L’imbarazzante questione del diritto d’asilo. I rifugiati e le frontiere meridionali dell’Europa

Paolo Graziano

 

Conosco molti che vanno in giro con un foglietto
dove c’è scritto quel che hanno di bisogno.
Chi gli capita di vedere il foglietto dice: è troppo.
Invece chi l’ha scritto dice: è il minimo.
Bertolt Brecht

 

1. Lo straniero in fuga e le paure dell’Occidente

Riconosciuto in via di principio dagli ordinamenti politici della gran parte dei paesi del mondo, con diverse declinazioni giuridiche e ideologiche, il diritto d’asilo ha tuttavia acquisito nell’ultimo decennio una speciale rilevanza simbolica nel consesso democratico dell’Europa occidentale, dando origine a controversi dibattiti, periodiche revisioni normative ma anche ad allarmanti episodi di rimozione della questione, che in alcuni momenti topici del suo sviluppo non riesce a superare la soglia di disattenzione del sistema mass-mediatico e dell’opinione pubblica [1].

Si direbbe che le democrazie europee abbiano elaborato un rapporto isterico con la questione dell’asilo politico, dovuto in buona misura all’incapacità di conciliare le irrinunciabili petizioni di principio su cui esse si fondano con la nuova configurazione assunta dalla massa dei rifugiati, che per dimensioni, provenienza e composizione sociale risulta potenzialmente dirompente nell’impatto con le strutture sociali dei paesi di destinazione. A causa del mutato assetto geopolitico mondiale, che ha visto la sostituzione del grande conflitto immateriale tra est e ovest con una miriade di micro-conflitti reali dislocati nelle periferie del pianeta, il profilo del richiedente asilo è radicalmente cambiato: esso corrisponde, attualmente, a quello dell’individuo povero, appartenente ad un’etnia remota, proveniente da aree marginali e depresse, in fuga dalla tirannia dell’indigenza come da quella di un qualche governo autoritario - ma sono ancora compiutamente distinguibili le due cose?

Nel caso di queste persone l’applicazione del diritto viene subordinata a una serie di considerazioni estranee alla sfera giuridica e relative, piuttosto, alle questioni della sicurezza, dell’economia, dell’interesse nazionale: in pratica, l’asilo politico diventa una delle tante variabili del fenomeno dell’immigrazione, trattato con la stessa mistura di imbarazzo e indifferenza, paternalismo e intolleranza. Nel cambiamento dell’atteggiamento di governi e opinione pubblica occidentale nei confronti dei richiedenti asilo ha avuto gioco certamente l’arresto dell’espansione economica delle ex potenze coloniali, che nel secondo dopoguerra integravano agevolmente nel tessuto produttivo i sudditi affrancati dei vecchi domini asiatici e africani, ma anche lo sfaldamento delle contrapposizioni ideologiche che hanno formato in occidente l’immagine del rifugiato politico. Finché esisteva la cortina di ferro, le nazioni occidentali sentivano tra i propri doveri quello dell’accoglienza degli esuli in fuga dalle dittature. Concedendo asilo a questo esiguo manipolo di uomini, non propriamente stranieri perché soltanto da pochi decenni separati dall’enclave europea o persino nazionale (è il caso della Germania), i paesi del patto Atlantico potevano rappresentarsi come il bastione della libertà e dei diritti umani senza pagare prezzi rilevanti in termini di equilibrio sociale. Secondo Alessandro Dal Lago “questa situazione favorevole alla cultura formale dei diritti umani si è interrotta drammaticamente con due processi concomitanti, la fine del comunismo in Russia (e negli stati satelliti dell’Est europeo) e quindi del bipolarismo, e l’inizio di una concorrenza economica tra le grandi aree sviluppate del capitalismo mondiale. I conflitti seguiti alla crisi dei regimi dell’Est europeo hanno fatto temere, a partire dal 1991 (inizio della guerra nell’ex Jugoslavia) che masse di profughi si riversassero negli stati dell’Europa occidentale, proprio come masse di giovani della Ddr si erano riversati nella Germania federale nel 1989. Allo stesso tempo, la paura del fondamentalismo islamico (dopo la Rivoluzione iraniana e l’inizio della guerra civile in Algeria) e una crescente insofferenza per i migranti provenienti dai paesi poveri hanno spinto gli stati della Comunità europea ad assumere misure restrittive nei confronti degli stranieri” [2].

Sono dunque le dimensioni del fenomeno, insieme all’incapacità di riconoscere tratti familiari nei volti dei nuovi profughi, a determinare il declassamento dell’asilo al livello delle problematiche concernenti l’immigrazione comune, da trattare con gli strumenti della programmazione economica e dell’ordine pubblico.

Paradossalmente, è proprio questa fuorviante equiparazione ad accrescere l’interesse per il diritto d’asilo come oggetto di studio. Per sua natura, infatti, la concessione dello status di rifugiato non può essere esplicitamente subordinata alle logiche di gestione dei flussi migratori o alle misure di deterrenza applicate per contenere l’ingresso di stranieri [3], ma deve rispondere unicamente alle esigenze e agli interessi del richiedente: è un riconoscimento all’esistenza che riguarda l’immigrato come persona, non come forza-lavoro. Sulla maniera in cui viene trattata la questione dell’asilo si può dunque misurare il rapporto che le società occidentali instaurano con lo straniero, il diverso, l’altro in quanto tale, non in quanto strumento utile alla propria prosperità. Ancor di più: l’asilo diventa la lente con cui osservare il rapporto di una cultura con la diversità, l’alterità e, di conseguenza, poiché la relazione con l’estraneo rivela sempre l’essenza profonda del familiare, essa diventa l’occasione “per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di ‘innocenza’ o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale” [4].

2. Il fragile baluardo dell’Europa: il Meridione nella gestione delle richieste d’asilo

Uno dei segnali più eloquenti dell’inclusione dei richiedenti asilo nella massa indistinta e priva di diritti dei migranti che tentano l’avventura occidentale è il cambiamento delle strutture e dei luoghi deputati a trattare la questione nelle società di destinazione. Proprio nei giorni in cui queste note vengono stese, sono stati licenziati i due regolamenti attuativi della legge Bossi-Fini, che hanno il compito di specificare le procedure per la concessione dell’asilo nel rinnovato quadro normativo: le disposizioni, approvate il 9 luglio scorso, definiscono tra l’altro il funzionamento di una delle novità capitali introdotte dalla Bossi-Fini in materia di asilo, ovvero la commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato, che di fatto sostituiscono la commissione centrale, conservata dalla nuova normativa essenzialmente con compiti d’indirizzo e coordinamento. D’altronde tale tendenza risultava già in parte emergente, di fatto, in alcuni recenti provvedimenti eccezionali, come il temporaneo trasferimento delle attività della commissione centrale presso la Prefettura di Caserta dal 24 febbraio al 27 aprile 2004, per vagliare le richieste di quasi mille profughi insediati lungo il litorale domizio. Nel corso del 2003 la Commissione si era recata 8 volte nei luoghi di sbarco, esaminando durante queste missioni 1607 domande e accogliendone 70 in tutto [5].

Di questa vicenda, utile ad esemplificare l’iter di una richiesta d’asilo, si parlerà diffusamente più avanti. Il caso, tuttavia, valga qui a specificare la natura del cambiamento cui si accennava, che vede lo spostamento dei compiti relativi alla concessione dell’asilo dal centro alla periferia dello Stato. In questo quadro, la lunga permanenza della commissione in Campania come in altre zone del Sud chiarisce il ruolo che sta assumendo il Meridione nella gestione del problema dei rifugiati e, viceversa, getta luce sul mutamento culturale che ha investito la questione del diritto d’asilo su scala ultranazionale. Il sud Italia è una delle aree deputate per l’Europa alla contenzione e alla filtrazione dei flussi migratori: lo dimostra la concentrazione sul territorio dei Centri di Permanenza Temporanea, situati per lo più in prossimità delle coste meridionali (11 su 16) [6]. Tale dislocazione non è certo casuale, ma risponde a criteri logistici inclusi nel testo della legge Turco-Napolitano, che all’articolo 12 comma 1 parla di centri di permanenza costituiti “preferibilmente in prossimità del confine”. La presenza nella stessa area degli organi preposti alla tutela di un diritto universale e di strutture sostanzialmente detentive [7], in cui spesso finiscono gli stessi richiedenti asilo, è indicativa di una convergenza tra l’ottica con cui viene trattata la questione dell’asilo e gli indirizzi politici applicati al più generale fenomeno dell’immigrazione, spesso concepito in termini di “problema”, “emergenza”, etc. Tale corrispondenza si manifesta peraltro su scala europea, come conferma la restrizione della normativa sulla concessione dell’asilo attuata in primis dai paesi di vecchia immigrazione.

In tale contesto al Sud non si chiede di essere territorio di accoglienza e integrazione ma luogo di esclusioni, baluardo contro le invasioni barbariche scaturite da meridioni ancor più lontani dai centri della programmazione economica mondiale. L’ingresso clandestino, il ricongiungimento familiare, la richiesta d’asilo non sono percepite come il risultato di progetti migratori effettivamente diversi e irriducibili l’uno all’altro, ma come modalità intercambiabili scollegate da situazioni reali e impiegate indiscriminatamente, a seconda delle circostanze, per conquistare un posto nella ricca Europa. Nella logica del conflitto insita in questo modello dell’“invasione”, il Sud assume la funzione di opposizione all’ingresso dello straniero, amplificata dal fatto che deve garantire non solo la protezione della nazione ma dell’intero territorio comunitario. Si tratta di un modello di pensiero ormai dominante se un leader progressista come Romano Prodi, rimarcando la funzione dell’Italia nel sistema di Schenghen, sostiene che “noi rispondiamo per tutta l’Europa di queste frontiere” [8]. D’altro canto, la protezione dei confini europei dai migranti è stata più volte richiamata come condizione imprescindibile per la piena integrazione di paesi come la Spagna e l’Italia nel contesto economico-politico dell’Unione: nel giugno del ’97, all’indomani della stipulazione degli accordi di Schenghen, esponenti del governo tedesco sostenevano apertamente che l’Italia non avesse i mezzi per garantire il controllo delle frontiere comuni.

Probabilmente questa considerazione non ha perso d’attualità: il nostro come gli altri paesi dell’Europa mediterranea non sono in grado di controllare capillarmente il flusso dei migranti verso occidente. Tuttavia ci sta provando, e per questo il Meridione è stato trasformato nel limes che separa il dominio della prosperità da quello dell’indigenza, riducendo la complessità e le potenzialità di un territorio alla rigidità di una linea di confine dove, naturalmente, si addensano e deflagrano i conflitti tra nord e sud del mondo. -----

3. Da sud a sud. Origini e destinazioni dei richiedenti asilo

A cosa deve opporsi questa frontiera? Probabilmente non tanto alla massa indistinta dei migranti, ma ad un certo tipo di migrante che si affaccia negli ultimi anni ai confini meridionali del continente. Si tratta del migrante inadatto allo sfruttamento nel tessuto produttivo, dell’anziano, della donna o del bambino che ha bruciato ogni ponte alle proprie spalle, più spesso per costrizione che per un ponderato progetto migratorio. In questa tipologia rientra spesso il richiedente asilo, che i governi occidentali sembrano considerare un incomodo necessario a salvare certe petizioni di principio con il minor danno possibile.

La funzione selettiva delle frontiere - di quella costituita dal sud Italia tra le altre - è dunque di gran lunga più importante di quella repulsiva/oppositiva: non serve respingere e basta, ma respingere alcuni con apparati normativi restrittivi mentre si concede l’ingresso ad altri con appositi decreti sui flussi utili a procurare una selezionata ed efficiente forza-lavoro.

È chiaro che il modello dell’“invasione” degli extracomunitari, spesso legittimato dai media e suscitatore di vere psicosi sociali, può diventare un valido strumento per avallare politiche di ostilità ed esclusione, così come il concetto di “emergenza” - tanto frequente nei titoli giornalistici sull’immigrazione - crea l’humus favorevole alla revisione di diritti che appena il giorno prima erano considerati inalienabili. Eppure non ci sono invasioni in atto, ma trend di crescita regolari che corrispondono alle esigenze del mercato del lavoro, come dimostra il saldo tra flussi di entrata e di uscita molto positivo nel 2002 per le due ripartizioni del nord-Italia [9] e - sul piano delle opinioni - le frequenti richieste della classe imprenditoriale di ritoccare verso l’alto i flussi d’immigrazione programmati [10].

Nel caso dei richiedenti asilo, poi, il modello dell’invasione dell’Occidente è assolutamente inadeguato, e non solo per ragioni morali che suggerirebbero almeno qualche distinguo. Le statistiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), infatti, citano ai primi posti tra i paesi di destinazione il Pakistan, con 2.001.470 rifugiati, e l’Iran, con 1.868.000 rifugiati, ovvero due nazioni appartenenti ad aree depresse del pianeta. Se si considera l’incidenza di rifugiati sulla popolazione totale, ai primi posti compaiono ancora terre che risentono di pesanti fattori di svantaggio, come la Guinea (52,4 rifugiati su 1000), la Repubblica Democratica del Congo (40,8 su 1000) e la nuova Repubblica Federale Jugoslava (45,9 su 1000). Dei paesi della prosperosa Europa occidentale soltanto la Germania si colloca tra le prime dieci nazioni per numero di rifugiati, con 906.000 presenze e un’incidenza di 11 esuli ogni 1000 abitanti: la gran parte di loro, peraltro, è stata accolta grazie a una legislazione liberale promulgata nel dopoguerra che non esiste più da ormai 11 anni [11]. Non è dunque la direttrice sud-nord a costituire il percorso privilegiato dei profughi in fuga da focolai di conflitto e regimi autoritari. Più spesso essi si spostano da regioni difficili a luoghi contigui, poco oltre le frontiere patrie, ove trovano condizioni di vita appena più sopportabili e gli aiuti umanitari dei paesi occidentali, che hanno interesse a mantenere gli esuli lontano dal proprio suolo [12].

I motivi di tale comportamento migratorio risultano evidenti se si pone attenzione alla composizione sociale dei rifugiati: si tratta di una popolazione costituita in misura superiore al normale da donne, bambini, anziani, ovvero da individui che non contribuiscono direttamente alla guerra e ai suoi indotti, spesso obbligati a un esodo improvviso e involontario, condizionati dall’aspettativa del rientro, senza un progetto di cambiamento definito a guidare lo spostamento.

Analizzando simmetricamente il trend relativo all’accoglienza dei richiedenti asilo in Europa si ricavano essenzialmente delle conferme sull’assenza di reali minacce costituite dall’afflusso di rifugiati nel vecchio continente: nei primi tre mesi del 2004 l’Unione Europea fa registrare un calo del 15% dei casi di asilo politico (la Francia è l’unica nazione del gruppo in cui si verifica nello stesso periodo un aumento). Tra i maggiori decrementi si segnala quello di un paese di vecchia immigrazione come il Regno Unito e - caso significativo - quello della Grecia, ovvero di un territorio annoverato tra le frontiere dell’Europa, cui vengono attribuiti per molti versi compiti analoghi a quelli del meridione d’Italia. In generale, la diminuzione nell’Europa occidentale è stata a grandi linee costante a partire dal terzo trimestre del 2001 [i]. Il caso italiano presenta, in questa direzione, una tendenza ancor più marcata: dal 1999 alla fine del 2002, infatti, le richieste per ottenere lo status di rifugiato sono due volte dimezzate, passando dalle 33.000 del ’99 alle 14.000 del 2000 alle 9.620 del 2001. Un’ulteriore diminuzione, a ritmi più contenuti, si registra l’anno successivo con 7.280 domande inoltrate [i]. Nonostante la diminuzione in atto, secondo una nota del sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, nel 2003 sono state valutate positivamente solo 555 richieste d’asilo (cui vanno aggiunti 828 permessi di soggiorno concessi “per motivi umanitari”) [13].

Al paragone con queste cifre, appaiono fuori misura alcune reazioni del mondo politico successive all’ultimo caso che ha riacceso i riflettori sul tema dell’asilo, quello della nave Cap Anamur attraccata a Porto Empedocle con 37 esuli di nazionalità ghanese o nigeriana: concedendo l’attracco, secondo il ministro Castelli l’Italia si sarebbe dimostrata “il ventre molle d’Europa” [14].

Non c’è alcuna invasione in atto, eppure a gran voce si proclama lo stato di emergenza. Le procedure d’accoglienza, anche quelle in materia d’asilo, diventano guardinghe e sospettose. Il nemico è disarmato e vestito di stracci, ma i bastioni dell’Europa sono attrezzati per la guerra.

4. Il diritto va alla guerra: le restrizioni delle normative sull’asilo

Tra gli strumenti della guerra, la civilissima arma del diritto assolve a una funzione non secondaria nell’opposizione allo straniero che minaccerebbe l’Occidente. Talvolta, come ha dimostrato Alessandro Dal Lago, l’uso offensivo della legge comporta anche la disinvolta perversione dei suoi principi: che tipo di crimine è - si domanda il sociologo - la “clandestinità”, oggi sanzionata pesantemente da tutti gli ordinamenti giuridici occidentali? È un reato politico, amministrativo, penale? Di fronte all’arbitrio e alla vaghezza dei concetti giuridici inventati per disciplinare i comportamenti e lo status dello straniero non può che rispondere che “il diritto si arresta di fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio ambito”  [i].

Non sfuggono a questa considerazione le normative sul diritto d’asilo, che nella loro evoluzione sembrano vincolare sempre maggiormente la tutela della persona al criterio della programmazione e della selezione degli ingressi: “che in sostanza la questione delle migrazioni contemporanee sia un problema di libertà di movimento appare nella ridefinizione dello status dei profughi. Quasi tutti gli stati ricchi tendono a restringere il diritto d’asilo ai casi più vistosi - quelli per cui esiste qualche tipo di mobilitazione ufficiale o di interesse dell’opinione pubblica - disinteressandosi della grande maggioranza, cioè della normale violazione dei diritti nella fascia di stati autoritari che circonda l’Europa, gli Usa o il Giappone” [15].

Questo aspetto, che potrebbe essere definito dell’indirizzo politico delle attuali procedure per l’asilo, si intreccia con l’attività legislativa vera e propria, i cui sviluppi in Europa, nell’ultimo decennio, contribuiscono ad aumentare il divario tra la lettera dei diritti della persona (così come definiti ad esempio nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) e gli strumenti atti a garantirli. In questo senso un episodio capitale per il valore simbolico che ha assunto è la revisione della legislazione tedesca sui rifugiati, avvenuta nel 1993: si passava da un dettato costituzionale assolutamente favorevole all’accoglienza degli esuli a una normativa che di fatto aboliva la possibilità di ottenere lo status di rifugiato per le persone che hanno transitato in paesi aderenti alla Convenzione europea sui diritti umani o provengono da “paesi di origine sicuri”, secondo le valutazioni del governo tedesco [16]. L’Inghilterra ha praticato la medesima strada, equiparando in sostanza gli aspiranti allo status di rifugiati ai comuni migranti (tra l’altro, con la solita logica dell’ordine pubblico, i rifugiati devono essere distribuiti sul territorio e ricevono non soldi ma buoni acquisto). Persino la liberale Olanda ha ritenuto opportuno un giro di vite, abolendo il Pep, ovvero la possibilità del migrante di chiedere asilo ad un paese dell’Unione presso la sua ambasciata estera: il cambiamento, secondo Alexander Sorel, sarebbe giustificato dal fatto che, sulla base di un’interpretazione letterale della Convenzione di Ginevra, “qualcuno che si trova ancora nel suo paese d’origine non può essere definito rifugiato”  [i]. D’altronde la strategia di gestione del gruppo sociale dei richiedenti asilo presenta una costante negli attuali sistemi legislativi di quasi tutti i paesi europei, ovvero l’impossibilità per l’esule di chiedere rifugio se è passato, nel corso della sua fuga, in un paese in cui vigono le normative internazionali sulla protezione: così “le frontiere per i richiedenti asilo si spostano a ritroso da un paese democratico all’altro, come un collo che non passi la dogana” [17].

La difficoltà a riconoscere nello straniero e nel richiedente asilo in particolare un soggetto di diritto, di cui parlava Dal Lago, trova un caso esemplare nell’assetto legislativo italiano in materia, o meglio nella mancanza di un assetto legislativo esaustivo e coerente. Ormai da decenni, nel nostro paese, non esiste una legge ad hoc che disciplini l’accoglienza dei rifugiati, attuando i principi sottoscritti con il Trattato di Dublino del 1990. Fino ad oggi le procedure relative alla concessione dello status di rifugiato si sono basate su una selva di provvedimenti cronologicamente distanti e non sempre tra loro congruenti: alla radice della giurisprudenza sta l’articolo 10 del testo costituzionale, che stabilisce il diritto dello straniero a godere di asilo nel territorio della Repubblica qualora gli “sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche”. Le condizioni necessarie ad ottenere lo status sono enumerate dall’articolo 1 della Legge n. 39/90, la cosiddetta legge Martelli, e dal DPR n. 136 del 15 maggio 1990, che specifica i criteri con cui operare qualora non sussistano ragioni ostative alla concessione dell’asilo. Più recente il testo unico n. 286 del 1998 sull’immigrazione, che inserisce le procedure per la concessione della protezione nel quadro delle deliberazioni generali sull’immigrazione. In particolare la cosiddetta Turco-Napolitano, con l’articolo 20, introduce la possibilità di accoglienza eccezionale di individui appartenenti a determinate etnie o provenienti da certi luoghi riconosciuti a rischio, “anche in deroga a disposizioni del [...] testo unico”. Infine compare la legge n. 189/2002, la Bossi-Fini che apporta significative modifiche in materia di immigrazione e di asilo. La gestione delle decisioni sull’asilo viene decentrata, non è più prerogativa di un organo centrale rappresentante anche simbolicamente lo Stato d’accoglienza ma di commissioni territoriali composte da un funzionario prefettizio, uno della Polizia di Stato, un rappresentante della conferenza Stato-città ed autonomie locali e un componente dell’Unhcr.

La stessa composizione delle commissioni territoriali, a ben vedere, segnala il rischio sempre in agguato di uno snaturamento del diritto d’asilo: la competenza della conferenza Stato-enti locali potrebbe inquinare con interessi territoriali un provvedimento della Repubblica a favore di uno straniero che in linea di principio deve rispondere solo agli interessi di quest’ultimo. È stata poi criticata la norma che non garantisce la permanenza in Italia al richiedente che presenta ricorso contro il parere negativo della Commissione: il rimpatrio, infatti, potrebbe esporlo a gravi rischi per l’incolumità personale. Infine, il trattenimento del richiedente asilo nei Centri di Identificazione o nei Centri di Permanenza Temporanea, previsto in diversi casi (articolo 32), e la decadenza della domanda nel caso di allontanamento da questi luoghi, fanno pensare a una procedura di ordine pubblico piuttosto che a misure di carattere umanitario.

D’altronde il progetto di legge-quadro che dovrebbe finalmente affrontare il tema dei rifugiati, approdato alla Camera con un testo unificato il 12 luglio scorso, ha ricevuto le critiche di Amnesty International, Medici Senza Frontiere e Consorzio Italiano di Solidarietà proprio perché includeva tali disposizioni per gli asilantes privi di documenti: secondo le Ong, infatti, la mancanza di documenti caratterizza normalmente gli individui che fuggono da aree di conflitto o sono perseguitati per motivi politici. Secondo il Consiglio Italiano per i Rifugiati e le organizzazioni che ne hanno sottoscritto l’appello, “tale circostanza non può assolutamente portare al sospetto generalizzato che la persona intenda fare un uso strumentale del diritto d’asilo” [18].

Ma la cultura del sospetto - un sottoprodotto della generale sindrome dell’invasione di cui s’è detto - dilaga nelle modifiche legislative e nelle procedure effettivamente applicate dai paesi occidentali in tema d’asilo [19], svuotando di contenuto lo spirito dell’istituto e conformandolo ai criteri di gestione dell’ormai riconosciuta “emergenza immigrazione”.

5. La frontiera meridionale: il caso dei rifugiati nel casertano

Le caratteristiche dell’emergenza di cui s’è parlato potevano facilmente essere riscontrate nell’anomala concentrazione di 831 richiedenti asilo in provincia di Caserta, che attendevano da tempo l’esame della propria istanza da parte della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato [20]. La vicenda, conclusa pochi mesi fa, è utile a evidenziare il ruolo assunto dal Meridione nella gestione degli ingressi in territorio italiano ed europeo e il carattere emergenziale che, a causa di questa delega, assumono sempre più spesso i fenomeni migratori e i provvedimenti con cui essi vengono poi gestiti.

Alla fine del 2003 la chiesa locale, con il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro e i missionari comboniani di Castelvolturno [21], affiancati dall’opera certosina del Centro Sociale ex-Canapificio di Caserta, hanno raccolto il disagio degli asilantes in parcheggio, organizzando per il 31 gennaio 2004 una grande manifestazione romana che portasse il caso alla ribalta nazionale. Il risultato fu quello sperato: il Pontefice pronunciò parole d’intercessione a favore degli immigrati e il Viminale decise una missione straordinaria della Commissione a Caserta, per esaminare richieste che in alcuni casi giacevano nei cassetti degli uffici da un anno e mezzo. Si noti che, nel caso delle richieste d’asilo, le lungaggini burocratiche non sono solo un fastidioso contrattempo, ma una minaccia di fatto al diritto di sopravvivenza: la pratica corrente prevede, infatti, la concessione al richiedente asilo di un permesso di soggiorno temporaneo che reca l’esplicita proibizione di lavorare, accompagnato da un sussidio di circa 17 euro al giorno, normalmente sospeso dopo 45 giorni. “Alla scadenza di questo termine - dice Roger silvestre Adjicoude, mediatore interculturale della Caritas - allo straniero restano poche alternative: la miseria, il lavoro nero o, peggio, l’arruolamento nelle fila della criminalità” [22]. La singolare incongruità tra il sistema delle garanzie e i tempi effettivi dell’iter delle richieste può spiegare, in parte, la concentrazione degli aspiranti allo status di rifugiati nel sud Italia: chi si trova sospeso nel limbo dell’attesa, privato di mezzi, ha più facilità a sopravvivere in un territorio poco controllato, dove il mercato del lavoro è prevalentemente informale e raramente richiede documenti in regola.

Se la concentrazione di rifugiati in Terra di Lavoro mette in evidenza tratti peculiari del Meridione progettato dalle dinamiche della globalizzazione, i risultati del lavoro della Commissione - peraltro svolto con scrupolo e disponibilità, a giudizio delle organizzazioni che hanno seguito la vicenda - sono in linea con le tendenze globali. Su 708 stranieri intervistati soltanto 11 hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato [23]. La loro provenienza è abbastanza omogenea: buona parte dei pareri postivi riguarda immigrati in fuga dalla Liberia, dove è in atto un conflitto sanguinoso ampiamente riconosciuto dall’Onu. Altri luoghi d’origine, come il Ghana e in seconda istanza la Nigeria, non sono stati ritenuti altrettanto pericolosi e in questi casi molte istanze d’asilo sono state rigettate. Per i responsabili del Centro Sociale ex-Canapificio, il limite della procedura risiede per lo più nell’insufficienza dei dati disponibili su alcune zone calde del pianeta: “la Commissione - dice Mimma D’Amico - si trova a dover utilizzare i report ufficiali dell’Unhcr, delle Nazioni Unite o di grosse organizzazioni come Amnesty International, cui spesso è impedito il controllo di micro-conflitti e scontri interetnici anche violenti che avvengono nell’indifferenza del governo nazionale competente” [24].

Se ne deduce che alcuni casi di persecuzione restano praticamente invisibili: come sostiene Dal Lago, gli attuali assetti procedurali finiscono per riconoscere il diritto d’asilo prevalentemente a casi conclamati, su cui è allertata l’opinione pubblica internazionale. Spesso le situazioni dubbie, per le quali non è dimostrabile una persecuzione direttamente rivolta alla persona, si risolvono con la concessione di un temporaneo permesso di soggiorno “per motivi umanitari”, frutto di un’interpretazione restrittiva del Trattato di Ginevra che da tempo occupa il dibattito tra governi e associazioni umanitarie. A Caserta le decisioni in questo senso sono state 477, la maggioranza assoluta dei casi esaminati. Tuttavia “non è chiaro se tale stato potrà essere convertito alla scadenza in un permesso di soggiorno per lavoro nel caso subentri un contratto”, sottolinea Mimma D’Amico. Questo strumento di protezione vago e insufficiente non fa altro che generare nuove incertezze e confinare una volta di più le vite dei rifugiati nel recinto della precarietà.

6. Oltre il concetto di asilo

Gli strumenti legislativi ibridi, l’introduzione di modi afferenti alle logiche dell’ordine pubblico nelle normative sulla protezione, costituiscono in definitiva altrettanti indizi di un processo ormai in atto da quasi un decennio, che vede la progressiva assimilazione della questione dei rifugiati a quelle dell’immigrazione comune. In linea di principio, come abbiamo cercato di spiegare, se ne dovrebbe invece garantire la distinzione, poiché le due condizioni risultano irriducibili secondo le elaborazioni del diritto occidentale: nel caso degli ingressi per motivi di lavoro è ormai invalso il principio che gli interessi del migrante devono incontrarsi con quelli del paese accogliente, dunque si programmano flussi d’entrata e sistemi di “sponsorizzazione” che concilino l’offerta di braccia con la domanda di manodopera; data la situazione di provenienza e i motivi dello spostamento, invece, il diritto dei richiedenti asilo non dovrebbe essere sottoposto ad alcun vincolo, essendo la tutela della persona un valore assoluto.

Di fatto questa distinzione non è così marcata, nonostante le dichiarazioni e i trattati internazionali cui aderiscono le nazioni del ricco Occidente. Lo dimostra, tra le altre cose, la confusione della legislazione sull’immigrazione con quella relativa allo status di rifugiato, o addirittura l’assenza di una normativa specifica sull’asilo, come nel caso italiano.

Nel panorama della competizione globale, il peso dell’accoglienza disinteressata e priva di ritorni immediati in termini di contributo alla produzione viene demandato alle aree marginali, “trasferito - come sostiene Giuliana Zincone - verso la fascia esterna dell’Unione, che è anche quella meno prospera”. Nonostante il supporto economico del fondo europeo per i rifugiati, “il disagio sociale e organizzativo dell’asilo non è stato e non sarà ridistribuito” [25]. In questo schema la vicenda casertana, così come la questione della nave Cap Anamur, risulta illuminante.

Eppure ciò che una società sempre più globale non può limitare è proprio il diritto di movimento. Lo sapeva Marx, che legava indissolubilmente gli spostamenti umani e la variazione della composizione sociale all’espansione produttiva30.

D’altronde, i paesi che gestiscono le dinamiche della globalizzazione non potranno disinteressarsi a lungo degli effetti provocati dal proprio prevaricante modello si sviluppo, che spesso genera le stesse situazioni di estremo disagio da cui proviene l’imbarazzante massa di profughi in cammino verso Occidente. Lo stesso confine tra profughi e migranti, su cui si fonda formalmente il diritto d’asilo elaborato in Europa, sta diventando “puramente formale, visto che pressoché tutti i paesi di emigrazione sono governati, con l’assenso se non con la connivenza esplicita delle democrazie ricche, da dittature e regimi autoritari, in cui i diritti umani vengono quotidianamente violati”31.


[1] Un esempio della “distrazione” degli organi d’informazione è fornito dal silenzio di molti quotidiani nazionali sulla recente approvazione in Consiglio dei Ministri delle nuove procedure per ottenere lo status di rifugiato in Italia, in attuazione della legge Bossi-Fini. Il fatto, che comporta una serie di cambiamenti non trascurabili nella posizione dei richiedenti asilo, è stato taciuto o liquidato con telegrafici trafiletti dai giornali del 10 luglio scorso.

[2] Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999, nuova ed. ampliata 2004, p. 218.

[3] Avviene invece il contrario: oggi le nazioni occidentali escludono automaticamente la possibilità di riconoscere asilo alle persone provenienti da paesi con cui sono stati stipulati accordi bilaterali sull’immigrazione, anche quando si tratta di Stati polizieschi e autoritari, come quello dell’Algeria.

[4] Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di stato”, in “aut aut”, n. 275, 1996, p. 10.

[5] Nota del Ministero degli Interni, http://www.cir-onlus.org.

[6] Se si considerano i numeri di posti disponibili nei CPT, la sproporzione tra il sud e le altre aree del paese risulta ancora maggiore: su 4912 posti ben 4227 sono collocati nelle strutture meridionali (Cfr. Numeri sociali 2004, a cura del Centro Documentazione dell’Agenzia Redattore Sociale, Capodarco di Fermo (AP), 2004, pp. 64-65).

[7] Sul paragone tra i CPT e le cosiddette “istituzioni totali” (carceri, ospedali psichiatrici) si veda il Rapporto sui Centri di Permanenza Temporanea in Italia, a cura di Medici Senza Frontiere, 2003.

[8] R. Prodi, Intervento conclusivo, in Presentazione del rapporto annuale 1997 sui problemi della sicurezza in Emilia Romagna, Bologna, 1 dicembre 1997, p. 17.

[9] Dati Istat aggiornati al 1 gennaio 2003, http://demo.istat.it/altridati/permessi/presenza_straniera.pdf.

[10] Le richieste degli imprenditori occuparono le pagine dei giornali all’indomani della pubblicazione del D.P.C.M 8 febbraio 2000, che stabiliva il tetto massimo di permessi di soggiorno per motivi di lavoro da emettere nel corso dell’anno. La cifra (63.000 circa) si rivelò assolutamente inadeguata alle esigenze della produzione, generando critiche e richieste di modifiche. Il fatto mostrò all’opinione pubblica nazionale quale importanza riveste la manodopera immigrata nel sistema economico occidentale (cfr. A. Amati, La cronaca dell’anno attraverso i mass-media, in Fondazione Cariplo Ismu, Sesto rapporto sulle migrazioni 2000, Milano, 2000, pp. 67 sgg).

[11] Dati Unhcr, http://www.cir-onlus.org.

[12] Ciò nonostante le evidenti responsabilità dell’Occidente nella creazione delle condizioni di disagio che generano l’esercito dei profughi: si noti che i paesi da cui proviene in numero maggiore di richiedenti asilo sono quelli in cui i governi atlantici hanno scatenato recenti guerre strategiche, come l’Iraq e l’Afghanistan. (Dati Unhcr, http://www.cir-onlus.org).

[i] Asylum Levels and Trends in Industrialized Countries - First Quarter 2004, a cura dell’Unhcr, http://www.unhcr.ch/cgi-bin/texis/vtx/home/opendoc.pdf?tbl=STATISTICS&id=40c024c24&page=statistics.

[i] Asylum Levels and Trends: Europe and non European Industrialized Countries, 2003, a cura dell’Unhcr, http://www.unhcr.ch/cgi-bin/texis/vtx/statistics.

[13] Comunicazioni del sottosegretario di Stato per l’interno Mantovano alla Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani, seduta del 4 febbraio 2004, http://www.senato.it/Commissioni/Diritti_umani.

[14] Cfr. G. Mola, Castelli: “Precedente devastante”. L’opposizione: “Scelta giusta”, in “la Repubblica”, 13 luglio 2004, p. 9. Allo stesso atteggiamento mentale va ricondotta la rigida posizione assunta sul caso dalla Germania, che si è affrettata a dichiarare la propria indisponibilità a occuparsi dei rifugiati nonostante la nazionalità tedesca dell’equipaggio.
A. Dal Lago, op. cit., p. 223.

[i] Ivi, p. 253.

[15] Cfr. Werner K. Kannenberg, La legge sull’asilo politico in Germania, <http://www.acli.it/ipsia/ipsia%20file/Pagine/Attivit%C3%A0/Intercultura/legge.htm>.
A. Sorel, Olanda, in Atti del seminario internazionale Verso un più ordinato e gestito ingresso nell’Unione Europea delle persone che necessitano di protezione sociale, Roma, 13-14 ottobre 2003, p. 78.

[16] G. Zincone, Si spostano le frontiere, in “la Repubblica”, 13 luglio 2004, p. 9.

[i] Per una legge equa ed efficace sul diritto d’asilo, appello del Cir e altri 14 enti promotori, http://www.cir-onlus.org.

[17] Si considerino, al proposito, le parole del rappresentante francese al seminario sulla protezione dei profughi, a proposito della necessità di “verificare se la richiesta d’asilo corrisponda alle caratteristiche dell’asilo, così come è previsto dalla Francia, o non nasconda un desiderio di abuso delle procedure d’asilo” (E. Dequidt, Francia, in Atti del seminario internazionale Verso un più ordinato e gestito ingresso nell’Unione Europea delle persone che necessitano di protezione sociale, cit., p. 70).

[18] Per la cronaca della vicenda cfr. P. Graziano, Asilo!, in “la Voce della Campania”, n. 3, marzo 2004, pp. 48-49 e Asilo per cinquecento, in “la Voce della Campania”, n. 5, maggio 2004, pp. 38-39.

[19] Sulle posizioni della Chiesa nel dibattito sul diritto d’asilo, si veda S. Tanzarella, Accogliere lo straniero. Dalla regolamentazione alla tutela dei diritti: dilatare i confini del possibile, in “Proteo”, n. 3, 2002, p. 8.

[20] Intervista raccolta nel febbraio 2004.

[21] Dati forniti dal Ministero dell’Interno, ora disponibili su http://www.cir-onlus.org.

[22] Intervista raccolta nell’aprile 2004.

[23] G. Zincone, op. cit., p. 9.

[24] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica all’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1968.

[25] Dal Lago, op. cit., p. 252.