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Domenico Moro
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Il movimento dei lavoratori difronte ai blocchi USA ed UE tra crisi e competizione internazionale

Domenico Moro

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La fase storica nella quale stiamo facendo ingresso, dopo poco più di un decennio di transizione, presenta importanti elementi di discontinuità rispetto a quella che l’ha immediatamente preceduta, e che è intercorsa tra la fine della seconda guerra mondiale e la caduta dell’URSS. Nello stesso tempo, però, questa nuova fase si pone in continuità col processo storico, interrottosi con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, di formazione di un unico mercato mondiale, basato sull’estensione a tutto il globo dei rapporti di produzione e di scambio capitalistici.

Tale processo si sta però realizzando in modalità che non hanno molto a che fare con le regole del liberismo, né si sta traducendo in una migliore distribuzione della ricchezza a livello mondiale. Al contrario la cosiddetta globalizzazione sta avvenendo nelle forme dell’imperialismo, ovvero nelle forme del monopolio anziché del liberalismo economico e del dominio anziché della libertà. Questa tendenza trova un riflesso sia su un piano “interno”, nei rapporti di forza e nella composizione di classe della Società, sia sul piano “esterno”, nei rapporti tra paesi, stati e blocchi economici. In particolare riappare, attraverso la sempre più evidente contrapposizione tra USA ed UE, prima economica e, successivamente, anche politica, la tipica contraddizione tra imperialismi in competizione per la spartizione dei mercati e delle risorse mondiali, che rappresenta un altro elemento di continuità con la fase precedente alla Prima Guerra mondiale.

 

1. Dinamiche del modo di produzione capitalistico e sviluppo dell’imperialismo

L’imperialismo non è, ad ogni modo, una linea politica od una scelta di potenza da parte di uno o più Stati, ma una struttura di rapporti economici e sociali, cioè una formazione economico-sociale, specifico risultato storico dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico [i]. Questa evoluzione si ricollega alla caratteristica fondamentale del capitale, ovvero alla riproduzione su scala sempre maggiore delle basi materiali e del rapporto capitalistico di produzione, strutturando la società in modo sempre più polarizzato, ponendo cioè, ad un capo, capitalisti sempre più grandi e, al capo opposto, un numero sempre più vasto di salariati.

Le specifiche condizioni in cui avviene lo sfruttamento dei salariati in questo modo di produzione, differenziandolo da quelli che l’hanno preceduto, spinge al continuo rivoluzionamento delle condizioni della produzione, allo scopo di aumentare l’accumulazione del profitto, mediante lo sviluppo della produttività del lavoro. Tale processo si basa sull’introduzione diretta nel processo produttivo, come innovazione tecnologica, dei risultati della ricerca scientifica e sulla razionalizzazione dei processi di lavoro, basati sulla cooperazione. Ne consegue la spinta continua a ciò che Marx chiama aumento della composizione organica del capitale [1], ovvero l’aumento proporzionale della parte di capitale che viene reinvestita in macchine e mezzi di produzione (capitale costante) in confronto alla parte investita nel pagamento della forza lavoro (capitale variabile), cioè in salari. In questo modo si aumenta la produttività per addetto e si riduce il tempo necessario alla produzione della singola unità di prodotto, conducendo, quindi, alla concentrazione della produzione su larga scala. Nello stesso tempo, diminuendo il numero di addetti per unità di capitale investita, si crea una tendenza alla diminuzione del saggio di profitto [i], provocata dal modificarsi del rapporto intercorrente tra nuovo valore prodotto (plusvalore), e la massa totale del capitale investito, che aumenta invece esponenzialmente. Infatti, derivando il plusvalore dal tempo di lavoro non pagato dei salariati, anche quando il numero di questi non diminuisce, ma rimane stabile, o aumenta in misura inferiore in rapporto al capitale totale investito, diminuirà, in proporzione al capitale totale investito, anche la massa del nuovo valore o plusvalore. Se l’aumento della produttività per singolo addetto non è tale da compensare tale diminuzione, si realizza allora la caduta del saggio di profitto. A contrastare il calo del saggio di profitto dovrebbe, poi, intervenire l’aumento della massa complessiva del profitto, che dipende invece dall’incremento del capitale totale investito. Il problema è che, però, l’aumento generalizzato delle dimensioni del capitale accumulato ne rende sempre più difficile la valorizzazione, cioè il ritorno dei profitti sugli investimenti, dal momento che l’estensione della massa delle merci prodotte si scontra con le dimensioni limitate del mercato, che non sono, però, date da limiti assoluti ma da limiti dal punto di vista capitalistico. Questo non significa che il mercato non riesca ad assorbire l’accresciuta quantità di merci prodotte, che invece potrebbero soddisfare bisogni sociali insoddisfatti, ma che non riesce ad assorbirle a quelle condizioni (prezzi) che diano al capitalista il profitto atteso, soprattutto dopo i massicci investimenti in mezzi di produzione messi in atto. Qualora si verifichino queste condizioni ci si troverebbe davanti ad una sovrapproduzione di capitale, che diviene assoluta, quando si estende a tutte le branche industriali. Si sarebbe, cioè, prodotto troppo capitale perché questo trovi una conveniente valorizzazione nelle condizioni del mercato capitalistico.

Questo dimostra il limite fondamentale del capitale, come modo di produzione storico, consistente nel ricorrente cozzare dello sviluppo delle forze produttive della società, che pure è continuamente stimolato dal capitale, contro i rapporti di produzione fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e del prodotto del lavoro [i].

Tale processo, situato a monte del verificarsi delle crisi che ciclicamente ricorrono nella storia della società capitalistica, provoca profonde modificazioni, in primo luogo nella struttura economica, e poi nella composizione sociale di classe e nei rapporti politici e sociali in generale. Queste modificazioni producono una tipologia di formazione economico-sociale, che fu sintetizzata nella categoria di imperialismo da Lenin nel 1916 [2], riprendendo e sviluppando, con il contributo di altri studiosi di quell’epoca, quanto già individuato e previsto ne Il capitale da Marx. L’imperialismo rappresenta il portato dello sviluppo delle contraddizioni del capitale, essendo insieme il tentativo estremo di risolverle e la causa del loro ulteriore approfondirsi.

 

2. Effetti “interni” ed “esterni” della caduta del saggio di profitto

La caduta tendenziale del saggio di profitto determina due conseguenze, una di carattere “interno”, relativa ai rapporti di classe interni ai singoli paesi, e l’altra di carattere “esterno”, inerente ai rapporti tra paesi o blocchi economici.

La prima consiste nella spinta alla continua riduzione e razionalizzazione dei costi, sia di quelli di produzione e, quindi, della forza lavoro, in modo da aumentare il saggio di sfruttamento, sia di quelli di mercato, inerenti alla sfera di circolazione delle merci.

Infatti, dopo che l’aumento della produttività mediante la razionalizzazione dei processi produttivi è stato portato all’estremo, la spinta a contrastare la caduta del saggio di profitto aumentando il plusvalore estratto, si dirige in direzione della diminuzione della parte pagata della giornata lavorativa, determinando, quindi, un attacco contro tutte le dimensioni del salario, in quanto prezzo dello scambio tra forza lavoro e capitale. Negli USA, ad esempio, sebbene il prezzo dei manufatti sia diminuito ad un saggio annuale dello 0,4%, il costo del lavoro (salario) per unità di prodotto è calato del 2,7%. In questo modo, un dollaro di vendite che valeva 7,2 centesimi in profitti due anni fa, genera oggi 12 centesimi [3]. Vengono, inoltre, erosi il salario reale, mediante lo strumento dell’inflazione, il salario differito, con la riforma delle pensioni ed il salario indiretto, attraverso la riduzione dello Stato Sociale..

Dall’altro versante, quello del risparmio del capitale costante impiegato, il modello post-fordista, affermatosi nel sistema industriale nel corso degli ultimi anni, si fonda su una riduzione dei costi basata sulla limitazione delle scorte e sulla produzione just in time che comporta il collegamento, quanto più integrato sia possibile, tra fornitori, impresa e clienti, attraverso il trattamento di grandi masse di dati, reso possibile dalla sempre più progredita tecnologia informatica e delle comunicazioni. Inoltre, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto conduce ad una accelerazione del ciclo d’accumulazione che, aumentando le rotazioni temporali del capitale, genera da una parte un aumento della massa del profitto e dall’altra contribuisce al deprezzamento del capitale costante investito, per esempio delle materie prime i cui prezzi vengono abbattuti, permettendo così un rialzo del saggio di profitto. Pure collegata all’aumento delle rotazioni dell’investimento di capitale ed al just in time è la razionalizzazione della sfera della circolazione delle merci, basata sull’applicazione al commercio al dettaglio del modello della grande industria, attraverso la creazione della grande distribuzione moderna (grandi gruppi d’acquisto e grandi superfici di vendita al dettaglio). Tutte queste trasformazioni del ciclo d’accumulazione, su cui si è sviluppato il boom della information technology e della internet-economy negli anni ’90, hanno rappresentato il tentativo di porre un rimedio alla separazione, caratteristica del modo di produzione capitalistico, tra la sfera della produzione e quella della circolazione, eliminando inutili immobilizzi di materie prime e di merci, sprechi e tempi morti. Il risultato non è stato, però la risoluzione di tale separazione, irrisolvibile in ambito capitalistico, ma un ulteriore salto nella composizione organica del capitale, che per l’appunto si è manifestato, con l’esaurimento del boom della internet-economy, nelle forme di una accresciuta sovrapproduzione di capitale. Inoltre, ciò ha inciso sulla composizione di classe, modificando le vecchie mansioni ed introducendone di nuove, cui sono legati diversi ed articolati livelli salariali e tipologie contrattuali, e soprattutto riducendo settori e figure professionali un tempo autonomi al rapporto di lavoro salariato ed alla dipendenza, in una forma o nell’altra, dal grande capitale. Si produce, quindi, una polarizzazione della società sia dal punto di vista della distribuzione del reddito, con la riduzione del salario relativo (in rapporto ai profitti) sia dal punto di vista dell’aumento dei lavoratori che assumono una posizione direttamente subalterna nei confronti del capitale. Nello stesso tempo, però, si creano figure che rappresentano la funzione di agenti del capitale nella sua forma imperialista o che beneficiano di parte delle rendite di posizione monopolistica, riproducendo, a seconda dei casi, o un nuovo ceto medio, o una sorta di nuova aristocrazia operaia, identificata a suo tempo da Lenin quale base di massa dell’imperialismo. Risulta necessario, in questa nuova fase, indagare tale nuova composizione di classe, come prodotto dell’ultima fase di evoluzione del modo di produzione e della generalizzata riaffermazione delle tendenze imperialiste.

La seconda conseguenza, di carattere “esterno”, si concretizza nella creazione, per la prima volta nella Storia, di un unico mercato mondiale, dovuto alla necessità di trovare sbocco alla accresciuta produzione di merci e soprattutto alla necessità di trovare investimento per il capitale accumulato in eccesso. Tale investimento deve, però, avvenire dove il saggio di profitto sia più alto, grazie all’esistenza di forze produttive meno sviluppate e con una composizione organica del capitale più bassa, oppure dove il mercato consenta rendite di posizione monopolistiche e prezzi più elevati. Non è un caso, infatti, che negli ultimi dieci anni i maggiori investimenti siano avvenuti, oltre che in Cina, in India, in Messico e nell’Europa orientale, aree dove la composizione organica di capitale ed il costo della forza lavoro sono più bassi, soprattutto nei paesi più avanzati dei mercati più ricchi (USA ed UE) [4], dove l’investimento dall’estero avviene specialmente nella forma di fusione od acquisizione, ed ha lo scopo di annettersi nuovi mercati o posizioni vantaggiose in essi, spesso attraverso l’acquisizione di marchi di successo.

Questa tendenza ha subito una decisa accelerazione negli ultimi quindici - venti anni, quando, a livello mondiale, gli stock degli investimenti in uscita destinati all’estero (IDE) sono cresciuti dai 552 miliardi di dollari del 1982 ai 1.721 del 1990 per passare ai 6.582 del 2001, con un saggio d’incremento maggiore della semplice esportazione di merci, passata dai 2.081 miliardi del 1982 ai 4.375 del 1990 e ai 7.430 del 2001 [5]. La necessità di sostenere una competizione globale, richiedente sempre maggiori investimenti per realizzare migliori economie di scala, insieme alla caduta del saggio di profitto ha condotto alla concentrazione della produzione e soprattutto alla centralizzazione della proprietà in poche grandi aziende nei vari settori del mercato, specie in quelli più maturi e dove gli investimenti fissi di partenza erano più ingenti, eliminando quanti non riuscivano a tenere il passo. A livello mondiale i processi di fusione ed acquisizione sono passati dai 90 miliardi di dollari (7% oltre confine), dell’82 ai 558 del 1990 (38% oltre confine) per superare i 3.400 nel 2000 (33% oltre confine) [i]. Nel 2000 gli immobilizzi di capitale all’estero delle prime 100 transnazionali sono aumentati del 20% rispetto all’anno precedente, pesando più della metà delle vendite e degli impiegati totali di tutte le affiliate estere delle transnazionali mondiali [i].

Dai processi di centralizzazione risulta esaltato il ruolo delle banche, che negli USA, ad esempio, a fronte di un settore industriale in seria difficoltà, hanno realizzato nel 2003, ben 300 miliardi di dollari di profitto, pari ad un terzo dei profitti complessivi americani [6]. Infatti, l’aumento della competizione e la necessità di adeguarsi alle innovazioni tecnologiche, raggiungendo quelle dimensioni globali che permettano le necessarie economie di scala, magari attraverso spregiudicate politiche di acquisizione, hanno costretto le imprese ad indebitarsi con le banche, che hanno assunto il controllo dei processi di fusione ed acquisizione ed una influenza sempre maggiore nelle aziende stesse. Nei consigli d’amministrazione di banche ed imprese si trovano sempre più spesso gli stessi personaggi e gli assetti proprietari attuali del capitale si caratterizzano sempre di più come complicati intrecci di cordate di banche ed imprese, dando luogo a quello che Hilferding [7], già all’inizio del ’900, chiamava capitale finanziario, ovvero l’integrazione di capitale bancario e capitale industriale, che viene a rappresentare il settore egemonico del capitale internazionale. Lo Stato ha contribuito a questo processo modificando la legislazione specifica, come è accaduto in Italia con l’abolizione della legge del’36, che stabiliva la separazione di banca ed impresa, e negli USA, dove le funzioni di banca d’affari e banca d’investimento erano, fino a poco tempo fa, tenute separate. La prevalenza del capitale finanziario determina anche una tendenza allo spostamento degli investimenti dalla sfera della produzione, colpita dalla caduta del saggio di profitto, alla speculazione finanziaria e di borsa, con i risultati, in termini di scandali e di bolle speculative, che sono sotto gli occhi di tutti.

La centralizzazione della proprietà ha, inoltre, contribuito a modificare la struttura di molti mercati, che, nonostante il continuo richiamo al liberismo economico da parte di molte forze politiche e culturali anche di diverso orientamento, sono occupati dalle poche grandi aziende sopravvissute alla competizione ed assumono un carattere monopolistico od oligopolistico. La tendenza monopolistica è rafforzata dalla volontà di sottrarsi alla caduta del saggio di profitto, ed all’acutizzarsi della concorrenza, garantendosi rendite di posizione ed alti prezzi grazie allo sfruttamento o di monopoli naturali, come l’acqua, o delle cosiddette utility, i servizi essenziali come gas ed energia elettrica un tempo monopolio pubblico ed attualmente oggetto di privatizzazione, o di monopoli artificiali, come i vari aspetti della proprietà intellettuale garantiti dagli accordi del WTO (Trips), dai brand, ai brevetti, alle riproduzioni di opere artistiche e dell’ingegno [8]. Il monopolio rappresenta un aspetto sempre più centrale nell’economia contemporanea, fino al punto di poter dare completa conferma all’analisi di Lenin, che lo scelse come indicatore complessivo della natura dell’imperialismo, definendone l’epoca, infatti, come fase del capitalismo monopolistico, in modo da distinguerla da quella del capitalismo liberista, tipico dell’800.

La concentrazione del potere economico della società, cui è connessa anche la tendenza alla centralizzazione dei processi decisionali politici e di formazione della coscienza, rappresenta, dunque, l’elemento di fondo della attuale fase di evoluzione del capitale. Se queste sono le conseguenze del movimento individuale del capitale, il suo movimento complessivo produce una altrettanto forte spinta alla competizione ed alla formazione ed alla difesa di rendite di posizione monopolistiche anche al livello dei blocchi economici e delle aree valutarie centrali nel sistema imperialista. A questa tendenza è ricollegabile anche la situazione di guerra permanente in atto e la trasformazione del ruolo dello Stato e delle organizzazioni soprannazionali.

 

2. Lo scontro tra blocchi in competizione come conseguenza ultima dello sviluppo del capitalismo monopolistico

La pubblicistica imperante cerca di avvalorare la tesi di uno scontro in atto, culturale o politico, a seconda delle versioni, tra occidente ed oriente islamico [9]. In realtà, questo scontro, pur rappresentando, per diversi aspetti, il riflesso di una contraddizione reale, non è che un aspetto secondario e dipendente della contraddizione fondamentale, costituita dalla competizione tra blocchi paritetici, con le stesse caratteristiche socio-economiche, e, quindi, realmente in possesso dei requisiti per competere sul piano economico e politico.

L’imperialismo risulta, infatti, in quanto sistema mondiale, composto da un centro dominante e da una periferia dominata, che si definiscono come tali rispetto al controllo dei flussi del capitale finanziario. È, quindi, soprattutto mediante l’uso del debito estero e degli investimenti di capitale, che il centro riduce sotto il proprio dominio l’economia della periferia, condizionandone le scelte in diversi campi. Nella realtà esistono vari livelli intermedi e differenziazioni nella scala gerarchica dell’imperialismo, dovuti in primo luogo ai rapporti di forza economici esistenti. Ad ogni modo, il centro del sistema imperialista è sempre stato tutt’altro che unitario. Come il modo di produzione capitalistico, per sua stessa natura, non è un moloch unico, ma una molteplicità di capitali in concorrenza, così l’imperialismo risulta composto di vari imperialismi in lotta tra di loro. Con buona pace di Negri ed Hardt [10], la differenza tra l’imperialismo che si è sviluppato in epoche storiche precedenti, quello romano ad esempio, e l’imperialismo moderno sta proprio nel fatto che, mentre il primo si sostanziava in un impero unico, tendente ad inglobare tutto, il secondo è invece costituito da imperi in perenne lotta tra di loro [11].

Da diversi decenni si sono, infatti, andati definendo tre poli imperialisti: gli USA, l’Europa occidentale, raccolta attorno al nucleo franco-tedesco, ed il Giappone. Tutti e tre questi poli presentano le caratteristiche economiche tipiche delle formazioni imperialiste che abbiamo precedentemente individuato: dominio dei monopoli, forte centralizzazione dei capitali, prevalenza dell’esportazione di capitale su quella di merci, e, soprattutto, egemonia del capitale finanziario.

L’intero sistema imperialista è caratterizzato da un equilibrio permanentemente instabile. Infatti, la nascita delle contraddizioni tra poli deriva da un elemento ineliminabile nel movimento del modo di produzione capitalistico: lo sviluppo diseguale delle varie parti o frazioni di capitale che lo compongono, in dipendenza dalle differenti condizioni di accumulazione esistenti e del diverso sviluppo delle forze produttive. La crescita differenziata conduce alla modifica dei rapporti di forza economici e, quindi, alla rottura dell’equilibrio del sistema complessivo. La potenza egemone, che è poi quella economicamente più avanzata, tende a perdere posizioni rispetto agli altri competitori. Ciò è dovuto in gran parte ai meccanismi dell’accumulazione capitalistica precedentemente esposti, ed in particolare all’aumento della composizione organica del capitale, che, essendo più consistente nei settori dominanti e quindi più sviluppati del capitale internazionale, genera una maggiore sovrapproduzione di capitale e dunque una più acuta vulnerabilità alla caduta del saggio di profitto ed alle crisi.

È quanto già successo all’Inghilterra che, nel corso dei primi decenni del novecento perse la sua egemonia prima sul piano economico e successivamente su quello politico, per essere soppiantata, dopo la Seconda Guerra Mondiale dai più dinamici e giovani, dal punto di vista dello sviluppo capitalistico, Stati Uniti, non senza aver prima debellato il tentativo egemonico dell’altra potenza in ascesa, la Germania.

Oggi tale situazione tende a ripresentarsi, dal momento che gli USA sono andati perdendo progressivamente la loro egemonia economica, che aveva raggiunto il suo culmine negli anni ’50. L’equilibrio si è rotto ed i rapporti di forza economici, specialmente con l’Europa occidentale ed il Giappone, si sono modificati a favore di questi ultimi. La UE, in particolare, proprio a partire dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale ha avuto tassi di crescita del PIL costantemente più alti, e, sia sul piano del commercio estero, sia soprattutto, dalla metà degli anni ’80, su quello dell’esportazione di capitali ha abbondantemente superato gli Stati Uniti [12].

La crisi di sovrapproduzione di capitale, che si è manifestata in modo più acuto negli ultimi anni, ha rafforzato tale tendenza, mettendo in maggiori difficoltà gli USA. Ma, soprattutto, la nascita dell’euro ha posto le basi di una sfida globale all’egemonia dell’imperialismo degli USA, che, attraverso il signoraggio esercitato dal dollaro, di fatto una rendita di posizione monopolistica, impongono una sorta di tassa su tutte le transazioni commerciali e finanziarie internazionali, alimentando così il loro enorme doppio deficit pubblico e del commercio estero, che rischierebbe altrimenti di far collare il sistema economico statunitense, già in profonda crisi da sovrapproduzione assoluta di capitale.

In ambito capitalistico l’unico modo per ripristinare un sia pur provvisorio equilibrio è l’uso della forza [13]. La guerra preventiva teorizzata dai neoconservatori americani, nella sua essenza di stato permanente di minaccia e di guerra, è coerente con questa logica, e l’invasione dell’Irak risponde perfettamente alla strategia imperialista, già individuata da Lenin, di occupare un paese non tanto per ottenere un proprio diretto vantaggio economico, quanto per indebolire l’avversario [i]. Infatti, l’estensione di un controllo diretto USA sul Medio Oriente, attraverso l’attacco contro l’Irak, corrisponde alla volontà di controllare le maggiori fonti di approvvigionamento energetico di Giappone, Cina ed UE e, soprattutto, di impedire ai paesi dell’area mediorientale di passare all’euro nelle transazioni petrolifere, con il risultato di rafforzare la valuta europea nei confronti del dollaro, e con effetti devastanti per l’intera economia statunitense.

L’elemento di fondo dell’attuale fase è dunque la sfida lanciata dalla UE, ma sarebbe più corretto dire dall’asse franco-tedesco, all’egemonia degli USA, sfruttando rapporti di forza economici che nel tempo si sono modificati, con l’intenzione di porre in discussione una nuova ripartizione del plusvalore mondiale tra i vari centri dell’imperialismo. La risposta americana si sta imperniando sull’esercizio della forza, su cui, almeno per il momento, gli americani non temono concorrenti. Nella denuncia e nella critica alla guerra permanente non va, però, dimenticato che questa affonda le sue radici non in una presunta malvagità statunitense ma nei meccanismi dell’imperialismo come formazione economico-sociale, nella cui natura è inscritta la tendenza al dominio “interno” ed “esterno” ed alla competizione accanita in tutte le forme possibili. Tali meccanismi condizionano non solo gli USA ma anche la UE e l’asse franco-tedesco, in quanto entrambe parti del centro dominante imperialista.

Se oggi la manifesta aggressività dell’imperialismo USA costituisce la minaccia più immediata e più evidente, non bisogna però dimenticare che per la classe lavoratrice europea lo sviluppo dell’imperialismo europeo rappresenta una minaccia di carattere strategico. Conseguentemente è di fondamentale importanza stabilire un corretto posizionamento politico di classe nei confronti delle prossime fasi del processo di costituzione dell’Unione Europea, che contempli lo sviluppo di una azione non contro il processo in sé stesso, bensì contro il segno imperialista che tende ad assumere. Ciò deve tradursi nella capacità di articolare e praticare un programma che critichi tutti quegli aspetti che esprimano sul piano politico e sociale le tendenze imperialiste, proponendo soluzioni alternative, a cominciare dalla questione della costituzione di forze armate europee per proseguire con la difesa ed il rilancio dei diritti sociali e del welfare state a livello europeo.

Tutti questi temi saranno oggetto di ulteriore approfondimento in due prossimi articoli, uno sulle contraddizioni interimperialistiche ed uno sull’analisi della composizione e dei rapporti di classe - economici, politici ed ideologici - tipici delle formazioni economico-sociali imperialiste.


[i] La categoria di formazione economico-sociale va intesa come concretizzazione storica della categoria astratta di capitale e delle sue leggi di movimento. Tale categoria, inoltre, rappresenta l’insieme organico di una società, comprendendo cioè le interrelazioni tra la struttura dei rapporti di produzione e le varie sovrastrutture giuridico-politico-ideologiche. Vedi anche N. Poulantzas, “K. Marx e Fr. Engels”, in F. Chatelet (a cura di) Storia della Filosofia, vol.V, BUR, Milano 1976 e V. Foa, “Introduzione” a P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Torino, 1971.

[1] K.Marx, Il capitale, libro I, cap. XXIII, “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”, Editori Riuniti, Roma, 1980.

[i] ibidem, libro III, cap.XIII, “La legge in quanto tale”.

[i] ibidem, libro III, cap. XV, “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge”.

[2] Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1974.

[3] J.C. Cooper e K. Madigan, “How surging profits will fuel the recovery” in BusinessWeek, 16 febbraio 2004.

[4] United Nations Conference on Trade and Development, Foreign Direct Investment database sul sito www.unctad.org.

[5] United Nations Conference on Trade and Development, World Investment Report: Transnational Corporations and Export Competitiveness, p.1.

[i] Ibidem, p.1.

[i] Ibidem, p.2.

[6] E. Occorsio, Anche negli USA c’è battaglia tra le authority, in inserto “Affari e finanza”, La Repubblica, 26 gennaio 2004.

[7] R.Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961.

[8] M.Gattamelata e P.Slaviero “Chiare, fresche e dolci acque” in La Contraddizione, n. 95, febbraio 2003; M. Arciulo, “La voglia matta di pubblica utilità” in La Contraddizione, n.55, agosto 1996; D. Moro, “Ci taroccano il parmigiano”, in il manifesto, 10 ottobre 2003, “Il buio oltre il logo”, in il manifesto, 8 gennaio 2002.

[9] S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000.

[10] A. Negri e M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2001.

[11] J.A. Hobson, L’imperialismo, Newton, Roma 1996.

[12] D. Moro, “Decadenza economica USA e tendenza alla guerra”, in Marxismo oggi, n.2, 2003.

[13] Lenin, op.cit. pag. 136.

[i] ibidem, pag. 131.