Obiettivo Europa. La vera posta in gioco della «guerra preventiva» americana
Alberto Burgio
|
Stampa |
1. Il potere militare USA
A ben guardare, la decisione americana di
attaccare l’Iraq (ma già quella di impadronirsi dell’Afghanistan e di
scendere in lizza nel processo di disgregazione della Jugoslavia) rivela il
carattere estorsivo (in senso proprio mafioso) dell’esercizio
del potere militare da parte degli Stati Uniti nella fase successiva al collasso
dell’ordine bipolare. Se durante la Guerra fredda la corsa agli armamenti
nucleari e le guerre regionali avevano lo scopo prioritario di dimostrare all’avversario
il costante accrescersi della propria potenzialità distruttiva, dopo il ‘91
minacciare e, ove occorra, impiegare la violenza armata serve, alla superpotenza
globale, ad impedire che altri Stati possano crescere e, crescendo, emanciparsi
dal prelievo parassitario garantito dal sistema internazionale di scambi
incentrato sul dollaro. Questa è la vera differenza tra le due fasi storiche,
non la presunta originalità della «guerra preventiva» (quale strategia ha un
più chiaro scopo preventivo della deterrenza?) né la dimensione globale della
competizione (già ampiamente acquisita dopo Yalta). L’aspetto più
significativo dell’ultimo quindicennio consiste nella ferma determinazione
americana a mantenere, manu militari, la possibilità di approvvigionarsi
gratuitamente imponendo al resto del pianeta un vero e proprio sistema di
corvée.
2. Verso la «guerra civile occidentale»?
Ciò che emerge con la massima evidenza è che solo l’uso
della forza militare (o la costante minaccia di farvi ricorso) sostiene l’economia
del paese che suole ergersi a massimo garante del libero mercato. In questo
senso Paul Krugman ha usato l’espressione «economia della paura», suggerendo
come quest’ultima sia il principale lubrificante di un sistema economico
mondiale ancora incentrato sul dollaro, nonostante tutti i fattori di crisi che
ne minano la credibilità. Non c’è, ovviamente, da stupirsene. Non si
ricorderà mai abbastanza quella geniale pagina dei Quaderni nella quale
Gramsci sottolinea come «il liberismo [sia] una “regolamentazione” di
carattere statale», «un programma politico», e venga con piena consapevolezza
«introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva». [1] Ciò che desta meraviglia è piuttosto il fatto
che - proprio come ai tempi di Gramsci, come se l’esperienza storica non
giovasse in alcun modo - buona parte della cosiddetta «sinistra critica»,
abbagliata dalle retoriche della «globalizzazione», abbia fatto proprie e
trasformato in dogmi formule ideologiche confutate da ogni evidenza. Risulta
difficile comprendere come teorie che discorrono di «autonomia del capitale
globale» e di «esaurimento del ruolo storico degli Stati nazionali» possano
ottenere ascolto in una fase segnata in profondità dalla guerra (cioè dalla
più pura espressione della forza degli apparati statuali) e dal primato della
politica (che, attraverso la guerra, rivendica a sé la funzione di istanza
fondamentale dei processi riproduttivi). [2]
Ma andiamo avanti e poniamoci una domanda solo in apparenza
pleonastica. Perché gli Stati Uniti considerano la crescita di altri paesi o
aree del mondo una minaccia per la loro posizione dominante? Per essere più
precisi: attraverso quali passaggi lo sviluppo economico altrui potrebbe
tradursi in una fonte di rischio per la superpotenza militare del pianeta? La
risposta, ovviamente, è intuitiva, essendo del tutto ovvio il nesso che salda
la crescita economica alla potenza politica e militare. Ma quel che conta per
noi è come tale nesso venga oggi tematizzato da parte dell’establishment
americano, in quanto negli argomenti prodotti a tale riguardo sono inscritti
precisi identikit dei potenziali «competitori globali» contro cui si dirigono
le preoccupazioni della Casa Bianca e degli stati maggiori.
Nemmeno venti giorni dopo l’11 settembre, il Pentagono
divulga un documento strategico che conferisce dignità scientifica alla
dottrina delle «minacce regionali», puntualmente evocata a sostegno degli
interventi militari degli anni Novanta. Ma il rapporto non si limita alle aree
periferiche. Pur concedendo che non è probabile che «nel prossimo futuro» gli
Stati Uniti si trovino di fronte «un rivale di pari forza», afferma come la
minaccia di nuove competizioni globali non possa essere archiviata a cuor
leggero, in quanto «in Asia, in particolare, esiste la possibilità che emerga
un rivale militare con una formidabile base di risorse». Per decodificare, non
c’è bisogno di peculiari attitudini esegetiche, né di rammentare il
trattamento che Bush riserverà alla Cina nel discorso di West Point del I
giugno del 2002 (o in occasione delle recentissime accuse sul costo del lavoro e
sul protezionismo a favore dell’hi-tech cinese, sfociate, il 18 marzo scorso,
in un formale ricorso americano alla Wto).
Le risorse come «formidabile base» della potenza militare:
il ragionamento vale, come per la Cina, anche e soprattutto per l’Europa, che
ha approfittato della scomparsa dell’Unione Sovietica per accumulare potenza
economica e per porre - ben prima del gigante asiatico - le premesse per una
sfida egemonica globale. È quanto emerge con chiarezza dall’analisi sulle
«tendenze globali» di qui al 2015 e dalla più volte citata Defense Planning
Guidance. Nei primi anni Novanta questa aveva già posto l’accento sulla
necessità di «scoraggiare i tentativi, da parte di nazioni industrializzate,
di sfidare la leadership americana, o anche solo di modificare l’ordine
politico ed economico costituito». E aveva indicato nell’eventuale
costituzione di un sistema di difesa europeo autonomo dalla Nato una delle più
serie sfide all’egemonia statunitense. In modo altrettanto esplicito, una
decina di anni dopo gli autori di Global Trends ventilano la possibilità che
«l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa crolli» in conseguenza dell’effetto
combinato di due ordini di fenomeni: il probabile «intensificarsi delle guerre
commerciali» e l’altrettanto verosimile radicalizzarsi della «competizione
per la leadership sulle questioni della sicurezza» (un modo alquanto barocco
per designare l’ambito delle risorse militari mobilitabili in caso di
conflitto armato).
L’idea è molto chiara. Se la ricchezza economica è
condizione fondamentale per conquistare e mantenere uno «status di potenza»
politico-militare, le minacce più gravi provengono dalle zone più sviluppate
del pianeta, a cominciare proprio dall’Europa. È dunque verso di essa che la
superpotenza deve orientare la massima attenzione «preventiva»: sia
impedendole di metter le mani su aree strategiche ricche di materie prime e di
risorse energetiche, sia frustrando sul nascere le sue ambizioni di autonomia
politica e militare. Ce n’è abbastanza per non liquidare come bizzarrie le
invettive di un Kagan contro l’imbelle «vecchia Europa» o gli avvertimenti
di un Fukuyama, tornato sulla scena per dire come tra Europa e Stati Uniti si
sia aperto ormai «un abisso» e per chiedersi se abbia ancora senso «parlare
di Occidente nel XIX secolo». [3]
E difatti a lanciare l’allarme circa una rovinosa rotta di
collisione tra le due sponde dell’Atlantico sono persone di solito poco
inclini ai toni urlati. Commentando gli esiti del vertice di Praga che ha
sancito l’inclusione nella Nato dei Paesi baltici e di diversi Stati dell’ex-Patto
di Varsavia, Kissinger ha sottolineato il pericolo che le fisiologiche
divergenze di prospettiva tra Europa occidentale e Stati Uniti cedano il passo a
veri e propri «disaccordi», poiché in tal caso «la civiltà occidentale
sarebbe sulla strada dell’autodistruzione, come è già accaduto nella prima
metà del XX secolo». [4] Sono parole pesanti quanto
macigni, come quelle scritte da Charles Kupchan, per il quale la «fine dell’era
americana» condurrà a «un nuovo contesto globale, molto meno prevedibile e
assai più pericoloso», perché segnato dal «ritorno della tradizionale
rivalità geopolitica». [5] In altre
parole, il quadro disegnato da Kupchan non sembra molto diverso da quello di una
possibile «guerra civile occidentale».
Intendiamoci. Sostenere che il mondo sia alle porte di un
conflitto armato tra America ed Europa sarebbe assurdo, oltre che sconsiderato.
Ma dal negare questa circostanza al ritenere che, tolta qualche superficiale
increspatura, tutto fili liscio tra le due sponde dell’Atlantico ce ne corre.
In questo caso la verità sta davvero nel mezzo: nel corso degli ultimi anni si
sono accumulati fraintendimenti, risentimenti e seri motivi di reciproco
malcontento, in grado di compromettere gravemente le relazioni tra gli Stati
Uniti ed alcuni grandi paesi europei. Il fatto che non si sia ancora giunti a un
punto di non ritorno e a una rottura non deve indurre a sottovalutare la
pericolosità di un processo tuttora, peraltro, in divenire.
3. Dividere, frammentare, balcanizzare
Vediamo di ordinare i fatti più salienti. Come si
ricorderà, i mesi che hanno preceduto l’attacco all’Iraq hanno visto salire
a livelli preoccupanti la temperatura della polemica tra Stati Uniti e paesi
europei contrari alla guerra, a cominciare dalla Francia. Si sono sentiti, da
una parte, ministri (Védrine e Patten) accusare la politica estera americana di
semplicismo e capi di governo (Schroeder) parlare di avventurismo. Si è saputo,
dall’altra, di risposte a dir poco ruvide provenienti da voci «moderate»
(Powell: «a Védrine dà di volta il cervello») e di oscure minacce (Rice:
«la Francia dovrà pagare un prezzo»). [i] La guerra, si sa,
scalda gli animi, e dunque la rissa scoppiata nel momento in cui apparve chiaro
che gli Stati Uniti avrebbero attaccato l’Iraq a prescindere da qualsiasi
pretesto non sarebbe più di tanto significativa se non fosse stata preceduta da
una lunga serie di antefatti non meno rilevanti. Nei quali la posta in gioco
riguarda un tema chiave: il grado di autonomia del Vecchio Continente rispetto
al potente alleato transatlantico.
Uno dei terreni più accidentati a questo riguardo è
notoriamente quello della tecnologia spaziale, esempio tipico di «dual
technology», strategica sia in campo civile che per fini militari. In questo
contesto si colloca la competizione tra Europa e Stati Uniti in materia di
sistemi di rilevamento e navigazione satellitare. Al Gps americano («Ground
positioning system»), direttamente controllato dalla Difesa, un consorzio di
paesi europei ha contrapposto un sistema di nuova generazione («Galileo»),
dotato di maggior potenza e precisione. Ma la vita del nuovo sistema, destinato
a entrare in funzione nel 2008, è stata costellata di turbolenze sin dai suoi
primi vagiti. Prima Wolfowitz, poi lo stesso Bush hanno tempestato di
«suggerimenti» i paesi consorziati, assicurando che «gli Stati Uniti non
vedono la necessità» di un altro sistema satellitare. Che cosa li preoccupa?
In primo luogo, l’eventualità che «Galileo» interferisca
con i nuovi progetti della tecnologia militare spaziale statunitense, arrecando
grossi danni in caso di guerra. In secondo luogo, il notevole interesse riscosso
dal sistema europeo presso russi e cinesi (i quali ultimi vi hanno investito
oltre 230 milioni di euro, con il proposito di sfruttarne la tecnologia per il
proprio hardware militare). In sostanza, «Galileo» rappresenta agli occhi
degli americani un chiaro indizio della volontà europea di dare corpo a una
propria politica estera autonoma. Questo è il punto, abbastanza scabroso da
indurre gli Stati Uniti a cercare ripetutamente di bloccare il dispiegamento del
sistema europeo. E se da ultimo il contenzioso è parso rientrare (grazie a un
compromesso sulle frequenze che dovrebbe evitare rischi di interferenza con il
segnale militare americano), le ombre non si sono affatto diradate. Powell ha
dichiarato che «Galileo» potrebbe sortire effetti «altamente corrosivi»
sulle relazioni transatlantiche e Raplh Braibanti, suo braccio destro per le
Attività spaziali e tecnologiche, ha chiarito che se i cinesi non sgombrano l’intesa
è destinata a saltare. [6]
Insomma, l’Europa non deve farsi troppe illusioni. Avere capacità di sviluppo
non la autorizza a far da sé. Una cosa è il know how, tutt’altro paio di
maniche il diritto di usarlo e di stabilire le finalità del suo impiego: un
diritto che riposa sulla forza.
«Galileo» è solo la punta di un iceberg che si chiama
Difesa europea e la cui storia attraversa tutti gli anni Novanta.
Tradizionalmente diffidenti verso il processo di unificazione del Vecchio
Continente, gli Stati Uniti si sono sempre augurati che gli accordi economici
non coinvolgessero la sfera istituzionale e tanto meno un terreno come la
politica estera, nel quale la crescente autonomia europea tende a tradursi
immediatamente in una presa di distanza foriera di minacciosi sviluppi. Ogni
passo in avanti in direzione dell’unità dell’Europa ha irritato e
preoccupato l’America, ed è stato subito chiaro (ancor prima che se ne
potessero verificare le potenzialità) che la nascita dell’euro avrebbe
segnato un salto di qualità nella storia delle sue relazioni con l’Europa. Ma
negli ultimi due anni nel mirino degli Stati Uniti è stato in particolare il
lavorio diplomatico che alcuni paesi europei - a cominciare dalla Francia e
dalla Germania - vengono svolgendo per dare corpo a una struttura militare
autonoma dall’alleanza atlantica.
L’idea è quella di creare una forza armata europea e di
costituzionalizzare una clausola di mutua assistenza tra i paesi dell’Unione.
Negli incontri su questo tema susseguitisi a Bruxelles nella primavera del 2003
si è progettata l’istituzione di un «quartier generale multinazionale» per
operazioni congiunte e di una Agenzia europea della difesa, che dovrebbe avere
il compito di armonizzare la ricerca e la produzione industriale militare,
superando i costi operativi ed economici dell’attuale frammentazione. La
risposta americana non si è fatta attendere. «Quello di cui abbiamo bisogno -
ha subito osservato Powell - è di rafforzare le strutture già esistenti, non
di creare altri quartieri generali». La contesa non ha tardato a coinvolgere il
nocciolo della questione. Dando voce alla fondamentale preoccupazione europea,
Chirac ha parlato di multilateralismo (affermando che, «piaccia o meno, il
mondo multipolare sta nascendo»). L’ambasciatore americano all’Onu, Burns,
gli ha indirettamente risposto che l’eventuale costituzione di un quartier
generale europeo costituirebbe «una seria minaccia per l’esistenza stessa
dell’Alleanza atlantica». E - mentre il «Financial Times» definiva
nientemeno che «catastrofica per le ambizioni politiche e militari Usa» l’eventualità
di una «Europa unita sotto la tradizionale leadership franco-tedesca» - l’immancabile
commento del neo-con di turno (il politologo Gerard Baker, autore di una cover
di «Weekly Standard» graziosamente intitolata Against United Europe) ha
sancito il grado di reciproca aggressività: «il multilateralismo in cui
credono gli europei utilizza le istituzioni per mettere sotto accusa il potere
americano»; l’Unione Europea non è altro che «una potenza-cecchino, sempre
pronta ad abbattere gli obiettivi della politica estera statunitense in ogni
parte del mondo»; «i rischi per la stabilità dell’Europa sono fion troppo
ovvi, e non è troppo tardi perché gli Stati Uniti cerchiono di impedire al
super-Stato europeo di tradursi in realtà». Fornendo una descrizione fedele
dello stato dei rapporti transatlantici (ciò che un uomo politico non dovrebbe
mai fare senza mettere in conto le conseguenze della propria sincerità), il
commissario europeo al commercio, Pascal Lamy, ha quindi dichiarato che l’istituzione
di un esercito europeo è ormai all’ordine del giorno, in quanto «la
rivalità tra i due insiemi atlantici si fa sempre più evidente». [7]
[1] Quaderni del
carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana,
Einaudi, Torino 1975, p. 1590.
[2] Per una analisi critica delle teorie
della «globalizzazione» si vedano Jean-Luc Salle, Globalizzazione e
mondializzazione capitalista, in Competizione globale, imperialismo,
contraddizioni interimperialistiche (speciale de «l’ernesto», marzo-aprile
2001); James Petras, Empire with Imperialism, «Rebellion», ottobre 2001; James
Petras - Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata. L’Imperialismo nel
XXI secolo, Jaca Book, 2002; Mauro Casadio - James Petras - Luciano Vasapollo,
Clash. Scontro tra potenze, Jaca Book, Milano 2004. Un’apprezzabile
problematizzazione del concetto di «globalizzazione» sottende - sullo sfondo
di una riflessione sul nesso tra economia e guerra - l’analisi di Andrea
Fumagalli, Guerra al terrorismo e terrorismo economico. Quattro atti per un
esito scontato, in AA.VV., La guerra dei mondi. Scenari d’Occidente dopo le
Twin Towers, DeriveApprodi, Roma 2002, in part. pp. 105 ss. Rimane di grande
utilità Paul Hirst - Grahame Thompson, La globalizzazione dell’economia,
Editori Riuniti, Roma 1997. Sulla perdurante centralità degli Stati per quanto
concerne in particolare le questioni della sicurezza pone l’accento con
ricchezza di documentazione Roberto Menotti, XXI secolo: fine della sicurezza?,
Laterza, Roma-Bari 2003.
[3] Sandro Viola, La guerra americana che fa male
all’Europa, «la Repubblica», 19 agosto 2002.
[4] Henry Kissinger, Il difficile equilibrio fra Europa e
America, «La Stampa», 1 dicembre 2002.
[5] Charles A. Kupchan, La fine dell’era Americana,
cit., p. XVIII. L’idea è che - se per un verso proprio l’unilateralismo
americano condurrà presto al superamento dell’organizzazione unipolare - la
«gestione del ritorno al multipolarismo» si annuncia tuttavia densa di
pericoli per «una rinnovata instabilità e un rinnovato conflitto», dovuti
alla rivalità tra le aree forti del pianeta (pp. 330-1). Quello di Kupchan è
un libro documentato e serio, che dimostra una reale conoscenza dei problemi
discussi: in confronto altre analisi - a cominciare da Impero di Michael
Hardt e Toni Negri - appaiono esercizi di fantapolitica: brillanti escogitazioni
di cui tuttavia si stenta a vedere il rapporto con la realtà.
[i] Irritations transatlantiques,
«Le Monde», 17-18 febbraio 2002; Franco Pantarelli, Rice non perdona
Francia e Germania, «il manifesto», 8 maggio 2003.
[6] Federico Fubini, E sui satelliti «Galileo» il
veto degli Usa, «Corriere della Sera», 7 febbraio 2004; Enrico Brivio, Usa:
positiva l’intesa con Galileo, «Il Sole-24 Ore», 27 febbraio 2004.
[7] Sergio
Sergi, I Quattro antiguerra rilanciano la difesa europea, «l’Unità»,
30 aprile 2003; Franco Papitto, «Subito l’esercito europeo», «la
Repubblica», 30 aprile 2003; Siegmund Ginzberg, «Guerra preventiva» Usa
contro l’Europa unita?, «l’Unità», 29 maggio 2003; Gerard Baker, L’Europa
potenza preoccupa gli Usa, «Liberazione», 20 settembre 2003; Daniele
Zaccaria, Difesa europea, Washington su tutte le furie, «Liberazione»,
17 ottobre 2003.