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Ernesto Screpanti
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L’imperialismo globale e le leggi “naturali” dell’accumulazione capitalistica (Seconda parte)

Ernesto Screpanti

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Un meccanismo disciplinare molto efficace è quello che passa per la “libera” concorrenza. “Vinca il migliore” e “chi sbaglia paga” sono degli slogan che esprimono con precisione, sebbene un po’ eufemisticamente, il meccanismo di fondo con cui la competizione assicura l’efficienza economica: pesce grosso mangia pesce piccolo. Dal punto di vista del capitale efficienza vuol dire capacità di produrre profitti: più alto è il saggio di profitto, maggiore l’efficienza produttiva. Ma il profitto è il carburante e lo stimolo dell’accumulazione: più alto è il saggio di profitto, maggiore la capacità e l’incentivo alla crescita.

È bene chiarire che la libera concorrenza di cui godono le grandi imprese multinazionali moderne non è quella di cui parlano i tradizionali libri di testo. Imprese atomistiche, libertà d’entrata, flessibilità dei prezzi, tanto per dirne alcune, sono caratteristiche che non si riscontrano nei grandi mercati industriali globali. Come ho già accennato, la forma prevalente nei mercati moderni è quella della concorrenza oligopolistica. C’è oligopolio perché le imprese multinazionali, in ogni industria, sono poche e grandi. Inoltre, a causa dell’esistenza di alti costi d’entrata e d’uscita i loro mercati sono scarsamente contendibili e quindi non opera neanche la concorrenza potenziale di eventuali nuove imprese. I prezzi sono piuttosto rigidi in virtù di un sistematico ricorso a pratiche collusive e interazioni strategiche tra imprese. E tuttavia c’è anche concorrenza. In effetti la competizione tra le imprese esistenti è piuttosto forte. Ma è una competizione che passa attraverso l’innovazione, il marketing e la pubblicità piuttosto che attraverso le guerre dei prezzi.

Innovazione, marketing e pubblicità sono tutte pratiche che richiedono grandi dimensioni. Le imprese piccole sono inevitabilmente perdenti in queste attività, perché non hanno a disposizione le enormi quantità di capitali necessarie per finanziare la competizione-non-di-prezzo. Così le grandi imprese godono di vantaggi competitivi sistematici nei confronti delle piccole, vantaggi che assumono la forma di economie dinamiche legate appunto al progresso tecnico. Inoltre le imprese che fanno sistematico ricorso a tecnologie avanzate devono usare mano d’opera specializzata e personale tecnico e scientifico dotato di un elevato “capitale umano”. Ciò presuppone un ambiente sociale e culturale sviluppato del tipo che si dà oggi solo nei paesi capitalistici avanzati. Si può parlare in questo caso di economie esterne sociali.

Per tutti questi motivi i paesi del Nord del mondo, quelli in cui risiedono le teste pensanti e in cui si raccolgono i profitti delle grandi multinazionali, godono di un sistematico vantaggio competitivo nei confronti dei paesi del Sud, nonostante gli enormi differenziali salariali. La ricerca si fa nel Nord. I suoi prodotti sono difficilmente accessibili ai paesi del Sud, sia perché si devono pagare alte royalties, sia perché le applicazioni industriali richiedono quelle economie esterne sociali di cui i PVS sono scarsamente dotati.

Tali paesi si devono quindi specializzare nelle produzioni tecnologicamente meno avanzate, materie prime, prodotti agricoli, manufatti semplici, componentistica e beni di consumo standardizzati, e pagare salari molto più bassi di quelli pagati al Nord, oltre che imporre condizioni di lavoro molto peggiori. Questo tipo di specializzazione produttiva e di distribuzione del reddito non favorisce l’investimento nel “capitale umano” e lo sviluppo di una cultura dell’innovazione, e quindi non promuove il superamento del divario tecnologico. È in funzione una vera e propria trappola del gap tecnologico: il divario di produttività è causato dall’arretratezza sociale e culturale, la quale è a sua volta è alimentata dall’arretratezza economica determinata dal divario tecnologico.

Ma non basta. Collegata alla trappola del gap tecnologico ce n’è un’altra che colpisce i paesi produttori delle cosiddette commodities, i prodotti della terra, sia agricoli che minerari. Un’antica teoria liberista afferma che ogni paese dovrebbe specializzarsi nell’esportazione dei beni per la cui produzione è relativamente meglio dotato. Così i PVS dovrebbero orientarsi verso la fornitura di materie prime, generi alimentari e manufatti a bassa intensità di capitale, scelta che in realtà è stata già effettuata da lungo tempo dai paesi colonialisti e che viene continuamente ribadita dalle multinazionali moderne. I problemi causati da questo tipo di specializzazione sono principalmente due, uno è di lungo periodo e uno di breve. [1] Nel lungo periodo accade che il trend della domanda relativa di commodities da parte dei paesi industrializzati è decrescente, sia pur attraverso ampie oscillazioni. La conseguenza principale di questa tendenza è che il prezzo reale delle commodities (definito come prezzo relativo rispetto a quello dei prodotti esportati dai paesi industrializzati) è sceso in media dello 0,6% l’anno a partire del 1900, essendosi più che dimezzato nel 1992. Le ragioni della tendenza sono molteplici: diminuzione del peso delle industrie pesanti nelle economie industrializzate, aumento del peso dei settori che producono beni immateriali, sostituzione delle materie prime tradizionali con nuovi prodotti di sintesi, miglioramento delle tecniche di recupero, aumento dei consumi di lusso rispetto a quelli necessari, sovvenzionamento statale della produzione agricola nei paesi industrializzati.

Così accade che i paesi che si sono specializzati nell’esportazione di commodities devono fronteggiare una tendenza al peggioramento sistematico delle ragioni di scambio: devono produrre sempre di più per avere in cambio sempre di meno; devono esportare i propri beni nel Nord del mondo a prezzi decrescenti per importare i prodotti industriali a prezzi crescenti. Più avanti spiegherò il modo in cui tale tendenza contribuisce ad attivare un’altra micidiale trappola, quella del debito estero. Per ora mi limiterò a trarre una conclusione generale sul funzionamento di questo meccanismo di sottosviluppo. I produttori di commodities semplicemente non riescono, con l’esportazione dei propri prodotti, a generare quei sistematici surplus delle Bilance dei Pagamenti che sarebbero necessari per avviare un processo di decollo industriale, e quindi sono condannati a restare intrappolati nella loro specializzazione. La storia ha dimostrato che la famosa teoria dei vantaggi comparati dovrebbe essere ridenominata “teoria degli svantaggi comparati”.

Ma ci sono anche problemi di breve periodo. Poiché le commodities sono in genere caratterizzate da bassa elasticità della domanda rispetto al reddito, la loro produzione non riesce a usufruire in pieno della crescita economica dei paesi avanzati durante le fasi di boom. Si aggiunga che questi beni sono anche caratterizzati da basse elasticità della domanda e dell’offerta rispetto ai prezzi. Ciò comporta che oscillazioni delle quantità domandate o offerte tendono a generare oscillazioni dei prezzi ancora più forti. In altri termini i paesi produttori di materie prime e generi alimentari sono molto sensibili al ciclo economico, molto più dei paesi industrializzati. Una lieve recessione delle economie europee e nordamericane può produrre effetti devastanti nei paesi del Sud del mondo.

Si aggiunga infine il fatto che le produzioni più profittevoli dei PVS sono spesso controllate dalle grandi multinazionali e dall’intermediazione commerciale internazionale, cosicché gran parte dei profitti in esse ottenuti vengono incamerati da imprese che li spendono nel Nord del mondo. Si calcola ad esempio che del prezzo di un kilo di banane e di un kilo di caffè non più del 12-13% torna ai paesi produttori; il resto va al Nord.

In conclusione i paesi del Sud del mondo, benché godano di un alto saggio di sfruttamento della loro forza lavoro, non riescono a produrre tutto il plusvalore di cui avrebbero bisogno per avviare il decollo industriale. Per di più non riescono neanche a trattenere quello che producono. Questo bel risultato d’efficienza è ottenuto in semplice virtù delle leggi del mercato. E si capisce che i paesi del Nord premano molto per spingere quelli del Sud ad abbattere le barriere protezionistiche e liberalizzare i propri mercati. È in realtà il grande capitale globale che preme per l’abbattimento di ogni barriera al libero movimento dei capitali, e quindi all’indebolimento dei poteri dei (piccoli) stati nazionali. Il grande capitale ama la libertà (e i sentimenti di fraternità da essa secondati) non per ragioni contingenti, ma per via di principio:

“Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? [...] È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore. [...] La fraternità che il libero scambio stabilirebbe fra le varie nazioni della terra non sarebbe più fraterna. [...] Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale” (Marx, 1971, pp. 175-176)

Tra gli organismi internazionali quelli che più efficacemente lavorano per l’espansione della libertà sono il WTO, l’IMF e la WB, i tre principali strumenti politici per l’apertura del mondo alla penetrazione del capitalismo.

Il WTO è stato precipuamente costituito con lo scopo di favorire l’espansione del commercio mondiale. Ed è stato dotato di efficaci strumenti disciplinari nei confronti dei paesi recalcitranti, sanzioni economiche, ritorsioni, multe etc. Molto importante è il ruolo che il WTO si è assunto nell’ambito degli accordi TRIPS e GATS. I primi mirano a regolare gli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale. In pratica servono a difendere l’intangibilità della proprietà sui prodotti della ricerca scientifica e tecnologica e quindi a garantire la redditività del loro uso. I brevetti, che sono depositati esclusivamente nei paesi capitalistici avanzati, non possono essere usati dai PVS se non pagando i prezzi stabiliti dalle imprese multinazionali che li posseggono. [2] Il GATS invece riguarda il commercio dei cosiddetti “servizi”, dall’istruzione alla sanità, dalle telecomunicazioni ai trasporti, dalle assicurazioni alle banche, dall’ambiente alla fornitura dell’acqua. Molti di questi “servizi” sono beni comuni, pubblici o meritori, oppure sono beni di necessità vitale. In quanto tali, tradizionalmente venivano forniti o regolamentati dalle autorità pubbliche nazionali. Ebbene il WTO, con la scusa di rendere competitivi i mercati dei “servizi”, lavora alla loro privatizzazione e alla penetrazione delle multinazionali anche in questi settori.

Il WTO è forse lo strumento politico più potente del capitale globale. Non a caso le imprese multinazionali sono intervenute pesantemente, in modo diretto e indiretto, sulla formazione e la definizione degli accordi internazionali di libero scambio, specialmente il TRIPS e il GATS.  [3] Il WTO ha in parte sostituito le cannoniere. Attraverso di esso il grande capitale si apre la strada all’espansione e all’accumulazione su scala mondiale; e per di più lo fa con il consenso dei paesi sfruttati.

Quanto all’IMF, questo monte di pietà dei paesi sfigati, è arrivato ad assumere una funzione liberatrice per rispondere alle critiche sollevate contro le sue tradizionali politiche di aggiustamento “strutturale”; le quali in passato, in ossequio all’ottica keynesiana del sistema di Bretton Woods, imponevano restrizioni dal lato della domanda aggregata. Con l’affermarsi dell’ideologia monetarista il termine “strutturale” è stato ridefinito con riferimento alle politiche dell’offerta e privilegiando una visione di lungo periodo, piuttosto che di breve. Così, a partire dal 1979, l’IMF ha cominciato a imporre politiche strutturali mirate al “rilancio dello sviluppo”. E queste, nell’ideologia liberista, si riducono alla deregolamentazione e alla liberalizzazione dei mercati. Dunque: abbattimento dei dazi ed altre forme di protezionismo per aumentare la concorrenza, liberalizzazione dei prezzi per curare l’inflazione, deregolamentazione dei mercati del lavoro per favorirne la flessibilità, deregolamentazione dei mercati finanziari per incoraggiare la mobilità del capitale, privatizzazione delle imprese pubbliche per riequilibrare i conti pubblici ed estendere la concorrenza. È stato osservato che in questo modo l’IMF svolge la funzione di una ruspa che prepara il terreno all’ingresso del capitale nei paesi sfigati. Lo prepara in modo che l’ingresso sia più profittevole possibile: fa abbassare i salari e il costo delle materie prime, rende flessibile il lavoro, fa svendere le imprese pubbliche a costi di realizzo, fa abbattere le barriere protezionistiche.

La WB infine gioca un ruolo più sottile, ma non meno efficace, nell’assicurare l’espansione della libertà. Essa offre aiuto ai PVS sotto forma di finanziamenti agli investimenti nelle infrastrutture necessarie per il decollo industriale, ovvero per la penetrazione del capitale multinazionale. Ma, come l’IMF, non dà nulla gratis. In particolare, come condizione della concessione dei suoi finanziamenti, impone l’abbattimento delle barriere protezionistiche. Molti paesi sono indotti ad aderire al WTO e ad accettare i suoi diktat per poter usufruire degli aiuti allo sviluppo offerti dalla WB e, più in generale, dal capitale del Nord del mondo.

 

2. La disciplina monetaria

Negli anni ‘70 molti PVS trovarono conveniente indebitarsi. I tassi d’interesse erano bassi e i prezzi delle materie prime crescenti. Si pensava che sarebbe stato facile finanziare a basso costo l’industrializzazione, il potenziamento degli eserciti nazionali e l’arricchimento delle classi dominanti. Per di più si aveva la fiducia di poter ripagare il debito con crescenti introiti dalle esportazioni di materie prime. Fu così che il debito estero del Sud del mondo nei confronti del Nord aumentò enormemente.

Negli anni ‘80 però le cose cambiarono. Le spese di riarmo di Reagan, unite a un micidiale mix di politiche fiscali espansive e politiche monetarie restrittive, trascinarono il mondo verso un rapido e drastico rialzo dei tassi d’interesse. Nello stesso tempo, le politiche restrittive che tutti i paesi industrializzati, specialmente l’Europa, adottarono in reazione alle spinte inflazionistiche, determinarono un rallentamento della produzione e del commercio mondiali che ebbero, tra le altre conseguenze, una riduzione della domanda mondiale di commodities. Si verificò così una riduzione dei prezzi delle materie prime proprio mentre quelli dei prodotti industriali andavano alle stelle: le ragioni di scambio peggiorarono enormemente per i paesi del Sud del mondo.

I quali si ritrovarono dunque a dover pagare tassi d’interesse crescenti sui loro debiti e a incassare prezzi decrescenti sulle loro esportazioni: un aumento del costo del debito proprio mentre diminuiva la capacità di pagamento. Questi paesi furono perciò costretti a chiedere nuovi prestiti solo per far fronte al pagamento degli interessi su quelli vecchi.

Il problema fu aggravato dai soccorsi offerti dal Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione preposta all’aiuto finanziario per i paesi in difficoltà nei pagamenti internazionali. Il Fondo concedeva prestiti, ma a condizione che i paesi debitori accettassero i suoi piani d’aggiustamento strutturale, i quali, in ossequio alle politiche d’aggiustamento strutturale cui ho accennato sopra, prevedevano normalmente l’adozione di politiche di: riduzioni salariali, svalutazioni monetarie, aumenti delle tasse, riduzioni della spesa pubblica, aumenti dei tassi d’interesse, sfruttamento delle risorse migliori per le esportazioni. Queste politiche non sono il prodotto di menti particolarmente malefiche, bensì il risultato di una solida visione ragionieristica della gestione monetaria: chi presta i soldi vuole accertarsi della capacità del debitori di ripagare il debito.

Le politiche d’aggiustamento del Fondo mirano tra l’altro a ridurre i consumi e quindi le importazioni dei paesi indebitati, possibilmente ad aumentarne la produzione e le esportazioni. In tal modo verrebbe creato l’avanzo della Bilancia dei Pagamenti con cui generare i fondi necessari per ripagare il debito. Se non ché quando la ricetta viene imposta a molti paesi, e più in generale quando l’economia mondiale ristagna, gli effetti complessivi diventano perversi. La riduzione delle importazioni di tutti comporta una riduzione delle esportazioni per tutti. Perciò l’aumento dell’offerta di beni esportati, soprattutto materie prime, fa diminuire ulteriormente il loro prezzo. La conseguenza può essere un peggioramento, invece che un miglioramento, delle bilance dei pagamenti. E comunque accade che il Sud si trova ad aumentare il volume delle proprie esportazioni vedendone diminuire i ricavi.


[1] Vedi Adda (2000, pp. 39-44).

[2] La conferenza di Doha del 2001 ha definito un parziale correttivo di questa nefandezza contemplando la pratica della “licenza obbligatoria”. La quale, nei casi di interesse pubblico, abuso di brevetto e uso governativo non commerciale, consente la produzione locale di farmaci generici senza pagare royalties sui brevetti. Se nonché i paesi che hanno più bisogno dei medicinali a basso prezzo non hanno le capacità tecnologiche e organizzative per produrli. A questo inconveniente si è cercato di far fronte con un accordo siglato il 30 agosto 2003 nella sede del WTO a Ginevra, accordo in virtù del quale i medicinali a basso prezzo possono essere importati se i paesi che ne hanno bisogno non sono in grado di produrli da soli. Verranno prodotti da alcuni paesi emergenti come India e Brasile. Le multinazionali farmaceutiche hanno fatto un po’ di resistenza, ma alla fine hanno ceduto caritatevolmente dopo essere stata assicurate del fatto che i medicinali a basso prezzo non potranno essere esportati nel Nord del Mondo. Dopo tutto i mercati dei paesi poveri non sono poi così ricchi. Quello che conta è impedire alla concorrenza internazionale di intaccare i profitti monopolistici mietuti nei mercati del Nord.

[3] AA.VV. (2002, pp. 41-46).