asilo e gli indirizzi
politici applicati al più generale fenomeno dell’immigrazione, spesso
concepito in termini di “problema”, “emergenza”, etc. Tale
corrispondenza si manifesta peraltro su scala europea, come conferma la
restrizione della normativa sulla concessione dell’asilo attuata in primis
dai paesi di vecchia immigrazione.
In tale contesto al Sud non si chiede di essere territorio di
accoglienza e integrazione ma luogo di esclusioni, baluardo contro le invasioni
barbariche scaturite da meridioni ancor più lontani dai centri della
programmazione economica mondiale. L’ingresso clandestino, il ricongiungimento
familiare, la richiesta d’asilo non sono percepite come il risultato di
progetti migratori effettivamente diversi e irriducibili l’uno all’altro,
ma come modalità intercambiabili scollegate da situazioni reali e impiegate
indiscriminatamente, a seconda delle circostanze, per conquistare un posto nella
ricca Europa. Nella logica del conflitto insita in questo modello dell’“invasione”,
il Sud assume la funzione di opposizione all’ingresso dello straniero,
amplificata dal fatto che deve garantire non solo la protezione della nazione ma
dell’intero territorio comunitario. Si tratta di un modello di pensiero ormai
dominante se un leader progressista come Romano Prodi, rimarcando la funzione
dell’Italia nel sistema di Schenghen, sostiene che “noi rispondiamo per
tutta l’Europa di queste frontiere” [8]. D’altro canto, la
protezione dei confini europei dai migranti è stata più volte richiamata come
condizione imprescindibile per la piena integrazione di paesi come la Spagna e l’Italia
nel contesto economico-politico dell’Unione: nel giugno del ’97, all’indomani
della stipulazione degli accordi di Schenghen, esponenti del governo tedesco
sostenevano apertamente che l’Italia non avesse i mezzi per garantire il
controllo delle frontiere comuni.
Probabilmente questa considerazione non ha perso d’attualità:
il nostro come gli altri paesi dell’Europa mediterranea non sono in grado di
controllare capillarmente il flusso dei migranti verso occidente. Tuttavia ci
sta provando, e per questo il Meridione è stato trasformato nel limes
che separa il dominio della prosperità da quello dell’indigenza, riducendo la
complessità e le potenzialità di un territorio alla rigidità di una linea di
confine dove, naturalmente, si addensano e deflagrano i conflitti tra nord e sud
del mondo.
[1] Un esempio
della “distrazione” degli organi d’informazione è fornito dal silenzio di
molti quotidiani nazionali sulla recente approvazione in Consiglio dei Ministri
delle nuove procedure per ottenere lo status di rifugiato in Italia, in
attuazione della legge Bossi-Fini. Il fatto, che comporta una serie di
cambiamenti non trascurabili nella posizione dei richiedenti asilo, è stato
taciuto o liquidato con telegrafici trafiletti dai giornali del 10 luglio
scorso.
[2] Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una
società globale, Feltrinelli, Milano 1999, nuova ed. ampliata 2004, p. 218.
[3] Avviene
invece il contrario: oggi le nazioni occidentali escludono automaticamente la
possibilità di riconoscere asilo alle persone provenienti da paesi con cui sono
stati stipulati accordi bilaterali sull’immigrazione, anche quando si tratta
di Stati polizieschi e autoritari, come quello dell’Algeria.
[4] Sayad, La doppia pena del
migrante. Riflessioni sul “pensiero di stato”, in “aut aut”, n. 275,
1996, p. 10.
[5] Nota del Ministero
degli Interni, http://www.cir-onlus.org.
[6] Se si considerano i
numeri di posti disponibili nei CPT, la sproporzione tra il sud e le altre aree
del paese risulta ancora maggiore: su 4912 posti ben 4227 sono collocati nelle
strutture meridionali (Cfr. Numeri sociali 2004, a cura del Centro
Documentazione dell’Agenzia Redattore Sociale, Capodarco di Fermo (AP), 2004,
pp. 64-65).
[7] Sul paragone tra i CPT e le cosiddette “istituzioni totali”
(carceri, ospedali psichiatrici) si veda il Rapporto sui Centri di Permanenza
Temporanea in Italia, a cura di Medici Senza Frontiere, 2003.
[8] R. Prodi, Intervento conclusivo,
in Presentazione del rapporto annuale 1997 sui problemi della sicurezza in
Emilia Romagna, Bologna, 1 dicembre 1997, p. 17.