Sul suolo basco la guerra civile si conclude ufficialmente nel 1937 con la caduta di Bilbao, ponendo fine ad un ciclo, durato un cinquantennio, caratterizzato da un’intensa industrializzazione della Gipuzkoa e della Bizkaia, con la conseguente nascita di una numerosa classe operaia, e dal consolidamento attorno alle varie correnti del Partito Nazionalista di una politica basca autonoma. Le organizzazioni operaie vengono cancellate per decreto dallo scenario politico nella forma più brutale. Cessate le ostilità, l’esercito franchista si comporta come un esercito di occupazione e la dittatura passa come un rullo compressore su ogni aspetto dell’identità basca, vietando non solo di parlare o di scrivere in euskera, ma anche di portare nomi baschi. Il regime si impegna in una sistematica opera coercitiva di ispanizzazione e di denazionalizzazione dell’identità basca. Madrid favorisce ampli flussi migratori, con il proposito di disarticolare sul piano sociale e culturale le basi identitarie basche. Tra il 1950 e il 1970 la popolazione di Bizkaia, Araba e Gipuzkoa cresce del 62%, pari a 900 mila unità. Nel solo breve periodo compreso fra il 1950 e il 1953, la crescita della popolazione nel Paese Basco è del 23% mentre la media spagnola non arriva al 9%. Soprattutto nei territori dove hanno un maggior radicamento, i franchisti estirpano ogni forma di contestazione sociale; esecuzioni sommarie ed arresti di massa non si fermano neanche nel 1939. Si soffoca con le armi non solo la pretesa di una maggiore giustizia sociale; lo “Stato Nuovo” franchista organizza un ferreo apparato poliziesco che sopprime ogni dissidenza, disponendo al suo servizio di una vasta rete di confidenti che include dall’istituzione ecclesiastica fino ai delatori che comunicano alle autorità ogni elemento di “anormalità” sociale o politica. Tutte le risorse dello Stato, dalla stampa all’istruzione, sono messe al servizio dell’indottrinamento; la Repubblica e i valori ad essa legati diventano una “Antispagna” da eliminare. Il linguaggio ufficiale trasforma lavoratori ed operai in produttori, gli imprenditori vengono inclusi in un’indistinta classe laboriosa, i disoccupati scompaiono dalle statistiche ufficiali, baschi e catalani vengono bollati come rosso separatisti. Dalla fine della guerra 150.000 persone sono costrette all’esilio, di esse 32.000 bambini. Un migliaio di persone erano morte sotto i bombardamenti indiscriminati, circa 6000 erano stati assassinati nelle retroguardie e 12.000 erano caduti al fronte. Nel 1938 nelle carceri basche vi sono più di 18.000 prigionieri. Bizkaia e Gipuzkoa sono dichiarate per decreto “province traditrici” e come tali sottoposte ad un trattamento differenziale di natura punitiva durato ufficialmente fino alla fine del regime (in realtà ancora in atto). Madrid abolisce i “Conciertos economicos” di loro competenza, privando le amministrazioni locali delle risorse finanziarie necessarie al mantenimento di molti servizi pubblici.
Ma l’oligarchia finanziaria e industriale che controlla l’economia basca trae i suoi frutti dall’appoggio concesso ai franchisti, accaparrandosi buona parte del mercato interno spagnolo e iniziando un’imponente accumulazione di capitali grazie ad uno sfruttamento senza limiti della manodopera. Le massicce distruzioni originate dalla guerra civile rinvigoriscono il capitalismo ispanico. I grandi impianti industriali di Bizkaia sono sopravvissuti al conflitto ma poiché quasi tutte le grandi città coinvolte nei combattimenti, così come le infrastrutture viarie e le ferroviarie, hanno sofferto notevoli distruzioni, si può dare il via al grande affare della ricostruzione. Il tutto accompagnato dal tallone di ferro antiproletario del franchismo e dall’inquadramento e militarizzazione delle attività produttive e dei trasporti di base, imponendo alla classe operaia un regime di privazioni materiali e di ferrea disciplina.
Un aspetto caratteristico della politica economica franchista di quegli anni è la progressiva emarginazione dei settori della Falange favorevoli al programma di nazionalizzazioni. Già nel 1940 il Generale Muoz Grandes (segretario generale della Falange Spagnola Tradizionalista) chiarisce le intenzioni del regime al riguardo: “Dobbiamo preoccuparci non solo di rispettare, ma di sostenere e favorire con tutti i mezzi l’iniziativa privata come fattore principale dell’economia”. E José Marìa de Areilza nello stesso 1940 aggiunge: “Senza l’iniziativa privata, ogni impegno autarchico, che è in sintesi l’industrializzazione crescente, si ridurrebbe a mera elucubrazione teorica. L’iniziativa privata, l’industriale o il fabbricante spagnolo è quello che deve portare sulle spalle il peso della battaglia per l’autarchia. Supporre che lo Stato vada a convertirsi in fabbricante o in industriale per supplire alle deficienze private non cessa d’essere una ingenuità infantile...”. Alcuni settori della borghesia non cessano di reclamare maggiori misure di liberalizzazione, protestando ricorrentemente contro quello che considerano “eccesso di interventismo” dello Stato.
Nel 1940 il Consiglio dell’Economia Nazionale emana una serie di direttive per adeguare l’economia alla congiuntura internazionale. La borghesia spagnola, che ufficialmente mostra fervida ammirazione per l’Asse italo-tedesco, in pratica non disdegna trattati economici con paesi nemici dell’Asse. Nel 1940-1941 la Gran Bretagna concede consistenti prestiti alla Spagna franchista che, finita la Guerra Mondiale, passa dall’ambiguità ad un aperto proamericanismo. La sconfitta dell’Asse non conduce affatto alla fine del regime, anzi. L’isolamento internazionale, al quale la Spagna Franchista è sottoposta per alcuni anni, viene rotto dagli Stati Uniti in chiave anticomunista. In premio il piano Marshall prevede la concessione di grossi prestiti alla Spagna nel 1949-50.
Però i primi anni ‘40 non vedono nel Paese Basco lo sviluppo economico che ci si può attendere date alcune condizioni estremamente favorevoli. L’industria basca, soprattutto quella di trasformazione del ferro, si riprende veramente solo dopo il 1945, fino al grande slancio successivo, rallentando solo con la crisi generale nel 1975. Qualcosa di simile succede con il prodotto pro capite per il quale tutte le province basche superano abbondantemente la media nazionale. Molti militanti del PNV, imprenditori e commercianti, non hanno gran motivo di lamentarsi per l’andamento economico, mentre i dirigenti politici fuorusciti sono occupati a far pressione sugli USA affinché intervengano contro Franco. Speranza vana.
Gli anni ‘50 sono assai favorevoli per il regime. Le strette relazioni intrecciate da Franco con la gerarchia cattolica acquisiscono un rango di ufficialità con la firma del Concordato con il Vaticano nel 1953. Poi l’ONU ammette il paese nell’assemblea nel 1955. Approfittando di questa apertura internazionale, il governo favorisce l’afflusso di capitali stranieri e di investimenti diretti, soprattutto dagli USA. Intanto l’opposizione storica ha praticamente smesso di esistere all’interno delle frontiere spagnole, mentre i suoi rappresentanti all’estero hanno ormai un ruolo poco più che testimoniale. Il peso politico delle lotte contro il regime ricade sui militanti del Partido Comunista Español, che hanno ricevuto la direttiva di infiltrarsi nei sindacati fascisti. Il PNV e la sua appendice sindacale nei fatti si distinguono per la loro assenza durante tutto il periodo.
La Falange ipotizza che la sindacalizzazione forzata possa contenere lo scontento operaio provocato dalle dure condizioni di vita. Questo si augura Muoz Grandes, al tempo segretario generale del Sindacato unico: “Noi ci proponiamo di inquadrare (...) tutti i lavoratori nelle nostre organizzazioni, spingendo alla sindacalizzazione, fino a convertire la sottomissione attuale in fervida adesione”. La fervida adesione non arriva. Al contrario nell’aprile del 1951 circa 200.000 lavoratori aderiscono ad un grande sciopero generale nel Paese Basco al quale partecipano anche città tradizionalmente mai distintesi per la vastità dei conflitti sociali, come Gasteiz e Iruñea. In Gipuzkoa le cose prendono una tale piega che il governatore civile, il barone Benasque, prepara i passaporti per sé e per la sua famiglia. Il ricordo dello spavento del 1936 è ancora fresco, ma l’ordine viene riportato dai tribunali militari che condannano parecchie centinaia di scioperanti.
Alla ripresa economica corrisponde un progressivo degradarsi della condizione operaia fino a dei livelli che richiedono l’apertura di mense in molte fabbriche per alimentare i lavoratori giacché i miserabili salari sono del tutto insufficienti per sfamare loro e i loro familiari. Le proteste operaie che si verificano in questi anni di fame, razionamento e mercato nero rispondono proprio alle terribili condizioni di vita alle quali il regime sottopone la popolazione. Si tratta per lo più di proteste spontanee che esigono miglioramenti salariali per poter far fronte all’escalation dei prezzi dei generi di prima necessità. Ci sono scioperi fin dal 1946, alcuni estesi come quello del 1947 nell’area industriale di Bilbao a cui prendono parte 20.000 lavoratori, che si conclude con licenziamenti di massa e migliaia di sanzioni. Ma le proteste di ripresentano nel 1956, avendo sempre un carattere salariale ma con obiettivi anche più generali. Nella primavera di quell’anno un poderoso sciopero riesce a strappare ai capitalisti un aumento generale dei salari che oscilla fra il 25 e il 70%.
Le grandi mobilitazioni operaie del 1956 dimostrano che il sindacato verticale controllato dalla Falange, la cosiddetta Central Nacional Sindicalista, è inadeguato a ricomporre i conflitti lavorativi in questa nuova fase di crescita economica. Il Governo è costretto a concedere una Legge sui Contratti Collettivi nel 1958 nella quale si riconosce, per la prima volta, la capacità di negoziazione collettiva diretta tra operai e padroni anche se nel ristretto contesto del sindacalismo ufficiale. La nuova legge facilita la penetrazione nel Sindacato verticale di centinaia di quadri comunisti, socialisti, repubblicani e nazionalisti che cominciano a sperimentare una forma di ricostruzione di un movimento sindacale organizzato seppure nella clandestinità.
Un’altra novità è rappresentata dal fatto che molti imprenditori, dal 1956 in poi, iniziano a negoziare direttamente con delle commissioni di operai al di fuori del Sindacato Unico. Queste commissioni operaie sono le antecedenti di quelle Comisiones Obreras che di lì a poco si creano soprattutto nella zona di Bilbao. Per molto tempo queste assemblee operaie, animate da attivisti di varia connotazione ideologica, dai comunisti ai cattolici appartenenti ai movimenti operai e di base, rimangono relativamente indipendenti le une dalle altre pur formando un movimento unitario.
A questo punto il processo di riaccumulazione capitalistica postbellica è già sufficientemente maturo per poter integrare pienamente l’economia spagnola nel mercato mondiale. La modernizzazione sconvolge rapidamente gli assetti economici tradizionali. Già nel 1955 l’attività agraria rappresenta solo il 12,8% del prodotto interno lordo basco, e si riduce progressivamente fino all’8,1% nel 1975. La campagna si spopola ed il prezzo del suolo industriale aumenta, per la qual cosa la coltivazione della terra cessa di essere redditizia. L’allevamento del bestiame si presenta come una via di uscita di fronte alla rovina economica o all’emigrazione nelle città, ma le piccole dimensioni aziendali e la concorrenza estera fanno sì che nemmeno questa attività risulti sufficiente. Il contesto socio-politico di questo periodo è quello di una reindustrializzazione massiccia, con lotte operaie sempre più numerose, con la rovina della piccola borghesia agraria e in minor misura urbana; il tutto in un clima di inattività del nazionalismo storico.
La classe operaia cresce di numero sia per la proletarizzazione forzata dei contadini, degli allevatori e dei pescatori autoctoni, sia per il massiccio afflusso di centinaia di migliaia di immigrati dal sud dello Stato. In poco tempo si industrializzano anche Araba e Navarra, fino ad allora province essenzialmente rurali. Nonostante la ferrea dittatura, la conflittualità operaia e la rivendicazione nazionale segnano la vita quotidiana di centinaia di migliaia di baschi. Il regime mantiene ben oliati i meccanismi della repressione e non smette mai di utilizzarli nei confronti di ogni segno di ribellione, qualunque versante essa coinvolga. In realtà la socializzazione del terrore e la repressione generalizzata contribuiscono a rafforzare una viva e combattiva coscienza di classe e nazionale in tutto il Paese Basco in una popolazione sempre più politicizzata in senso antifascista. La paralisi politica che blocca il Partito Nazionalista convince le nuove generazioni a distaccarsi da esso e a cercare un’alternativa organizzativa e ideologica.
I sintomi di inquietudine si sono già formalizzati, nel 1952, nella creazione di un gruppo che porta il significativo nome di Ekin, “Fare”, sorto fra gli studenti della università gesuita di Deusto distaccatisi dalla gioventù del PNV, partito criticato per la sua visione razzista e clericotradizionalista, oltre che per l’atteggiamento attendista.
Alla fine del 1961 si hanno nel Paese Basco grossi scioperi, in particolare a Beasain, Eibar, Irùn e Bilbao. Nel maggio 1962 si dichiara un formidabile sciopero la cui avanguardia sono i minatori delle Asturie. Il Governo decreta tre mesi di stato di emergenza nelle Asturie, in Bizkaia e in Gipuzkoa, ma l’estendersi del conflitto costringe ad ampliare il campo d’azione dei provvedimenti repressivi a tutto lo stato. La repressione del regime si abbatte implacabilmente sui lavoratori con incarcerazioni e licenziamenti, ma la brutalità della repressione genera un’ondata di simpatia e di solidarietà con gli scioperanti. Nel 1963 un conflitto nato nelle miniere delle Asturie si estende alle fabbriche basche. In queste circostanze si forma a Bilbao un comitato clandestino col fine di coordinare le diverse fabbriche in lotta e conseguire una unità d’azione minima.
Il 30 novembre 1966 comincia a Basauri uno degli scioperi di maggiore durata di tutto il dopoguerra, lo sciopero delle Laminaciòn di Bandas de Etxebarri, che culminerà con l’occupazione della fabbrica da parte della Guardia Civil e il licenziamento di 564 scioperanti. Per bloccare un incipiente movimento di solidarietà con gli operai dell’azienda, il Tribunale per l’Ordine Pubblico scatena una vasta repressione che termina con centinaia di lavoratori incarcerati e deportati, con la dichiarazione di stato di emergenza in Bizkaia (aprile 1967), e con l’illegalizzazione per decreto delle Comisiones Obreras.
Il nuovo movimento operaio si distacca ormai da molte delle vecchie organizzazioni sindacali, soprattutto da quella Confederaciòn Nacional del Trabajo (CNT) di matrice anarchica che fino alla fine della guerra aveva avuto un importante radicamento in alcuni territori baschi. Anche movimenti politici prima di massa come il socialismo, il carlismo e il repubblicanesimo hanno enormi difficoltà a riadattare le forme ideologiche ed organizzative alle nuove condizioni di clandestinità ma al tempo stesso di mobilitazione di massa. Negli anni ‘60 la conflittualità supera i confini delle grandi fabbriche per coinvolgere i servizi pubblici, i trasporti, l’insegnamento e la sanità. Si utilizza lo sciopero, ma anche i sabotaggi, i picchetti, le occupazioni. I conflitti nel mondo del lavoro si radicalizzano e negli anni ‘70 coinvolgono anche altri settori sociali come i piccoli produttori agrari, i sacerdoti, associazioni religiose e di quartiere. Nel 1964 a Gernika si celebra pubblicamente l’Aberri Eguna (Giorno della Patria) per la prima volta dopo la guerra, e migliaia di sacerdoti si mobilitano per denunciare pubblicamente il regime. A delegittimare ulteriormente la dittatura ci pensano le lotte di solidarietà organizzate ogni qualvolta la repressione colpisce qualche settore in lotta.
Intanto sulla scena politica e sindacale si afferma un nuovo soggetto: il nazionalismo rivoluzionario. Dall’evoluzione e dalla radicalizzazione di Ekin era nata nel 1959 Euskadi Ta Askatasuna (Patria Basca e Libertà), che per decenni costituirà il contesto ideale e materiale di formazione di migliaia di quadri sindacali, politici e intellettuali. ETA e le organizzazioni sociali e politiche ad essa collegate colmano un vuoto all’interno della società basca, dando vita per la prima volta a un movimento di classe al contempo nazionalista.
La classe operaia basca era stata caratterizzata per quasi un secolo da un netto dualismo tanto ideologico quanto nazionale: la sinistra statale considerava la lotta nazionale una rivendicazione borghese, mentre le organizzazioni politiche e sindacali basche non furono mai capaci di unire le rivendicazioni nazionali con quelle sociali. Un dualismo che ha generato un doloroso scontro all’interno della classe lavoratrice basca, a tutto vantaggio del padronato basco e di quello statale.-----
Nata sull’onda delle lotte di liberazione anticoloniali del terzo mondo (Algeria, Cuba e Vietnam in primo luogo) presto l’ideologia del nazionalismo rivoluzionario, anche in seguito a numerosissime scissioni, si orienta verso il marxismo e verso l’inscindibile legame tra la liberazione sociale e quella nazionale (sancito nella V Assemblea del 1967), per la creazione di un Paese Basco riunificato, indipendente e socialista. Il vecchio razzismo di Arana viene del tutto rimosso, dando vita ad una concezione nazionale non esclusivista basata sulla lingua, sulla territorialità e sulla volontà soggettiva di appartenenza.
Nel 1963 ETA crea un proprio strumento di intervento nelle masse lavoratrici, il Fronte Operaio, che però ha vita effimera. Così l’organizzazione indica ai suoi militanti e simpatizzanti di prendere parte alle Commissioni unitarie. Ma nel 1968, dopo la messa fuori legge delle CCOO e con l’acuirsi dei contrasti tra il Partito Comunista Spagnolo e il resto delle organizzazioni che vi partecipano, si cominciano a sviluppare i cosiddetti Comitati rappresentativi di impresa, stimolati da ELA, USO, UGT ed ETA. Questi comitati vengono considerati organi unitari di rappresentanza dei lavoratori in ogni impresa, diretti a organizzare la protesta operaia nei momenti di conflitto. L’intento è quello di recuperare la pratica unitaria caratteristica dei primi anni delle CCOO.
La continua mobilitazione operaia indica al nazionalismo rivoluzionario l’importanza del fattore di classe nel processo di liberazione nazionale. Ma le difficoltà non sono poche. Stare con il movimento operaio in lotta significa avvicinarsi ai partiti e ai sindacati spagnoli, dividendo il fronte nazionale basco e venire accusati di spagnolismo. Stare con il moderato e interclassista PNV vuol dire costruire un fronte comune tra tutti i nazionalisti, ma rompere la solidarietà di classe con il movimento operaio. Inoltre si pone il problema della impossibilità di gestire unitariamente il conflitto operaio e sociale e la lotta armata all’interno di una stessa organizzazione. L’attività militare e la repressione del regime compromettono la stessa struttura organizzativa dei collettivi operai. Comincia a farsi strada l’idea, non senza polemiche, di una separazione tra il fronte militare e quello operaio e sociale del nazionalismo rivoluzionario.
Nel frattempo si acuisce la disputa tra il PCE e i gruppi dell’estrema sinistra per il controllo delle CCOO che rappresentano la maggiore e più radicata organizzazione operaia dell’epoca. Negli stessi anni viene sciolta la cosiddetta Alleanza Sindacale che, fondata nel 1961 a Toulouse, per molto tempo ha riunito ciò che rimaneva del sindacalismo tradizionale di opposizione. La socialista UGT decide la rottura con ELA e con la CNT, preoccupata di conquistare una propria visibilità nel momento in cui si prospetta la fine del regime. Per molti anni ELA cessa praticamente di esistere come sindacato unitario. La divisione si era originata dopo il 1962, dopo che a Monaco di Baviera un congresso delle opposizioni aveva accolto nel suo seno anche ex-esponenti del regime, soprattutto monarchici. A quel punto i dirigenti di ELA “dell’interno” criticano i dirigenti “dell’esterno” per la loro propensione alla moderazione e alla subalternità al PSOE. Una parte dei militanti di ELA dell’interno evolve verso posizioni di classe e nazionaliste, dando vita al Movimento Socialista de Euskadi. Dal 1964 al 1976 circa sei diverse organizzazioni, molte delle quali poco più che nominali, rivendicano la storica sigla. Nel 1973 alcuni dirigenti di ELA aderiscono alla Confederazione Europea dei Sindacati (CES) al momento della sua fondazione a Bruxelles.
Negli anni ‘70 l’ETA accentua le sue azioni armate fino a culminare nell’uccisione, il 20 dicembre del 1973, dell’ammiraglio Carrero Blanco. Ciò dà un colpo decisivo alla continuità del franchismo, avendone eliminato l’unico esponente in grado di succedere a un Franco morente, garanzia di continuità per i settori più reazionari della borghesia opposti invece agli esponenti cosiddetti “riformisti” del regime.
I falangisti della linea dura, trincerati nella burocrazia statale e sindacale, nella Polizia e nei Carabinieri, hanno intenzione di difendere la dittatura ed i propri privilegi fino alla fine. Dai pezzi grossi che hanno accumulato immense fortune grazie al regime, i cosiddetti cleptocrati, fino ai semplici metronotte e portinai che credono che la continuità del loro impiego sia consustanziale con la dittatura, esiste un sentimento crescente che il franchismo debba essere difeso così come lo era stato il nazismo negli ultimi giorni di Berlino: da un bunker. I cosiddetti riformisti desiderano invece adattare le forme politiche del regime ad uno degli aspetti, almeno, della cangiante realtà spagnola, cioè la nascita di un capitalismo su grande scala, tanto nazionale come internazionale. Una realtà che causa una crescente irrilevanza politica delle forze del bunker che però accentuano la repressione.
É priva di fondamento una lettura del franchismo di quegli anni - dal 1967 fino alla morte del Caudillo nel novembre del 1975 - come caratterizzato da una tolleranza nei confronti dei conflitti sociali. Nei territori baschi si impone più volte lo stato di emergenza, nel 1970 vi sono le numerose condanne a morte comminate alla fine del processo di Burgos contro militanti dell’ETA. Il Paese Basco viene sottoposto ben 9 volte allo stato di emergenza nel giro di neanche 13 anni, vivendo un totale di 4 anni e due mesi in condizioni di completa sospensione di ogni diritto civile fondamentale, con un potere di vita e di morte affidato alle Forze di Sicurezza dello Stato. Ma la classe operaia basca dà vita a una serie imponente di scioperi: nel febbraio e nell’agosto del 1969 a Bilbao, nel 1970 in tutti i territori contro il Processo di Burgos, nel 1973 in Navarra, Gipuzkoa e Bizkaia, di nuovo nel 1975 ovunque.
Secondo il Ministero del Lavoro spagnolo, Gipuzkoa, Bizkaia e Navarra sono state, nel 1973 e nel 1974, il secondo, terzo e quinto territorio dello Stato più conflittuali in quanto a proteste nel mondo del lavoro. La lotta per il controllo delle Commissioni Operaie porta però alla formazione di due diverse organizzazioni: la CECO (Coordinamento di Euskadi delle Commissioni Operaie) controllata dall’estrema sinistra e la CONE (Commissione Operaia Nazionale di Euskadi) controllata del PCE. Le differenze più sostanziali risiedono nel diverso orientamento rispetto all’intervento nel sindacato verticale del regime e nella richiesta da parte ad esempio del Movimento Comunista di Euskadi, di uno scioglimento di tutte le forze di sicurezza dello Stato.
Nel frattempo l’esigenza di formare un partito politico di classe e al tempo stesso nazionalista basco porta alla fondazione, nel 1974, di LAIA (Partito Patriottico Rivoluzionario dei Lavoratori). Lo stesso anno il settore dell’ETA favorevole alla continuazione della lotta armata senza connessione organica con gli altri fronti passa a denominarsi ETAm (militar), mentre coloro che propendono verso un coordinamento dell’attività militare e di quella sociale si denominano ETApm (politico-militar). Nel frattempo LAIA forma le Commissioni Operaie Patriottiche (COA) animate da un’ideologia spiccatamente anticapitalista e indipendentista, alla quale presto arriva il sostegno anche da parte di ETAm.
Presto le Commissione Operaie Abertzali (Patriottiche) cominciano a coordinarsi e poi a unificarsi, cambiando il proprio nome in LAB (Langile Abertzaleen Batzordeak, Assemblee dei Lavoratori Patriottici). Il nuovo sindacato s’inserisce nel Movimento Basco di Liberazione Nazionale, coordinandosi con tutte le altre organizzazioni sociali, politiche ed associative della sinistra patriottica. La prima assemblea nazionale di LAB, clandestino, si svolge nel 1975 in una pasticceria di Biarritz, nel Paese Basco Nord. LAB è “una organizzazione di massa, un organismo aperto a tutti quegli operai, nativi del Paese Basco o emigrati, che si sentono baschi e sfruttati, disponibili ad organizzarsi per lottare sia sul piano sociale che su quello nazionale per combattere l’oppressione come classe e come popolo.”
LAB pretende di riempire uno spazio rimasto vuoto, criticando i gruppi operai eccessivamente ideologizzati organizzati come partiti politici ma anche quei sindacati che non attuano rivendicazioni che vadano al di là delle semplici richieste legate all’orario o al salario. CCOO, ELA e UGT ricominciano a guadagnare terreno nel movimento operaio basco alla fine degli anni 70. LAB si radica immediatamente in Gipuzkoa, sviluppandosi a partire dalla sua propria attività che va dalla formazione dei quadri, alla dinamica quotidiana di lotta nei posti di lavoro, alla creazione di mezzi propri di comunicazione e di espressione, alla necessità di rafforzare la stabilità organizzativa.
Dal 1974 la conflittualità direttamente politica si estende fino alla convocazione di scioperi generali totali contro la repressione, per l’amnistia delle centinaia di prigionieri politici, contro lo stato di emergenza.
Nel giugno del 1975 si svolgono delle elezioni all’interno del sindacato verticale. Mentre LAB, ELA e UGT non partecipano la CONE controllata dal PCE e i gruppi dell’estrema sinistra seguono una politica entrista mirante a minare dall’interno un sindacalismo falangista che ormai è una scatola vuota.
Al governo del regime subentra nel frattempo Carlos Arias Navarro, che per le opposizioni rappresentava la continuità del franchismo ma che per alcuni settori di estrema destra del regime è un elemento di eccessiva apertura. Si estende a tutti i settori la sensazione che ci si trovi di fronte all’imminenza di un passaggio di regime. Occorre ricordare che Franco muore di vecchiaia nel suo letto, senza che l’imponente movimento di massa in tutto lo Stato riesca a estrometterlo dal potere. Ma alla morte di colui che aveva messo d’accordo le diverse componenti che avevano aderito al “campo nazionale” spagnolo contro la Repubblica (carlisti, falangisti, cattolici e militari, media e grande borghesia) appare chiaro che il regime, per sopravvivere, deve cambiare forma. Non può esistere un Franchismo senza Francisco Franco. Alla sinistra patriottica basca appare chiaro che il regime vada incontro a una sorta di autoriforma verso una democrazia costituzionale “limitata”, evitando così la possibilità di una insurrezione armata popolare.
Ma un Franco già morente fa a tempo a emettere una manciata di condanne a morte di alcuni militanti dell’ETA e del Fronte Rivoluzionario Antifascista e Patriottico, la cui esecuzione né il movimento di massa basco né la solidarietà internazionale riescono a bloccare.
Per avere un’idea del trattamento riservato ai baschi rispetto agli altri cittadini, basta descrivere l’ultimo stato di emergenza imposto dallo stesso Franco tra il maggio e il luglio del 1975. In un mese vengono arrestate 3200 persone, 380 sono processate e incarcerate, 350 devono esiliarsi, 6 perdono la vita uccise dalle forze di sicurezza, 18 vengono ferite da armi da fuoco, 45 sono ricoverate in ospedale in seguito alle torture subite. Amnesty International denuncia che nello stesso periodo almeno 250 persone sono state torturate. A Bilbao i commissariati sono così pieni che si deve approntare un campo di concentramento nella zona de Las Arenas.
Sono gli ultimi colpi di coda di un regime che d’ora in poi potrà contare, per la sua autoriforma, su una notevole condiscendenza da parte delle opposizioni storiche, come si vedrà nel prossimo numero di Proteo.
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