Obiettivo Europa. La vera posta in gioco della «guerra preventiva» americana

Alberto Burgio

1. Il potere militare USA

A ben guardare, la decisione americana di attaccare l’Iraq (ma già quella di impadronirsi dell’Afghanistan e di scendere in lizza nel processo di disgregazione della Jugoslavia) rivela il carattere estorsivo (in senso proprio mafioso) dell’esercizio del potere militare da parte degli Stati Uniti nella fase successiva al collasso dell’ordine bipolare. Se durante la Guerra fredda la corsa agli armamenti nucleari e le guerre regionali avevano lo scopo prioritario di dimostrare all’avversario il costante accrescersi della propria potenzialità distruttiva, dopo il ‘91 minacciare e, ove occorra, impiegare la violenza armata serve, alla superpotenza globale, ad impedire che altri Stati possano crescere e, crescendo, emanciparsi dal prelievo parassitario garantito dal sistema internazionale di scambi incentrato sul dollaro. Questa è la vera differenza tra le due fasi storiche, non la presunta originalità della «guerra preventiva» (quale strategia ha un più chiaro scopo preventivo della deterrenza?) né la dimensione globale della competizione (già ampiamente acquisita dopo Yalta). L’aspetto più significativo dell’ultimo quindicennio consiste nella ferma determinazione americana a mantenere, manu militari, la possibilità di approvvigionarsi gratuitamente imponendo al resto del pianeta un vero e proprio sistema di corvée.

2. Verso la «guerra civile occidentale»?

Ciò che emerge con la massima evidenza è che solo l’uso della forza militare (o la costante minaccia di farvi ricorso) sostiene l’economia del paese che suole ergersi a massimo garante del libero mercato. In questo senso Paul Krugman ha usato l’espressione «economia della paura», suggerendo come quest’ultima sia il principale lubrificante di un sistema economico mondiale ancora incentrato sul dollaro, nonostante tutti i fattori di crisi che ne minano la credibilità. Non c’è, ovviamente, da stupirsene. Non si ricorderà mai abbastanza quella geniale pagina dei Quaderni nella quale Gramsci sottolinea come «il liberismo [sia] una “regolamentazione” di carattere statale», «un programma politico», e venga con piena consapevolezza «introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva». [1] Ciò che desta meraviglia è piuttosto il fatto che - proprio come ai tempi di Gramsci, come se l’esperienza storica non giovasse in alcun modo - buona parte della cosiddetta «sinistra critica», abbagliata dalle retoriche della «globalizzazione», abbia fatto proprie e trasformato in dogmi formule ideologiche confutate da ogni evidenza. Risulta difficile comprendere come teorie che discorrono di «autonomia del capitale globale» e di «esaurimento del ruolo storico degli Stati nazionali» possano ottenere ascolto in una fase segnata in profondità dalla guerra (cioè dalla più pura espressione della forza degli apparati statuali) e dal primato della politica (che, attraverso la guerra, rivendica a sé la funzione di istanza fondamentale dei processi riproduttivi). [2]

Ma andiamo avanti e poniamoci una domanda solo in apparenza pleonastica. Perché gli Stati Uniti considerano la crescita di altri paesi o aree del mondo una minaccia per la loro posizione dominante? Per essere più precisi: attraverso quali passaggi lo sviluppo economico altrui potrebbe tradursi in una fonte di rischio per la superpotenza militare del pianeta? La risposta, ovviamente, è intuitiva, essendo del tutto ovvio il nesso che salda la crescita economica alla potenza politica e militare. Ma quel che conta per noi è come tale nesso venga oggi tematizzato da parte dell’establishment americano, in quanto negli argomenti prodotti a tale riguardo sono inscritti precisi identikit dei potenziali «competitori globali» contro cui si dirigono le preoccupazioni della Casa Bianca e degli stati maggiori.

Nemmeno venti giorni dopo l’11 settembre, il Pentagono divulga un documento strategico che conferisce dignità scientifica alla dottrina delle «minacce regionali», puntualmente evocata a sostegno degli interventi militari degli anni Novanta. Ma il rapporto non si limita alle aree periferiche. Pur concedendo che non è probabile che «nel prossimo futuro» gli Stati Uniti si trovino di fronte «un rivale di pari forza», afferma come la minaccia di nuove competizioni globali non possa essere archiviata a cuor leggero, in quanto «in Asia, in particolare, esiste la possibilità che emerga un rivale militare con una formidabile base di risorse». Per decodificare, non c’è bisogno di peculiari attitudini esegetiche, né di rammentare il trattamento che Bush riserverà alla Cina nel discorso di West Point del I giugno del 2002 (o in occasione delle recentissime accuse sul costo del lavoro e sul protezionismo a favore dell’hi-tech cinese, sfociate, il 18 marzo scorso, in un formale ricorso americano alla Wto).

Le risorse come «formidabile base» della potenza militare: il ragionamento vale, come per la Cina, anche e soprattutto per l’Europa, che ha approfittato della scomparsa dell’Unione Sovietica per accumulare potenza economica e per porre - ben prima del gigante asiatico - le premesse per una sfida egemonica globale. È quanto emerge con chiarezza dall’analisi sulle «tendenze globali» di qui al 2015 e dalla più volte citata Defense Planning Guidance. Nei primi anni Novanta questa aveva già posto l’accento sulla necessità di «scoraggiare i tentativi, da parte di nazioni industrializzate, di sfidare la leadership americana, o anche solo di modificare l’ordine politico ed economico costituito». E aveva indicato nell’eventuale costituzione di un sistema di difesa europeo autonomo dalla Nato una delle più serie sfide all’egemonia statunitense. In modo altrettanto esplicito, una decina di anni dopo gli autori di Global Trends ventilano la possibilità che «l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa crolli» in conseguenza dell’effetto combinato di due ordini di fenomeni: il probabile «intensificarsi delle guerre commerciali» e l’altrettanto verosimile radicalizzarsi della «competizione per la leadership sulle questioni della sicurezza» (un modo alquanto barocco per designare l’ambito delle risorse militari mobilitabili in caso di conflitto armato).

L’idea è molto chiara. Se la ricchezza economica è condizione fondamentale per conquistare e mantenere uno «status di potenza» politico-militare, le minacce più gravi provengono dalle zone più sviluppate del pianeta, a cominciare proprio dall’Europa. È dunque verso di essa che la superpotenza deve orientare la massima attenzione «preventiva»: sia impedendole di metter le mani su aree strategiche ricche di materie prime e di risorse energetiche, sia frustrando sul nascere le sue ambizioni di autonomia politica e militare. Ce n’è abbastanza per non liquidare come bizzarrie le invettive di un Kagan contro l’imbelle «vecchia Europa» o gli avvertimenti di un Fukuyama, tornato sulla scena per dire come tra Europa e Stati Uniti si sia aperto ormai «un abisso» e per chiedersi se abbia ancora senso «parlare di Occidente nel XIX secolo». [3]

E difatti a lanciare l’allarme circa una rovinosa rotta di collisione tra le due sponde dell’Atlantico sono persone di solito poco inclini ai toni urlati. Commentando gli esiti del vertice di Praga che ha sancito l’inclusione nella Nato dei Paesi baltici e di diversi Stati dell’ex-Patto di Varsavia, Kissinger ha sottolineato il pericolo che le fisiologiche divergenze di prospettiva tra Europa occidentale e Stati Uniti cedano il passo a veri e propri «disaccordi», poiché in tal caso «la civiltà occidentale sarebbe sulla strada dell’autodistruzione, come è già accaduto nella prima metà del XX secolo». [4] Sono parole pesanti quanto macigni, come quelle scritte da Charles Kupchan, per il quale la «fine dell’era americana» condurrà a «un nuovo contesto globale, molto meno prevedibile e assai più pericoloso», perché segnato dal «ritorno della tradizionale rivalità geopolitica». [5] In altre parole, il quadro disegnato da Kupchan non sembra molto diverso da quello di una possibile «guerra civile occidentale».

Intendiamoci. Sostenere che il mondo sia alle porte di un conflitto armato tra America ed Europa sarebbe assurdo, oltre che sconsiderato. Ma dal negare questa circostanza al ritenere che, tolta qualche superficiale increspatura, tutto fili liscio tra le due sponde dell’Atlantico ce ne corre. In questo caso la verità sta davvero nel mezzo: nel corso degli ultimi anni si sono accumulati fraintendimenti, risentimenti e seri motivi di reciproco malcontento, in grado di compromettere gravemente le relazioni tra gli Stati Uniti ed alcuni grandi paesi europei. Il fatto che non si sia ancora giunti a un punto di non ritorno e a una rottura non deve indurre a sottovalutare la pericolosità di un processo tuttora, peraltro, in divenire.

3. Dividere, frammentare, balcanizzare

Vediamo di ordinare i fatti più salienti. Come si ricorderà, i mesi che hanno preceduto l’attacco all’Iraq hanno visto salire a livelli preoccupanti la temperatura della polemica tra Stati Uniti e paesi europei contrari alla guerra, a cominciare dalla Francia. Si sono sentiti, da una parte, ministri (Védrine e Patten) accusare la politica estera americana di semplicismo e capi di governo (Schroeder) parlare di avventurismo. Si è saputo, dall’altra, di risposte a dir poco ruvide provenienti da voci «moderate» (Powell: «a Védrine dà di volta il cervello») e di oscure minacce (Rice: «la Francia dovrà pagare un prezzo»). [i] La guerra, si sa, scalda gli animi, e dunque la rissa scoppiata nel momento in cui apparve chiaro che gli Stati Uniti avrebbero attaccato l’Iraq a prescindere da qualsiasi pretesto non sarebbe più di tanto significativa se non fosse stata preceduta da una lunga serie di antefatti non meno rilevanti. Nei quali la posta in gioco riguarda un tema chiave: il grado di autonomia del Vecchio Continente rispetto al potente alleato transatlantico.

Uno dei terreni più accidentati a questo riguardo è notoriamente quello della tecnologia spaziale, esempio tipico di «dual technology», strategica sia in campo civile che per fini militari. In questo contesto si colloca la competizione tra Europa e Stati Uniti in materia di sistemi di rilevamento e navigazione satellitare. Al Gps americano («Ground positioning system»), direttamente controllato dalla Difesa, un consorzio di paesi europei ha contrapposto un sistema di nuova generazione («Galileo»), dotato di maggior potenza e precisione. Ma la vita del nuovo sistema, destinato a entrare in funzione nel 2008, è stata costellata di turbolenze sin dai suoi primi vagiti. Prima Wolfowitz, poi lo stesso Bush hanno tempestato di «suggerimenti» i paesi consorziati, assicurando che «gli Stati Uniti non vedono la necessità» di un altro sistema satellitare. Che cosa li preoccupa?

In primo luogo, l’eventualità che «Galileo» interferisca con i nuovi progetti della tecnologia militare spaziale statunitense, arrecando grossi danni in caso di guerra. In secondo luogo, il notevole interesse riscosso dal sistema europeo presso russi e cinesi (i quali ultimi vi hanno investito oltre 230 milioni di euro, con il proposito di sfruttarne la tecnologia per il proprio hardware militare). In sostanza, «Galileo» rappresenta agli occhi degli americani un chiaro indizio della volontà europea di dare corpo a una propria politica estera autonoma. Questo è il punto, abbastanza scabroso da indurre gli Stati Uniti a cercare ripetutamente di bloccare il dispiegamento del sistema europeo. E se da ultimo il contenzioso è parso rientrare (grazie a un compromesso sulle frequenze che dovrebbe evitare rischi di interferenza con il segnale militare americano), le ombre non si sono affatto diradate. Powell ha dichiarato che «Galileo» potrebbe sortire effetti «altamente corrosivi» sulle relazioni transatlantiche e Raplh Braibanti, suo braccio destro per le Attività spaziali e tecnologiche, ha chiarito che se i cinesi non sgombrano l’intesa è destinata a saltare. [6] Insomma, l’Europa non deve farsi troppe illusioni. Avere capacità di sviluppo non la autorizza a far da sé. Una cosa è il know how, tutt’altro paio di maniche il diritto di usarlo e di stabilire le finalità del suo impiego: un diritto che riposa sulla forza.

«Galileo» è solo la punta di un iceberg che si chiama Difesa europea e la cui storia attraversa tutti gli anni Novanta. Tradizionalmente diffidenti verso il processo di unificazione del Vecchio Continente, gli Stati Uniti si sono sempre augurati che gli accordi economici non coinvolgessero la sfera istituzionale e tanto meno un terreno come la politica estera, nel quale la crescente autonomia europea tende a tradursi immediatamente in una presa di distanza foriera di minacciosi sviluppi. Ogni passo in avanti in direzione dell’unità dell’Europa ha irritato e preoccupato l’America, ed è stato subito chiaro (ancor prima che se ne potessero verificare le potenzialità) che la nascita dell’euro avrebbe segnato un salto di qualità nella storia delle sue relazioni con l’Europa. Ma negli ultimi due anni nel mirino degli Stati Uniti è stato in particolare il lavorio diplomatico che alcuni paesi europei - a cominciare dalla Francia e dalla Germania - vengono svolgendo per dare corpo a una struttura militare autonoma dall’alleanza atlantica.

L’idea è quella di creare una forza armata europea e di costituzionalizzare una clausola di mutua assistenza tra i paesi dell’Unione. Negli incontri su questo tema susseguitisi a Bruxelles nella primavera del 2003 si è progettata l’istituzione di un «quartier generale multinazionale» per operazioni congiunte e di una Agenzia europea della difesa, che dovrebbe avere il compito di armonizzare la ricerca e la produzione industriale militare, superando i costi operativi ed economici dell’attuale frammentazione. La risposta americana non si è fatta attendere. «Quello di cui abbiamo bisogno - ha subito osservato Powell - è di rafforzare le strutture già esistenti, non di creare altri quartieri generali». La contesa non ha tardato a coinvolgere il nocciolo della questione. Dando voce alla fondamentale preoccupazione europea, Chirac ha parlato di multilateralismo (affermando che, «piaccia o meno, il mondo multipolare sta nascendo»). L’ambasciatore americano all’Onu, Burns, gli ha indirettamente risposto che l’eventuale costituzione di un quartier generale europeo costituirebbe «una seria minaccia per l’esistenza stessa dell’Alleanza atlantica». E - mentre il «Financial Times» definiva nientemeno che «catastrofica per le ambizioni politiche e militari Usa» l’eventualità di una «Europa unita sotto la tradizionale leadership franco-tedesca» - l’immancabile commento del neo-con di turno (il politologo Gerard Baker, autore di una cover di «Weekly Standard» graziosamente intitolata Against United Europe) ha sancito il grado di reciproca aggressività: «il multilateralismo in cui credono gli europei utilizza le istituzioni per mettere sotto accusa il potere americano»; l’Unione Europea non è altro che «una potenza-cecchino, sempre pronta ad abbattere gli obiettivi della politica estera statunitense in ogni parte del mondo»; «i rischi per la stabilità dell’Europa sono fion troppo ovvi, e non è troppo tardi perché gli Stati Uniti cerchiono di impedire al super-Stato europeo di tradursi in realtà». Fornendo una descrizione fedele dello stato dei rapporti transatlantici (ciò che un uomo politico non dovrebbe mai fare senza mettere in conto le conseguenze della propria sincerità), il commissario europeo al commercio, Pascal Lamy, ha quindi dichiarato che l’istituzione di un esercito europeo è ormai all’ordine del giorno, in quanto «la rivalità tra i due insiemi atlantici si fa sempre più evidente». [7]-----

In effetti, le divergenze sorte in merito al progetto di una autonoma forza militare europea hanno dato avvio a una nuova fase, caratterizzata da un conflitto transatlantico di inedita radicalità. Le contromisure americane mirano a un obiettivo strategico: destabilizzare l’Unione Europea per metterne in forse la stessa esistenza. In vista di tale finalità, gli Stati Uniti sono attualmente impegnati in due direzioni: da un lato operano per «disaggregare» il Vecchio Continente, rinsaldando alleanze selettive con i partners europei tradizionalmente più affidabili (Gran Bretagna e - sino alla sconfitta di Aznar - Spagna); dall’altro, hanno messo in campo una grande manovra di accerchiamento nei confronti dell’Europa continentale.

Quanto alle divisioni in seno all’Europa, basta scorrere le cronache quotidiane. La Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia hanno svolto con efficacia, in tutti questi mesi, il ruolo dei guastatori, spaccando su tutto: dal progetto di Costituzione alla guerra in Iraq, dalla Difesa europea al coordinamento delle politiche economiche e istituzionali. Contro il processo di costruzione federale dell’Unione, questi paesi si battono in sostanza nel nome di un’ipotesi confederalista, che decreterebbe, nei fatti, il tramonto del progetto unitario. Ovviamente, sarebbe ingenuo attribuire al libero arbitrio di Blair, Aznar e Berlusconi la zelante esecuzione di questo compito. Com’è stato documentato dal «Financial Times», si deve all’attivismo statunitense anche la famosa «lettera degli 8», che nel gennaio 2003 ruppe il fronte europeo avverso all’attacco contro Saddam. [8] Rumsfeld applaudì, contrapponendo la «nuova» Europa dei «volonterosi» alla «vecchia» dei recalcitranti, degli ingrati, degli imbelli. Altrettanto è accaduto in occasione di una riunione del Consiglio Europeo lo scorso ottobre, a proposito della Difesa europea. Quando, come in un coro greco, Blair, Berlusconi e Aznar hanno ripetuto che la difesa dell’Europa e affare della Nato, non dell’Unione Europea, e che va dunque evitata qualsiasi decisione che possa sminuire il ruolo dell’alleanza atlantica.

In vista dell’accerchiamento della «vecchia Europa», gli Stati Uniti avevano previsto di puntare, per un verso, sulla Spagna, il cui peso strategico - almeno sino all’inversione di tendenza provocata dalle ultime elezioni politiche del marzo 2004 - era destinato ad aumentare, come dimostra anche la recente decisione di spostare l’intera Sesta Flotta a Rota, nei pressi di Cadice. Ma la carta decisiva (tanto più dopo la vittoria dei socialisti spagnoli) è rappresentata dallo spostamento a est del baricentro geopolitico del continente. In vista di questo obiettivo, un ruolo di grande rilievo è svolto proprio dalla Nato, alla quale le guerre balcaniche hanno conferito nuovo impulso.

Dopo aver infarcito di basi militari l’Albania e il Kosovo, gli Stati Uniti hanno appuntato l’attenzione sui paesi dell’ex-Patto di Varsavia, a cominciare dalla Polonia, prescelta per sostituire la Germania nel ruolo di testa di ponte americana nel cuore dell’Europa. Alla fine di novembre del 2002 il vertice Nato di Praga sancisce le profonde modificazioni strutturali e funzionali dell’alleanza atlantica varate tre anni e mezzo prima nel vertice di Washington, passato alla storia per il battesimo del cosiddetto «nuovo concetto strategico». La Nato ingloba sette paesi dell’ex-Patto di Varsavia, archivia la natura difensiva dell’alleanza (consacrata dall’art. 5 del trattato fondativo) e (confermando le scelte già compiute con l’invio di truppe in Kosovo e in Afghanistan) abbandona qualsiasi riferimento territoriale, per assumere la fisionomia di una forza di intervento rapido «preventivo» abilitata ad agire in tutto il mondo.

Nelle cronache, l’accento cade sugli obiettivi strategici di quella che sarà chiamata «Nato response force». Costituita da corpi scelti, la nuova forza d’intervento rapido dovrà concentrarsi sulle «nuove e pericolosissime minacce del XXI secolo», a cominciare dal «terrorismo in tutte le sue manifestazioni». Ma il nocciolo della partita è altrove: nei rapporti con l’Onu (rispetto alla quale la Nato pretende di porsi in posizione simmetrica); nella marcata proiezione offensiva conseguita con il superamento del «concetto strategico» originario; soprattutto nella struttura della catena di comando, che - in omaggio all’imperativo della rapidità - affida ora determinazioni strategiche e operative al «comandante supremo alleato». Come ha osservato Manlio Dinucci, l’applicazione delle risoluzioni assunte a Washington con il consenso dei governi europei (presidente del Consiglio italiano era allora Massimo D’Alema) determina lo scavalcamento non solo dei parlamenti, ma degli stessi governi alleati. D’ora in avanti, la Nato potrà muoversi anche «senza la partecipazione di alcuni paesi» troppo lenti o restii, «lasciando al comandante supremo alleato il diritto di decidere come e dove impiegare le proprie forze». [9]

Del resto, lo stesso discorso vale - con buona pace della sovranità nazionale degli Stati e delle costituzioni che negano legittimità a guerre offensive - per la gran parte delle basi americane in territorio europeo. Si è accennato allo spostamento della Sesta Flotta (in precedenza acquartierata a Gaeta) e al nuovo ruolo della Polonia, ma sarebbe sbagliato desumerne l’intenzione americana di mollare la presa sul territorio italiano e tedesco. Ramstein am Rhein, dove è attiva una base con più di 80mila addetti, e le altre basi in Germania in cui è dislocata una forza complessiva di circa 60mila uomini, restano ben salde e direttamente sottoposte all’alto comando americano. Lo stesso vale per Aviano, per la Maddalena e Sigonella, per Brindisi e Taranto, senza contare che il quartier generale delle Forze alleate del Sud dell’Europa resta a Napoli. Quanto poi a Camp Darby, se ne prevede addirittura un ampliamento che ne farà la base logistica statunitense più grande d’Europa.  [10]

L’idea di fare della Nato uno strumento al servizio degli interessi statunitensi contrapposto all’Onu e all’Unione Europea è sempre più spesso dichiarata in modo esplicito da esponenti dell’amministrazione americana e dai suoi stessi dirigenti. Il segretario generale dell’alleanza, Robertson, ha detto molto tranquillamente che la Nato ha l’«obbligo morale» di sostenere gli Stati Uniti in tutte le loro scelte. A sua volta, Condoleezza Rice, consigliera di Bush per la Sicurezza nazionale, ha spiegato che se il dopoguerra è finito, anche le istituzioni che hanno preso forma nel ‘45 debbono cambiare: per una nuova Nato che espande a tutto il pianeta la propria competenza, occorrerà una nuova Onu, cui spetterà di combattere contro la diffusione delle «armi di distruzione di massa». [11] Il quadro che simili prese di posizione delineano è chiaro. Gli Stati Uniti si stanno attrezzando per nuovi conflitti, in vista dei quali i vecchi alleati europei non danno garanzie di affidabilità. Per dirla più chiaramente, non è più possibile annoverare l’Europa tra «i nostri». Sempre più ricco, sempre più potente sul terreno della competizione finanziaria, sempre più ambizioso sul piano della politica estera, il Vecchio Continente va tenuto sotto stretto controllo e, ove ciò dovesse rendersi inevitabile, ricondotto al senso della realtà con qualche energica dimostrazione dei rapporti di forza.

Ma c’è di più. Se le contromisure sin qui passate in rassegna hanno il compito di ostacolare le indebite iniziative europee in campo internazionale, una strategia all’altezza dei tempi deve avere un respiro più largo e declinarsi in un’adeguata prospettiva di «prevenzione». Si colloca in questo contesto l’obiettivo più ambizioso che almeno una parte dell’establishment statunitense coltiva per quanto riguarda il futuro dell’Europa. L’idea, vecchia come il mondo, che per dominare occorra dividere ispira l’attuale amministrazione statunitense in tutti i teatri di guerra. Il progetto di un «grande Medio Oriente» riposa sull’ipotesi di una balcanizzazione della regione (che dovrebbe esser poi presidiata dai pochi poteri statuali affidabili, primo fra tutti Israele). La stessa logica sottende le aspirazioni strategiche della destra americana per quanto concerne la Russia e, appunto, l’Europa.  [12]

A ben guardare, le ragioni di tale opzione sono semplici. In primo luogo, ove si riuscisse a destrutturare gli Stati nazionali sostituendoli con una miriade di piccoli centri di sovranità, si otterrebbe di trasformarne il territorio in una costellazione di micro-poteri regionali, incapaci di opporre al dominante e ai suoi proconsoli la benché minima resistenza sul piano politico e militare. Al tempo stesso, si determinerebbe la frantumazione di qualsiasi istituzione sociale (dai partiti ai sindacati), privando le popolazioni di qualsiasi tutela contro i processi di privatizzazione in atto sia sul terreno economico che in ambito politico. Com’è facile vedere, si tratta dunque, in una battuta, di un progetto di restaurazione neo-feudale, che sogna di rifare dell’Europa un caleidoscopio di piccole enclaves. Ma questa ispirazione manifestamente reazionaria non deve ingannare. Il rigurgito di localismi, di sottoculture tribali e di nostalgie vernacolari cui ci è dato assistere da un quindicennio a questa parte dovrebbe averci vaccinato contro l’illusione deterministica della irreversibilità delle conquiste civili. E lo stesso vale per il revival neo-etnico e per la proliferazione di razzismi vecchi e nuovi in ogni parte d’Europa.

Del resto, se davvero si trattasse di impraticabili utopie negative, non vi sarebbero tante organizzazioni e tanti movimenti disposti a battersi per la loro realizzazione. E invece gli imprenditori politici che si muovono lungo simili linee strategiche abbondano in tutti i paesi europei e noi italiani ne sappiamo qualcosa. La Lega di Bossi nasce precisamente con questa idea, propagandata già alla fine degli anni Ottanta da Gianfranco Miglio sotto l’insegna del motto secessionista «ex uno plures». E si muove da sempre con implacabile coerenza verso questo obiettivo, appena dissimulato dalla chiacchiera «federalista». La sua avversione nei confronti dell’Unione Europea («forcolandia»), i suoi progetti di secessione e di frantumazione dell’unità del paese, il suo peculiare populismo, il suo inestinguibile odio per la Costituzione repubblicana, le sue stesse propensioni razziste, tutto questo arsenale ideologico non dovrebbe essere banalizzato come un’espressione di primitivismo. Andrebbe piuttosto interpretato - insieme all’inossidabile accordo politico stretto tra Bossi e Berlusconi - alla luce della complessa partita internazionale che si sta giocando in questi anni sulla testa del nostro come degli altri paesi europei.

Ma c’è un ma. Capire la Lega e i fenomeni che le si apparentano in Europa implica comprendere il ruolo degli Stati in questa fase storica. Presuppone che ci si interroghi senza schemi preconcetti sul fatto che
 non da oggi [13] - gli Stati Uniti vedano di buon occhio qualsiasi processo di indebolimento delle istanze nazionali e si impegnino attivamente per destrutturarle. Quanto è probabile che ciò avvenga, se per un verso non siamo ancora in grado di accantonare la litania del «superamento degli Stati nazionali» e, per l’altro, restiamo abbarbicati ai ruderi del dibattito ottocentesco e primo-novecentesco tra «statalisti» e fautori della «società civile»?


[1] Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1590.

[2] Per una analisi critica delle teorie della «globalizzazione» si vedano Jean-Luc Salle, Globalizzazione e mondializzazione capitalista, in Competizione globale, imperialismo, contraddizioni interimperialistiche (speciale de «l’ernesto», marzo-aprile 2001); James Petras, Empire with Imperialism, «Rebellion», ottobre 2001; James Petras - Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata. L’Imperialismo nel XXI secolo, Jaca Book, 2002; Mauro Casadio - James Petras - Luciano Vasapollo, Clash. Scontro tra potenze, Jaca Book, Milano 2004. Un’apprezzabile problematizzazione del concetto di «globalizzazione» sottende - sullo sfondo di una riflessione sul nesso tra economia e guerra - l’analisi di Andrea Fumagalli, Guerra al terrorismo e terrorismo economico. Quattro atti per un esito scontato, in AA.VV., La guerra dei mondi. Scenari d’Occidente dopo le Twin Towers, DeriveApprodi, Roma 2002, in part. pp. 105 ss. Rimane di grande utilità Paul Hirst - Grahame Thompson, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997. Sulla perdurante centralità degli Stati per quanto concerne in particolare le questioni della sicurezza pone l’accento con ricchezza di documentazione Roberto Menotti, XXI secolo: fine della sicurezza?, Laterza, Roma-Bari 2003.

[3] Sandro Viola, La guerra americana che fa male all’Europa, «la Repubblica», 19 agosto 2002.

[4] Henry Kissinger, Il difficile equilibrio fra Europa e America, «La Stampa», 1 dicembre 2002.

[5] Charles A. Kupchan, La fine dell’era Americana, cit., p. XVIII. L’idea è che - se per un verso proprio l’unilateralismo americano condurrà presto al superamento dell’organizzazione unipolare - la «gestione del ritorno al multipolarismo» si annuncia tuttavia densa di pericoli per «una rinnovata instabilità e un rinnovato conflitto», dovuti alla rivalità tra le aree forti del pianeta (pp. 330-1). Quello di Kupchan è un libro documentato e serio, che dimostra una reale conoscenza dei problemi discussi: in confronto altre analisi - a cominciare da Impero di Michael Hardt e Toni Negri - appaiono esercizi di fantapolitica: brillanti escogitazioni di cui tuttavia si stenta a vedere il rapporto con la realtà.

[i] Irritations transatlantiques, «Le Monde», 17-18 febbraio 2002; Franco Pantarelli, Rice non perdona Francia e Germania, «il manifesto», 8 maggio 2003.

[6] Federico Fubini, E sui satelliti «Galileo» il veto degli Usa, «Corriere della Sera», 7 febbraio 2004; Enrico Brivio, Usa: positiva l’intesa con Galileo, «Il Sole-24 Ore», 27 febbraio 2004.

[7] Sergio Sergi, I Quattro antiguerra rilanciano la difesa europea, «l’Unità», 30 aprile 2003; Franco Papitto, «Subito l’esercito europeo», «la Repubblica», 30 aprile 2003; Siegmund Ginzberg, «Guerra preventiva» Usa contro l’Europa unita?, «l’Unità», 29 maggio 2003; Gerard Baker, L’Europa potenza preoccupa gli Usa, «Liberazione», 20 settembre 2003; Daniele Zaccaria, Difesa europea, Washington su tutte le furie, «Liberazione», 17 ottobre 2003.

[8] Siegmund Ginzberg, «Guerra preventiva»: Usa contro l’Europa unita?, «l’Unità», 29 maggio 2003.

[9] Manlio Dinucci, Una Nato pronta a intervenire, «il manifesto», 16 ottobre 2003.

[10] Manlio Dinucci, E intanto la polveriera di Camp Darby si gonfia, «il manifesto», 26 febbraio 2004.

[11] Claudio Grassi, Nuova alleanza, vecchie servitù, «Liberazione», 11 gennaio 2003; Eusebio Val, Condoleezza Rice: «Non abbiamo destabilizzato l’Europa», «La Stampa», 9 maggio 2003.

[12] Cfr. sul tema Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La strategia dei neoconservatori per spaccare l’Europa, Fazi, Roma 2003; Pierre Hillard, Europa “balcanizzata”?, «Liberazione», 7 settembre 2003; un’autorevole conferma della plausibilità di questa ipotesi fornisce Alain Joxe, L’impero del caso. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale, a cura di Alessandro Dal Lago e Salvatore Palidda, Sansoni, Firenze 2003, pp. 174-5, 178 ss.

[13] Cfr. in proposito quanto osserva Alain Joxe (L’impero del caos, cit., pp. 193 ss.) sulla dottrina clintoniana («democratico-imperiale») dell’enlargement, fondata su un progetto di «decostruzione della società internazionale» e di trasformazione degli Stati nazionali in agenzie economiche delocalizzate.