Storia dei movimenti sindacali nel paese basco spagnolo (seconda parte) - Il movimento operaio basco contro la dittatura di Franco (1937-1975)
Marco Santopadre
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1. Il dopoguerra
Sul suolo basco la guerra civile si conclude ufficialmente
nel 1937 con la caduta di Bilbao, ponendo fine ad un ciclo, durato un
cinquantennio, caratterizzato da un’intensa industrializzazione della
Gipuzkoa e della Bizkaia, con la conseguente nascita di una numerosa classe
operaia, e dal consolidamento attorno alle varie correnti del Partito
Nazionalista di una politica basca autonoma. Le organizzazioni operaie vengono
cancellate per decreto dallo scenario politico nella forma più brutale.
Cessate le ostilità, l’esercito franchista si comporta come un esercito di
occupazione e la dittatura passa come un rullo compressore su ogni aspetto
dell’identità basca, vietando non solo di parlare o di scrivere in euskera,
ma anche di portare nomi baschi. Il regime si impegna in una sistematica opera
coercitiva di ispanizzazione e di denazionalizzazione dell’identità basca.
Madrid favorisce ampli flussi migratori, con il proposito di disarticolare sul
piano sociale e culturale le basi identitarie basche. Tra il 1950 e il 1970 la
popolazione di Bizkaia, Araba e Gipuzkoa cresce del 62%, pari a 900 mila
unità. Nel solo breve periodo compreso fra il 1950 e il 1953, la crescita
della popolazione nel Paese Basco è del 23% mentre la media spagnola non
arriva al 9%. Soprattutto nei territori dove hanno un maggior radicamento, i
franchisti estirpano ogni forma di contestazione sociale; esecuzioni sommarie
ed arresti di massa non si fermano neanche nel 1939. Si soffoca con le armi
non solo la pretesa di una maggiore giustizia sociale; lo “Stato Nuovo”
franchista organizza un ferreo apparato poliziesco che sopprime ogni
dissidenza, disponendo al suo servizio di una vasta rete di confidenti che
include dall’istituzione ecclesiastica fino ai delatori che comunicano alle
autorità ogni elemento di “anormalità” sociale o politica. Tutte le
risorse dello Stato, dalla stampa all’istruzione, sono messe al servizio
dell’indottrinamento; la Repubblica e i valori ad essa legati diventano una
“Antispagna” da eliminare. Il linguaggio ufficiale trasforma lavoratori ed
operai in produttori, gli imprenditori vengono inclusi in un’indistinta
classe laboriosa, i disoccupati scompaiono dalle statistiche ufficiali,
baschi e catalani vengono bollati come rosso separatisti. Dalla fine
della guerra 150.000 persone sono costrette all’esilio, di esse 32.000
bambini. Un migliaio di persone erano morte sotto i bombardamenti
indiscriminati, circa 6000 erano stati assassinati nelle retroguardie e 12.000
erano caduti al fronte. Nel 1938 nelle carceri basche vi sono più di 18.000
prigionieri. Bizkaia e Gipuzkoa sono dichiarate per decreto “province
traditrici” e come tali sottoposte ad un trattamento differenziale di natura
punitiva durato ufficialmente fino alla fine del regime (in realtà ancora in
atto). Madrid abolisce i “Conciertos economicos” di loro competenza,
privando le amministrazioni locali delle risorse finanziarie necessarie al
mantenimento di molti servizi pubblici.
Ma l’oligarchia finanziaria e industriale che controlla l’economia
basca trae i suoi frutti dall’appoggio concesso ai franchisti,
accaparrandosi buona parte del mercato interno spagnolo e iniziando un’imponente
accumulazione di capitali grazie ad uno sfruttamento senza limiti della
manodopera. Le massicce distruzioni originate dalla guerra civile
rinvigoriscono il capitalismo ispanico. I grandi impianti industriali di
Bizkaia sono sopravvissuti al conflitto ma poiché quasi tutte le grandi
città coinvolte nei combattimenti, così come le infrastrutture viarie e le
ferroviarie, hanno sofferto notevoli distruzioni, si può dare il via al
grande affare della ricostruzione. Il tutto accompagnato dal tallone di ferro
antiproletario del franchismo e dall’inquadramento e militarizzazione delle
attività produttive e dei trasporti di base, imponendo alla classe operaia un
regime di privazioni materiali e di ferrea disciplina.
Un aspetto caratteristico della politica economica
franchista di quegli anni è la progressiva emarginazione dei settori della
Falange favorevoli al programma di nazionalizzazioni. Già nel 1940 il
Generale Muoz Grandes (segretario generale della Falange Spagnola
Tradizionalista) chiarisce le intenzioni del regime al riguardo: “Dobbiamo
preoccuparci non solo di rispettare, ma di sostenere e favorire con tutti i
mezzi l’iniziativa privata come fattore principale dell’economia”. E
José Marìa de Areilza nello stesso 1940 aggiunge: “Senza l’iniziativa
privata, ogni impegno autarchico, che è in sintesi l’industrializzazione
crescente, si ridurrebbe a mera elucubrazione teorica. L’iniziativa privata,
l’industriale o il fabbricante spagnolo è quello che deve portare sulle
spalle il peso della battaglia per l’autarchia. Supporre che lo Stato vada a
convertirsi in fabbricante o in industriale per supplire alle deficienze
private non cessa d’essere una ingenuità infantile...”. Alcuni
settori della borghesia non cessano di reclamare maggiori misure di
liberalizzazione, protestando ricorrentemente contro quello che considerano
“eccesso di interventismo” dello Stato.
Nel 1940 il Consiglio dell’Economia Nazionale emana una
serie di direttive per adeguare l’economia alla congiuntura internazionale.
La borghesia spagnola, che ufficialmente mostra fervida ammirazione per l’Asse
italo-tedesco, in pratica non disdegna trattati economici con paesi nemici
dell’Asse. Nel 1940-1941 la Gran Bretagna concede consistenti prestiti alla
Spagna franchista che, finita la Guerra Mondiale, passa dall’ambiguità ad
un aperto proamericanismo. La sconfitta dell’Asse non conduce affatto alla
fine del regime, anzi. L’isolamento internazionale, al quale la Spagna
Franchista è sottoposta per alcuni anni, viene rotto dagli Stati Uniti in
chiave anticomunista. In premio il piano Marshall prevede la concessione di
grossi prestiti alla Spagna nel 1949-50.
Però i primi anni ‘40 non vedono nel Paese Basco lo
sviluppo economico che ci si può attendere date alcune condizioni
estremamente favorevoli. L’industria basca, soprattutto quella di
trasformazione del ferro, si riprende veramente solo dopo il 1945, fino al
grande slancio successivo, rallentando solo con la crisi generale nel 1975.
Qualcosa di simile succede con il prodotto pro capite per il quale tutte le
province basche superano abbondantemente la media nazionale. Molti militanti
del PNV, imprenditori e commercianti, non hanno gran motivo di lamentarsi per
l’andamento economico, mentre i dirigenti politici fuorusciti sono occupati
a far pressione sugli USA affinché intervengano contro Franco. Speranza vana.
Gli anni ‘50 sono assai favorevoli per il regime. Le
strette relazioni intrecciate da Franco con la gerarchia cattolica
acquisiscono un rango di ufficialità con la firma del Concordato con il
Vaticano nel 1953. Poi l’ONU ammette il paese nell’assemblea nel 1955.
Approfittando di questa apertura internazionale, il governo favorisce l’afflusso
di capitali stranieri e di investimenti diretti, soprattutto dagli USA.
Intanto l’opposizione storica ha praticamente smesso di esistere all’interno
delle frontiere spagnole, mentre i suoi rappresentanti all’estero hanno
ormai un ruolo poco più che testimoniale. Il peso politico delle lotte contro
il regime ricade sui militanti del Partido Comunista Español, che hanno
ricevuto la direttiva di infiltrarsi nei sindacati fascisti. Il PNV e la sua
appendice sindacale nei fatti si distinguono per la loro assenza durante tutto
il periodo.
La Falange ipotizza che la sindacalizzazione forzata possa
contenere lo scontento operaio provocato dalle dure condizioni di vita. Questo
si augura Muoz Grandes, al tempo segretario generale del Sindacato unico: “Noi
ci proponiamo di inquadrare (...) tutti i lavoratori nelle nostre
organizzazioni, spingendo alla sindacalizzazione, fino a convertire la
sottomissione attuale in fervida adesione”. La fervida adesione non arriva.
Al contrario nell’aprile del 1951 circa 200.000 lavoratori aderiscono ad un
grande sciopero generale nel Paese Basco al quale partecipano anche città
tradizionalmente mai distintesi per la vastità dei conflitti sociali, come
Gasteiz e Iruñea. In Gipuzkoa le cose prendono una tale piega che il
governatore civile, il barone Benasque, prepara i passaporti per sé e per la
sua famiglia. Il ricordo dello spavento del 1936 è ancora fresco, ma l’ordine
viene riportato dai tribunali militari che condannano parecchie centinaia di
scioperanti.
2. Riesplode la lotta operaia
Alla ripresa economica corrisponde un progressivo
degradarsi della condizione operaia fino a dei livelli che richiedono l’apertura
di mense in molte fabbriche per alimentare i lavoratori giacché i miserabili
salari sono del tutto insufficienti per sfamare loro e i loro familiari. Le
proteste operaie che si verificano in questi anni di fame, razionamento e
mercato nero rispondono proprio alle terribili condizioni di vita alle quali
il regime sottopone la popolazione. Si tratta per lo più di proteste
spontanee che esigono miglioramenti salariali per poter far fronte all’escalation
dei prezzi dei generi di prima necessità. Ci sono scioperi fin dal 1946,
alcuni estesi come quello del 1947 nell’area industriale di Bilbao a cui
prendono parte 20.000 lavoratori, che si conclude con licenziamenti di massa e
migliaia di sanzioni. Ma le proteste di ripresentano nel 1956, avendo sempre
un carattere salariale ma con obiettivi anche più generali. Nella primavera
di quell’anno un poderoso sciopero riesce a strappare ai capitalisti un
aumento generale dei salari che oscilla fra il 25 e il 70%.
Le grandi mobilitazioni operaie del 1956 dimostrano che il
sindacato verticale controllato dalla Falange, la cosiddetta Central
Nacional Sindicalista, è inadeguato a ricomporre i conflitti lavorativi
in questa nuova fase di crescita economica. Il Governo è costretto a
concedere una Legge sui Contratti Collettivi nel 1958 nella quale si
riconosce, per la prima volta, la capacità di negoziazione collettiva diretta
tra operai e padroni anche se nel ristretto contesto del sindacalismo
ufficiale. La nuova legge facilita la penetrazione nel Sindacato verticale di
centinaia di quadri comunisti, socialisti, repubblicani e nazionalisti che
cominciano a sperimentare una forma di ricostruzione di un movimento sindacale
organizzato seppure nella clandestinità.
Un’altra novità è rappresentata dal fatto che molti
imprenditori, dal 1956 in poi, iniziano a negoziare direttamente con delle
commissioni di operai al di fuori del Sindacato Unico. Queste commissioni
operaie sono le antecedenti di quelle Comisiones Obreras che di lì a
poco si creano soprattutto nella zona di Bilbao. Per molto tempo queste
assemblee operaie, animate da attivisti di varia connotazione ideologica, dai
comunisti ai cattolici appartenenti ai movimenti operai e di base, rimangono
relativamente indipendenti le une dalle altre pur formando un movimento
unitario.
A questo punto il processo di riaccumulazione capitalistica
postbellica è già sufficientemente maturo per poter integrare pienamente l’economia
spagnola nel mercato mondiale. La modernizzazione sconvolge rapidamente gli
assetti economici tradizionali. Già nel 1955 l’attività agraria
rappresenta solo il 12,8% del prodotto interno lordo basco, e si riduce
progressivamente fino all’8,1% nel 1975. La campagna si spopola ed il prezzo
del suolo industriale aumenta, per la qual cosa la coltivazione della terra
cessa di essere redditizia. L’allevamento del bestiame si presenta come una
via di uscita di fronte alla rovina economica o all’emigrazione nelle
città, ma le piccole dimensioni aziendali e la concorrenza estera fanno sì
che nemmeno questa attività risulti sufficiente. Il contesto socio-politico
di questo periodo è quello di una reindustrializzazione massiccia, con lotte
operaie sempre più numerose, con la rovina della piccola borghesia agraria e
in minor misura urbana; il tutto in un clima di inattività del
nazionalismo storico.
3. Nasce il Movimento di Liberazione Nazionale
La classe operaia cresce di numero sia per la
proletarizzazione forzata dei contadini, degli allevatori e dei pescatori
autoctoni, sia per il massiccio afflusso di centinaia di migliaia di immigrati
dal sud dello Stato. In poco tempo si industrializzano anche Araba e Navarra,
fino ad allora province essenzialmente rurali. Nonostante la ferrea dittatura,
la conflittualità operaia e la rivendicazione nazionale segnano la vita
quotidiana di centinaia di migliaia di baschi. Il regime mantiene ben oliati i
meccanismi della repressione e non smette mai di utilizzarli nei confronti di
ogni segno di ribellione, qualunque versante essa coinvolga. In realtà la
socializzazione del terrore e la repressione generalizzata contribuiscono a
rafforzare una viva e combattiva coscienza di classe e nazionale in tutto il
Paese Basco in una popolazione sempre più politicizzata in senso
antifascista. La paralisi politica che blocca il Partito Nazionalista convince
le nuove generazioni a distaccarsi da esso e a cercare un’alternativa
organizzativa e ideologica.
I sintomi di inquietudine si sono già formalizzati, nel
1952, nella creazione di un gruppo che porta il significativo nome di Ekin,
“Fare”, sorto fra gli studenti della università gesuita di Deusto
distaccatisi dalla gioventù del PNV, partito criticato per la sua visione
razzista e clericotradizionalista, oltre che per l’atteggiamento attendista.
Alla fine del 1961 si hanno nel Paese Basco grossi
scioperi, in particolare a Beasain, Eibar, Irùn e Bilbao. Nel maggio 1962 si
dichiara un formidabile sciopero la cui avanguardia sono i minatori delle
Asturie. Il Governo decreta tre mesi di stato di emergenza nelle Asturie, in
Bizkaia e in Gipuzkoa, ma l’estendersi del conflitto costringe ad ampliare
il campo d’azione dei provvedimenti repressivi a tutto lo stato. La
repressione del regime si abbatte implacabilmente sui lavoratori con
incarcerazioni e licenziamenti, ma la brutalità della repressione genera un’ondata
di simpatia e di solidarietà con gli scioperanti. Nel 1963 un conflitto nato
nelle miniere delle Asturie si estende alle fabbriche basche. In queste
circostanze si forma a Bilbao un comitato clandestino col fine di coordinare
le diverse fabbriche in lotta e conseguire una unità d’azione minima.
Il 30 novembre 1966 comincia a Basauri uno degli scioperi
di maggiore durata di tutto il dopoguerra, lo sciopero delle Laminaciòn di
Bandas de Etxebarri, che culminerà con l’occupazione della fabbrica da
parte della Guardia Civil e il licenziamento di 564 scioperanti. Per bloccare
un incipiente movimento di solidarietà con gli operai dell’azienda, il
Tribunale per l’Ordine Pubblico scatena una vasta repressione che termina
con centinaia di lavoratori incarcerati e deportati, con la dichiarazione di
stato di emergenza in Bizkaia (aprile 1967), e con l’illegalizzazione per
decreto delle Comisiones Obreras.
Il nuovo movimento operaio si distacca ormai da molte delle
vecchie organizzazioni sindacali, soprattutto da quella Confederaciòn
Nacional del Trabajo (CNT) di matrice anarchica che fino alla fine della
guerra aveva avuto un importante radicamento in alcuni territori baschi. Anche
movimenti politici prima di massa come il socialismo, il carlismo e il
repubblicanesimo hanno enormi difficoltà a riadattare le forme ideologiche ed
organizzative alle nuove condizioni di clandestinità ma al tempo stesso di
mobilitazione di massa. Negli anni ‘60 la conflittualità supera i confini
delle grandi fabbriche per coinvolgere i servizi pubblici, i trasporti, l’insegnamento
e la sanità. Si utilizza lo sciopero, ma anche i sabotaggi, i picchetti, le
occupazioni. I conflitti nel mondo del lavoro si radicalizzano e negli anni
‘70 coinvolgono anche altri settori sociali come i piccoli produttori
agrari, i sacerdoti, associazioni religiose e di quartiere. Nel 1964 a Gernika
si celebra pubblicamente l’Aberri Eguna (Giorno della Patria) per la prima
volta dopo la guerra, e migliaia di sacerdoti si mobilitano per denunciare
pubblicamente il regime. A delegittimare ulteriormente la dittatura ci pensano
le lotte di solidarietà organizzate ogni qualvolta la repressione colpisce
qualche settore in lotta.
Intanto sulla scena politica e sindacale si afferma un
nuovo soggetto: il nazionalismo rivoluzionario. Dall’evoluzione e dalla
radicalizzazione di Ekin era nata nel 1959 Euskadi Ta Askatasuna
(Patria Basca e Libertà), che per decenni costituirà il contesto ideale e
materiale di formazione di migliaia di quadri sindacali, politici e
intellettuali. ETA e le organizzazioni sociali e politiche ad essa collegate
colmano un vuoto all’interno della società basca, dando vita per la prima
volta a un movimento di classe al contempo nazionalista.
La classe operaia basca era stata caratterizzata per quasi
un secolo da un netto dualismo tanto ideologico quanto nazionale: la sinistra
statale considerava la lotta nazionale una rivendicazione borghese, mentre le
organizzazioni politiche e sindacali basche non furono mai capaci di unire le
rivendicazioni nazionali con quelle sociali. Un dualismo che ha generato un
doloroso scontro all’interno della classe lavoratrice basca, a tutto
vantaggio del padronato basco e di quello statale.