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Ernesto Screpanti
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L’imperialismo globale e le leggi “naturali” dell’accumulazione capitalistica

Ernesto Screpanti

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“Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è dunque il libero scambio? È la libertà del capitale. Quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto che liberarne completamente l’azione [...] Il risultato sarà che l’opposizione tra [il lavoro salariato e il capitale] si delineerà più nettamente ancora. [...]

Designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale è un’idea che non poteva avere origine se non in seno alla borghesia. Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale. [...]

In generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale”

(Marx, 1971, pp. 175-177)

 

PRIMA PARTE

1. L’ultra-imperialismo dentro l’imperialismo

Per capire la globalizzazione capitalistica moderna non c’è niente di meglio dell’Imperialismo di Lenin. Da usare però come pietra di paragone e modello controfattuale. E da leggere insieme al “Discorso sulla questione del libero scambio” di Marx. Osservando le somiglianze e le differenze tra la realtà attuale e lo schema di Lenin, si può riuscire a capire cosa la globalizzazione è e cosa non è. La griglia di lettura offerta dal “Discorso” di Marx servirà invece a distinguere l’essenziale dal contingente.

Secondo Lenin [1] l’imperialismo può essere definito sulla base di cinque caratteristiche principali:

1. Sviluppo dei monopoli come conseguenza del processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali

2. Fusione del capitale finanziario e bancario con quello industriale e conseguente inasprimento della separazione tra proprietà e controllo

3. Prevalenza dell’esportazione di capitale sull’esportazione di merci

4. Formazione di “associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo”

5. Spartizione della terra tra grandi potenze imperialistiche e inasprimento delle contraddizioni interimperialistiche

Non mi soffermerò sulle prime tre caratteristiche, che paiono pienamente confermate dall’evoluzione del capitalismo contemporaneo.  [2] Le ultime due invece non sembrano essersi realizzate, né essere in via di realizzazione, neanche in tendenza. Ciò rende necessario un approfondimento.

Per capire cosa è cambiato di sostanziale dai tempi di Lenin, riguardo a quelle due caratteristiche, bisogna richiamare la famigerata tesi della tendenza all’ultra-imperialismo, cioè alla formazione di un sistema di potere internazionale dominato da un unico “trust mondiale”: “l’evoluzione si muove nella direzione dei monopoli, e quindi verso un unico monopolio mondiale, un unico trust mondiale. Ciò è indubbiamente esatto...” [3]

La citazione è provocatoria. Com’è noto, Lenin criticò aspramente la “morta astrazione” kautskiana dell’ultra-imperialismo, tacciandola di “ultra-stupidità”. La citazione infatti prosegue: “...ma senza significato “. Qui però bisogna fare lo sconto alla vis polemica di Lenin e discernere il contingente dal sostanziale. Ciò che veniva imputato a Kautsky era di usare la tesi dell’ultra-imperialismo per consolare le masse con la favola della pace permanente come prospettiva ultima dell’evoluzione imperialistica. Questa favola voleva far passare una tendenza di lunghissimo periodo per una realtà a portata di mano. In tal modo mirava a nascondere la reale implicazione politica dell’imperialismo, l’inasprimento delle contraddizioni interimperialistiche e quindi la spinta alla guerra. Si trattava di una morta astrazione perché era priva di implicazioni pratiche, non solo immediate ma anche future, in quanto l’esplosione della rivoluzione che sarebbe stata innescata dalle contraddizioni interimperialistiche avrebbe portato al superamento del capitalismo prima della realizzazione di una qualsivoglia tendenza all’“unione mondiale ultraimperialista”. Un’astrazione inutile, dunque, e anche politicamente pericolosa, ma non infondata. Lenin era veramente convinto dell’esistenza di una tale tendenza. Tant’è vero che ribadì la tesi nella Prefazione che scrisse per L’economia mondiale e l’imperialismo di Bucharin: “Non c’è dubbio che lo sviluppo capitalistico va nella direzione di un singolo trust mondiale che inghiottirà tutte le imprese e tutti gli stati, senza eccezione alcuna.”  [4]

La tesi dell’ultra-imperialismo, sia nella versione di Kautsky che in quella di Lenin, contiene uno o due errori di fondo, ma anche una felice intuizione. Degli errori dirò più avanti. La felice intuizione si rivela nell’osservazione che, proprio attraverso il processo competitivo che è insito nell’accumulazione capitalistica, si sarebbe prima o poi arrivati alla costituzione di un ordine mondiale sostanzialmente esente dalle contraddizioni inter-imperialistiche, cioè a un ordine economico e politico simile a quello che effettivamente controlla l’economia mondiale oggi. In questo senso si può dire che la “morta astrazione” ha infine dimostrato di essere piuttosto viva.

Tornando alle cinque caratteristiche principali dell’imperialismo, direi che, se le prime tre si sono consolidate nel decorso della successiva evoluzione, tanto che si possono considerare caratteristiche essenziali, lo stesso non si può dire delle ultime due. Non sembra che il capitalismo globale contemporaneo abbia dato origine alla formazione di associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo. Né pare di assistere oggi alla spartizione della terra tra le grandi potenze.

Secondo Lenin le contraddizioni interimperialistiche nascono dalla simbiosi tra capitale monopolistico e potenza nazionale. Le grandi imprese cercano di fare profitti eliminando la concorrenza nei propri mercati. A tal fine usano lo stato nazionale per proteggere i mercati interni dai concorrenti esteri. Ma i profitti possono crescere solo se i mercati si espandono. Perciò, anche in forza di una certa “unione personale del capitale con il governo”, le potenze nazionali sono spinte dalle esigenze dell’accumulazione ad espandersi all’estero creando imperi che sono intrinsecamente votati alla crescita. Gli imperi devono crescere perché il capitale vuole valorizzarsi. È l’accumulazione capitalistica che determina e spiega l’espansione imperialista. In tal modo però i grandi imperi entrano prima o poi in collisione. Né è possibile che il sistema degli equilibri mondiali si stabilizzi in un assetto di pace spartitoria, perché lo sviluppo diseguale dei capitalismi nazionali modifica continuamente i rapporti di forza tra di essi e quindi rende instabile qualsiasi equilibrio di potere. Dunque le contraddizioni interimperialistiche sono un portato del carattere nazionale del capitale monopolistico.

Per capire bene il significato di questa conclusione si deve riflettere sulla relazione esistente tra le ultime due caratteristiche dell’imperialismo di Lenin. La quarta postula che si formino delle associazioni monopolistiche che acquisiscono il controllo di certi mercati o aree geografiche di sbocco e che associazioni monopolistiche di diverse nazionalità si spartiscano i mercati mondiali. Così ci saranno dei mercati dominati dai monopoli tedeschi, altri dominati da quelli americani e così via. La quinta caratteristica postula che le grandi potenze imperialistiche, ponendosi al servizio delle associazioni monopolistiche nazionali, si spartiscano il mondo nella forma di zone d’influenza privilegiate. La spartizione delle zone d’influenza politiche sarebbe una conseguenza e una concretizzazione della spartizione dei mercati. In quest’ottica non è possibile che sussista la quarta caratteristica senza che si realizzi anche la quinta, della quale è causa. [5] Dunque si può anche dire che esistono le contraddizioni interimperialiste perché esistono quelle intermonopolistiche.  [6]

 

2. L’imperialismo globale

Non c’è dubbio che l’imperialismo ha conservato queste caratteristiche fino alla seconda guerra mondiale. Ma si può dire che l’instabilità causata dalle contraddizioni interimperialistiche sia una caratteristica essenziale dell’accumulazione capitalistica? O non è più valida la tesi secondo cui il capitale è intrinsecamente cosmopolita? Ecco cosa ne pensa Marx (1970, II, p. 9):

“Il capitale perciò, se per un verso ha la tendenza a creare perennemente più pluslavoro, per l’altro ha la tendenza supplementare a creare più punti di scambio; ossia qui, dal punto di vista del plusvalore o del pluslavoro assoluto, la tendenza ad attirare a sé, in via supplementare, maggior pluslavoro; au found, la tendenza a propagare la produzione basata sul capitale o il modo di produzione ad esso corrispondente. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente dal concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare. [La tendenza del capitale è] di subordinare anzitutto ogni momento della produzione stessa allo scambio, e di sopprimere la produzione di valori d’uso immediati che non rientrino nello scambio, ossia appunto di sostituire una produzione basata sul capitale ai modi di produzione precedenti e, dal suo punto di vista, primitivi.

È la stessa tesi avanzata nel “Discorso sulla questione del libero scambio”. Secondo questa tesi la tendenza di fondo del capitale sarebbe: 1) “a propagare la produzione basata sul capitale”, cioè ad espandersi in tutto il mercato mondiale, 2) “a propagare il modo di produzione” capitalistico, cioè a sostituirsi ai modi di produzione precapitalistici. Ne deriva che l’accumulazione tenderà a spingere gli stati nazionali ad abbattere i limiti all’espansione. Poiché “ogni limite si presenta come un ostacolo da superare”, il capitale userà il potere politico per abolire le barriere protezionistiche piuttosto che erigerle, per distruggere gli imperi nazionali piuttosto che consolidarli. Il grande capitale globalizzato tenderebbe semmai a creare un unico ordine sovranazionale nella misura in cui la concorrenza internazionale debba essere controllata, (de)regolamentata e imposta ai recalcitranti. Tale ordine assume la forma del “mercato mondiale”, è un ordine dei mercati, non degli apparati burocratici, ed è regolato da leggi “naturali”, non da costituzioni. Perché questa tendenza si realizzi è necessario che le imprese abbiano raggiunto dimensioni tali da poter effettivamente concepire e programmare un’espansione su scala globale, un’espansione produttiva oltre che commerciale.

Dunque si può dire che l’imperialismo di cui parlava Lenin, lungi dall’essere la fase suprema del capitalismo, ne è stata in realtà solo un fase di transizione: quella in cui le larve delle grosse imprese multinazionali sono cresciute dentro il bozzolo degli stati nazionali nell’attesa di poter rompere l’involucro e librarsi nell’economia-mondo appena raggiunte le necessarie dimensioni globali. Una volta rotto l’involucro, le contraddizioni interimperialistiche vengono meno e quelle che sopravvivono, ad esempio a causa di residui ideologici e persistenze storiche che possono influenzare le politiche delle grandi potenze, assumono il significato di “contraddizioni in seno al popolo” del grande capitale. Non sono insanabili, non sono essenziali, non sono utili all’accumulazione capitalistica, possono essere superate senza inceppare l’accumulazione e anzi devono essere superate proprio per favorire l’accumulazione. Che se ne fanno le grandi imprese multinazionali europee di un impero inglese o francese, o anche proprio europeo, quando il loro territorio di conquista è già il mondo intero? E non hanno queste imprese un interesse di fondo in comune con le grandi multinazionali americane, un interesse all’abbattimento di ogni freno all’accumulazione capitalistica e di ogni limite all’espansione commerciale e produttiva? E quindi non hanno in comune anche un interesse al superamento dei condizionamenti che possano derivare dalle politiche nazionali dei vari stati, nella misura in cui sono proprio tali politiche a determinare quei freni e quei limiti? [7]

La mia tesi è che questa sia una caratteristica essenziale del capitalismo: la tendenza a superare le contraddizioni interimperialistiche piuttosto che a inasprirle. Sulla base di tale tesi, propongo una prima definizione di “imperialismo globale”: un sistema di controllo dell’economia mondiale in cui non esistono sostanziali contraddizioni inter-imperialistiche. Per “sostanziali” intendo: determinate dalla forza che dà sostanza economica alla spinta imperialistica, cioè l’accumulazione capitalistica.

 

3. Cosa l’imperialismo globale non è

Non è il “superimperialismo”. Questo concetto è stato elaborato da Mandel [8] per definire un modello della struttura del potere internazionale e un possibile scenario della tendenza prevalente dell’imperialismo: una situazione in cui la lotta tra imperi approda infine all’affermazione del dominio assoluto di un unico impero mondiale su base nazionale. Ovviamente sarebbe quello degli USA. Secondo alcuni osservatori è proprio lo scenario che si è infine affermato a partire dagli anni ’90 in seguito al crollo dell’impero sovietico, al riassoggettamento economico del Giappone e all’annaspamento delle economie europee - tre processi di regresso economico e politico causati almeno in parte dalle politiche commerciali e monetarie adottate dagli USA nel precedente decennio.

Secondo Mandel l’affermarsi del superimperialismo USA presupporrebbe la conquista del controllo del capitale mondiale da parte del capitale americano. Questa è un’implicazione teorica fondamentale, in un’ottica marxista, in un’ottica cioè in cui sono i movimenti economici del grande capitale che determinano quelli politici delle potenze imperiali, piuttosto che viceversa. Se non si accetta una tale implicazione teorica, si deve ritenere che infine l’autonomia del politico si è imposta proprio al livello delle relazioni internazionali, quello che invece gli è più ostico. I marxisti che criticano ad esempio le tesi di Hardt e Negri sull’impero monolitico post-moderno, [9] a maggior ragione rifiutano la concezione stessa di un superimperialismo americano. Se non si dà autonomia del politico, non può esserci superimperialismo. Infatti non c’è stata nessuna conquista del controllo del capitale mondiale da parte di quello americano. Tra le grandi imprese multinazionali oggi esistenti ce ne sono molte americane, ma anche molte europee e giapponesi, e non sembra che le prime si siano mangiate le seconde o siano in procinto di farlo. Anzi proprio non sembra che possano farlo. Mandel stesso infatti mostrava di credere poco a una tendenza al superimperialismo.

L’imperialismo globale non è nemmeno l’ultraimperialismo, né nella versione di Kautsky né in quella di Lenin, per entrambe le quali esisterebbe una tendenza alla formazione di un unico trust o monopolio capitalistico mondiale. Come ho detto sopra, la teoria dell’ultraimperialismo contiene due errori. Il principale dei quali consiste appunto nella convinzione che la progressiva concentrazione del capitale su scala globale possa portare alla formazione di un unico monopolio. In realtà la concorrenza è componente essenziale del processo d’accumulazione capitalistica. Le dimensioni d’impresa possono aumentare indefinitamente, e i profitti d’impresa possono assumere i caratteri di rendite monopolistiche specialmente quando sono determinati dal controllo dei brevetti, ma, proprio a causa di quello sviluppo disuguale di cui Lenin era perfettamente consapevole, e dello scattering del progresso tecnico che dello sviluppo disuguale costituisce il motore, non si potrà mai arrivare alla situazione di un’economia mondiale dominata da un monopolio o un cartello unico. Lenin concesse troppo all’avversario quando accettò la tesi dell’unico trust mondiale. Non cadde invece nell’altro errore insito nella teoria dell’ultra-imperialismo, cioè la tesi secondo cui la realizzazione della tendenza avrebbe portato con se una riduzione delle sperequazioni e delle contraddizioni nell’economia mondiale. Sostenne anzi che si sarebbe verificata una loro acutizzazione. Tuttavia non fu molto chiaro nel definire la natura e le ragioni di tale acutizzazione: quali sperequazioni e quali contraddizioni?

Ebbene è ora possibile precisare la tesi critica di Lenin: le contraddizioni e le sperequazioni che sono acutizzate dall’evoluzione dell’imperialismo non sono le contraddizioni inter-imperialistiche. Sono invece le sperequazioni tra il Nord e il Sud del mondo, tra metropoli e periferia, tra paesi sfruttatori e paesi sfruttati, tra dominatori e dominati. Infatti, se l’accumulazione capitalistica si nutre di plusvalore, quella su scala globale deve passare per l’estrazione di un plusvalore globale. Le imprese multinazionali investono dove possono mietere, e ciò vale non solo per il capitale industriale, ma anche per quello bancario e finanziario. Le esportazioni di capitale dal Nord verso il Sud del mondo, sia nella forma di investimenti diretti che in quella di investimenti di portafoglio e speculativi, sono giustificate solo dalla prospettiva del profitto e quindi implicano la reimportazione dei profitti. Nel lungo periodo il flusso netto di valore tra il Nord e il Sud del mondo sarà positivo per il Nord. Ciò implica che l’aumento della disuguaglianza di reddito tra il Nord e il Sud del mondo è un portato intrinseco della logica dell’accumulazione e dello sfruttamento capitalistici su scala mondiale.

Si potrebbe allora pensare all’imperialismo globale come a una forma di ultraimperialismo leniniano in cui l’affermazione di unico trust mondiale avrebbe portato al superamento delle contraddizioni interimperialistiche e all’acutizzazione delle sperequazioni tra metropoli e periferia? La risposta è no. E non solo perché, come già osservato, non s’è verificata, né sembra possa verificarsi, alcuna tendenza alla formazione di un unico trust mondiale. Ma anche per un altro motivo. Mandel ha portato alla luce un’importante implicazione politica della tesi dell’ultraimperialismo: si dovrebbe affermare uno “stato mondiale imperialista sovranazionale”. Infatti, se non ci sono più contraddizioni intercapitalistiche perché tutti i capitali sono unificati sotto il comando di un unico immenso trust, allora, in forza dell’“unione personale del capitale con il governo”, le contraddizioni interimperialistiche verrebbero abolite dall’azione di un unico stato sovranazionale. Un tale stato si farebbe garante del dominio politico e della regolazione economica del mondo da parte del capitale. Ma dov’è questo stato? Non certo nell’ONU.

L’ultima cosa di cui ha bisogno il capitale globale è uno stato soprannazionale, cioè un’entità politica capace di regolare e controllare il processo d’accumulazione. I mercati mondiali, meno sono regolati e meglio è. Il capitale vuole il “libero” mercato, cioè la libertà di sfruttare. E a questo scopo bastano gli stati nazionali, tanto più quanto più essi stessi devono sottostare alle leggi della concorrenza.

4. Cos’è l’imperialismo globale

Se è vero che il capitale è struttura e lo stato sovrastruttura, ovvero, per dirlo in termini più terra terra, che nel modo di produzione capitalistico lo stato serve “in ultima istanza” le necessità del capitale, allora si può proporre una seconda definizione di “imperialismo globale”: un sistema di relazioni internazionali in cui le politiche statali sono orientate a rimuovere i vincoli che gli agglomerati nazionali (etnici, culturali, linguistici, religiosi, sociali) possono porre all’accumulazione del capitale su scala mondiale.

Il capitale, globalizzandosi, si emancipa dalla dipendenza politica dallo stato-nazione. Agisce in prima persona. [10] Per imporsi ai paesi colonizzati ricorre principalmente agli strumenti di comunicazione e di trasporto moderni - strumenti che si sono rivelati molto più veloci, penetranti, convincenti ed efficaci dei gurka e della legione straniera. E si serve dei mercati che crescono sulle reti create con quegli strumenti. Attraverso tali reti il grande capitale costruisce e gestisce la sua struttura di dominio imperiale nell’atto di valorizzarsi. La struttura coercitiva fondamentale del domino imperiale globale è la struttura produttiva stessa. La sua struttura amministrativa è l’apparato organizzativo dell’impresa multinazionale.

La differenza principale tra l’imperialismo contemporaneo e quello otto-novecentesco sta nel modo in cui il capitale metropolitano si rapporta alle economie periferiche. Il vecchio imperialismo penetrava nei paesi sottosviluppati senza modificarne sostanzialmente il modo di produzione, lasciandoli ristagnare nelle loro strutture economiche e sociali precapitalistiche, e limitandosi per lo più ad estrarre materie prime a basso costo. Oppure vi penetrava, almeno in alcuni di essi, con l’immigrazione di coloni dalla metropoli e la costruzione di nuove economie capitalistiche che tuttavia restavano abbastanza circoscritte. [11] L’imperialismo globale invece penetra dappertutto con il capitale e trasforma tutto a immagine e somiglianza di se stesso. Con l’esportazione dei beni capitali, della finanza e delle merci, esporta se stesso. Oggi è proprio il modo di produzione capitalistico che è diventato globale. Non resiste praticamente più alcuna sacca di arretratezza precapitalistica. Così ecco una terza definizione: l’imperialismo globale è la forma della globalizzazione del modo di produzione capitalistico. [12]

Cambia di conseguenza anche la forma dello sfruttamento imperialistico. Non conta più l’uso della forza militare per l’estrazione coercitiva di risorse, e neanche tanto il meccanismo dello scambio ineguale. Si badi, non è che questi due strumenti di sfruttamento siano venuti meno. Anzi si sono rafforzati. Ma non sono essenziali.

Lo scambio ineguale in effetti sta diventando sempre più efficace mentre se ne articolano e affinano le forme. C’è uno scambio ineguale connesso alla specializzazione produttiva. [13] I paesi del Sud che esportano merci che non vengono prodotte al Nord devono fronteggiare ragioni di scambio sfavorevoli innanzitutto a causa dei loro bassi salari. Questo effetto può essere compensato dalla bassa produttività. Ma una delle conseguenze della globalizzazione è che la produttività del lavoro tende ad aumentare nei paesi del Sud, e ciò favorisce ulteriormente il deterioramento delle ragioni di scambio. Inoltre la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale spingono sistematicamente i paesi del Sud del mondo ad aumentare la produzione di materie prime e commodities per l’esportazione. I paesi si adeguano, facendo così aumentare l’offerta dei propri prodotti e quindi facendone diminuire i prezzi di mercato. Ciò contribuisce ad aggravare gli effetti della tendenza alla diminuzione dei prezzi di produzione. Inoltre, i paesi del Nord del mondo, che insistono perché quelli del Sud abbattano le barriere protezionistiche e magari riducano anche un po’ del loro dumping sociale, tendono però a proteggere i propri settori agricoli alzando i redditi dei coltivatori. Ciò contribuisce a ridurre la domanda di generi alimentari e materie prime prodotti nel Sud e fa peggiorare ulteriormente le ragioni di scambio. Un altro prodotto “perverso” del liberismo globale consiste nella tendenza dei paesi sviluppati a proteggere le industrie di trasformazione. Ad esempio vengono applicate tariffe abbastanza basse sulle importazione del caffè crudo, dei semi di cacao, dei semi oleosi, della juta grezza, e tariffe più alte per l’importazione del caffè tostato, del cacao in polvere, degli oli vegetali e dei tessuti di juta. Ciò ostacola l’industrializzazione dei paesi del Sud e li spinge a una specializzazione che aggrava lo scambio ineguale. C’è infine un potente meccanismo macroeconomico alla base dello scambio ineguale. Molti paesi del Sud devono fronteggiare dei cronici deficit dei loro conti esteri e quindi delle sistematiche spinte al deprezzamento delle loro valute rispetto al dollaro. La conseguenza è che le ragioni di scambio peggiorano per tutti i prodotti esportati dal Sud del mondo, anche quelli del settore industriale.

Quanto all’uso della forza militare come strumento di penetrazione imperialistica, certamente non è venuto meno nell’epoca dell’imperialismo globale. Ne è cambiata però la funzione. Oggi serve essenzialmente ad aprire i mercati, ad abbattere i regimi degli “stati canaglia” (come l’Iraq e l’Afganistan) proteggendo quelli degli stati perbene (come Israele e il Pakistan). La differenza fra i due tipi di stati, a parte quella relativa al fronte su cui si schierano nella guerra terroristica mondiale, di cui parlerò più avanti, riguarda la misura della resistenza culturale e politica all’apertura dei mercati. In quest’ottica è abbastanza irrilevante la bandiera sotto cui combattono le forze della democrazia. Che sia una a stelle e strisce o una tricolore, si tratta comunque di bandiere che lavorano per gli interessi di tutto il capitale globale e non di quelli di una sola nazione.

Come ho già detto, questi due meccanismi di sfruttamento e dominio imperialistico, lo scambio ineguale e la forza militare, che pure sono importanti, non sono però essenziali. Nell’imperialismo globale sono diventati secondari rispetto ad altri due meccanismi più propriamente capitalistici:

1. al livello microeconomico, l’uso di lavoro salariato per l’estrazione di plusvalore nella fabbrica capitalistica;

2. al livello macroeconomico, l’uso della finanza e del credito per l’esproprio di plusvalore e di ricchezza mediante il debito estero.

Ne parlerò più avanti. Per ora devo aggiungere qualcosa sul problema dei diversi gradi di (sotto)sviluppo in cui possono trovarsi i paesi periferici. A seconda dell’estensione delle infrastrutture, del tipo di cultura, della qualità delle capacità lavorative e della dotazione di risorse naturali che il capitale globale trova nei vari paesi, varierà il tipo di investimento. Così i paesi assoggettai possono esser classificati in vari gruppi.

In base alla struttura produttiva, ci sono:

1. I paesi in cui prevale lo sfruttamento massiccio di risorse naturali attraverso l’introduzione della monocoltura e la distruzione dei metodi e delle unità produttive tradizionali

2. Quelli in cui viene privilegiata la costruzione di fabbriche manifatturiere che producono a basso costo beni di consumo o beni intermedi a tecnologia semplice (tessuti, scarpe etc.)

3. Quelli in cui vengono localizzate produzioni tecnologicamente avanzate ma standardizzate e a basso contenuto di innovazione (macchine utensili, automobili, parti di computer etc.)

In base alla dinamica di sviluppo di lungo periodo, si possono distinguere:

1. I paesi in regresso assoluto, che assistono cioè a processi di impoverimento e/o deindustrializazione, con tassi di crescita del PIL pro capite negativi (molti paesi dell’Africa sub-sahariana ed alcuni dell’Asia centro-meridionale e dell’America Latina)

2. Quelli in cui si verificano processi di impoverimento relativo, con saggi di crescita troppo bassi per recuperare il gap con i paesi del Nord del mondo (molti paesi dell’America latina, dell’Europa orientale e del mondo arabo)

3. Quelli infine che (per lo più trasgredendo qualcuna delle più fondamentali regole della globalizzazione e facendo ampio ricorso al protezionismo e alle politiche industriali) sono riusciti ad avviare processi di intensa accumulazione capitalistica e che quindi stanno riducendo il loro divario col Nord del mondo (vari paesi dell’Estremo Oriente, compresa la Cina).

Molti dei paesi assoggettati è eufemistico definirli “in via di sviluppo”. Altri andrebbero proprio considerati “in via di sottosviluppo”. Per comodità applicherò a tutti la consueta etichetta di PVS, intendendola come acronimo di “paesi in via di (sotto)sviluppo”.

Quanto all’impoverimento, si deve osservare che, come fenomeno di classe, esso caratterizza tutti i PVS. L’aumento della povertà e della disuguaglianza nella distribuzione del reddito è infatti una condizione essenziale e una conseguenza inevitabile dello sfruttamento imperialistico. Poiché questi paesi sono tutti, in maggiore o minore misura, penalizzati dal divario tecnologico con i paesi dominanti e da strutturali differenze di produttività del lavoro, il capitale vi investirà solo se i salari vi saranno così bassi da assicurare comunque un basso costo del lavoro e un’elevata competitività. E siccome un grosso esercito di riserva industriale è una condizione essenziale per il mantenimento di bassi salari, in questi paesi sarà molto alta anche la disoccupazione, la sottoccupazione, l’inoccupazione. In altri termini, non è tanto la povertà di un PVS nel suo complesso che scandalizza: è la superpovertà dei lavoratori e dei senza lavoro e, soprattutto, la sua funzionalità economica.

Questa superpovertà, in effetti, assolve a più di una benefica funzione. Non serve solo a consentire lo sfruttamento nei PVS, cioè l’estrazione di pluslavoro in paesi a bassa produttività. Serve anche ad esaltare lo sfruttamento del lavoro nei paesi capitalistici avanzati. Da una parte, infatti, la competitività delle merci prodotte nei PVS contribuisce a ridurre la domanda di lavoro nei paesi sviluppati; [14] dall’altra l’emigrazione dal Sud al Nord del mondo vi fa aumentare l’offerta di lavoro. Entrambi i processi contribuiscono a far cresce l’esercito di riserva, e quindi ad abbassare il salario, anche nei paesi della metropoli imperialista.

Si verifica così un fenomeno nuovo rispetto all’imperialismo otto-novecentesco. Nell’imperialismo globale di oggi lo sfruttamento dei paesi assoggettati è funzionale all’aumento dello sfruttamento dei paesi imperialistici. Le famigerate aristocrazie operaie non esistono praticamente più. Del resto è noto che la povertà e la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sono in aumento anche nei paesi ricchi e superricchi. E sono fenomeni che coinvolgono in maggiore o minore misura l’intera classe operaia.

Tutto ciò ci dà un utile indizio intorno alla questione dell’individuazione dei soggetti rivoluzionari. Non voglio affrontare questo problema qui. Non posso tuttavia sottrarmi alla tentazione di osservare che la categoria di “moltitudini di oppressi”, quale è usata dai teorici dell’ultraimpero postmoderno, è un segno di povertà analitica prima ancora che di regresso politico. L’imperialismo globale, lungi dal rendere demodé il conflitto di classe, lo esalta, lo estende, lo esaspera e, soprattutto, lo globalizza. In prospettiva lo unifica. Ed è il tipico conflitto del modo di produzione capitalistico: la lotta di classe tra capitale e lavoro - tendenzialmente, tra il capitale globale e il proletariato globale.

5. Un Imperium senza sovrano

Il problema è: se lo sfruttamento richiede l’attivazione di una struttura di potere, come si fa a garantire quello globale? La gerarchia di fabbrica è necessaria per lo sfruttamento nel processo produttivo al livello microeconomico. Lo stato nazionale è necessario per il mantenimento della disciplina sociale delle classi subalterne, cioè per assicurare le condizioni macroeconomiche e macrosociali dello sfruttamento. Sarà dunque necessario che venga attivato un qualche tipo di struttura di potere globale per assicurare lo sfruttamento su scala mondiale. Sarà necessario un impero globale, dove il termine “impero” deve ora essere inteso nel senso latino di “imperium”, insieme di poteri, oppure, se si preferisce, in quello inglese di “governance”.

La difficoltà sta nel fatto che il carattere globale dell’imperialismo, cioè il tendenziale superamento delle limitazioni nazionali all’accumulazione capitalistica, rende impossibile usare gli stati nazionali nel modo in cui si faceva nei vecchi imperi ottocenteschi e novecenteschi. Le colonie e le zone d’influenza nazionali non esistono più, tendenzialmente. Peggio ancora, il capitalismo globale ha bisogno di disciplinare gli stati nazionali stessi, di regolare le loro politiche, degli stati del Nord non meno di quelli del Sud del mondo. In altri termini la difficoltà teorica sta nel fatto che l’imperialismo globale avrebbe bisogno di una testa pensante e dirigente, ma è una struttura intrinsecamente acefala.

A parte i più generali motivi di perplessità nei confronti della tesi del superimperialismo americano, cui ho già accennato, ritengo che sarebbe un errore credere che l’imperium globale sia assicurato dall’imperialismo di una sola nazione. È un errore in cui si cade tanto più facilmente di questi tempi, osservando il ruolo di giustiziere mondiale che il presidente Bush continua a ribadire per il suo paese. È un errore in quanto si tende in questo modo a concentrare l’attenzione sulla sola disciplina militare, mentre la regolazione dell’economia mondiale ha bisogno anche di altri strumenti di potere, di ben altri strumenti di potere. Si tratta infatti di regolare la creazione di moneta internazionale, i flussi di finanza internazionale, le politiche monetarie e fiscali nazionali, la protezione dei diritti di proprietà oltre i confini nazionali, l’abbattimento delle barriere protezionistiche, la creazione di infrastrutture per l’accumulazione su scala mondiale, tutte cose che non possono essere fatte dai marines americani, tutte cose che richiedono l’approntamento di strumenti di regolazione mondiale molto più articolati e raffinati di quanto il Pentagono riesca solo a concepire.

Dunque, come funziona la regolazione dell’economia globale? Ebbene funziona, come in un processo “organico”, sulla base di leggi che sembrano “naturali”. Richiamando e contraddicendo Hardt e Negri, direi che l’imperium, l’ordine imperialistico contemporaneo, “sorge in qualche modo spontaneamente dall’interazione tra forze globali radicalmente eterogenee, come un armonico concerto”, [15] diretto però dalle mani, tutt’altro che invisibili e neutrali, del mercato mondiale. Non esiste una mente centrale, uno stato o super-stato mondiale che eserciti il comando su tutto il processo. Esiste piuttosto una molteplicità di centri di governance. Alcuni sono organismi internazionali, La Banca Mondiale (WB), il Fondo Monetario Internazionale (IMF), l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), la NATO, l’ONU. Altri sono banche centrali di governi nazionali che sono autonome dai propri governi, la Federal Reserve degli USA e la Banca Centrale Europea. Altri ancora sono gli stessi governi dei principali paesi capitalistici. Ma i più importanti, infine, sono quei centri di governance “atomistici” che passano per i cosiddetti “mercati”, cioè i soggetti economici, soprattutto le imprese multinazionali. Tutti questi centri di politica attiva interagiscono tra loro in complessi rapporti di competizione e cooperazione, contribuendo in vari modi, ma senza che nessuno l’abbia pianificato, a rendere operative e stringenti le leggi dell’accumulazione capitalistica, le leggi che regolano lo sfruttamento del globo da parte del capitale globale.

Il carattere organico o “naturale” di questo tipo di regolazione non deve tuttavia trarre in inganno. Non c’è nulla di propriamente naturale in esso, che resta pur sempre una forma di regolazione basata su scelte politiche ben precise. Il punto è che le stesse agenzie di governance, nazionali [16] o sovranazionali che siano, non rendono conto a soggetti politici costituenti, come possono essere i cittadini del mondo o anche solo quelli di alcuni grandi paesi. Esse stesse devono rendere conto a delle leggi dell’accumulazione che sembrano indipendenti dalla volontà umana.

Tali leggi assumono la forma di processi di feed back che nel loro complesso operano come automatismi funzionali alla stabilizzazione dell’equilibrio di sfruttamento mondiale. Si tratta di veri e propri meccanismi disciplinari, dei quali almeno quattro, che chiamerò disciplina commerciale, monetaria, terroristica e ideologica, meritano di essere enucleati e spiegati, sia pur a grandi linee.


[1] Lenin (1968, pp. 638-639).

[2] Certo si possono fare delle precisazioni, ma non tali da cambiare la sostanza del discorso. Ad esempio si può osservare che il regime di mercato prevalente nel capitalismo globale moderno è quello della concorrenza oligopolistica, piuttosto che del monopolio in senso stretto. Ne parlerò meglio più avanti. Un corollario interessante di questa precisazione è che la concorrenza oligopolistica, lungi dal frenare il progresso tecnico, come farebbe il monopolio secondo Lenin, in realtà lo favorisce, seppur teratologicamente.

[3] Lenin (1968, p. 643).

[4] Lenin (1966, p. 92).

[5] Si noti che non si tratta di una spiegazione banalmente funzionalista. Quella di Lenin è una solida spiegazione causale. Non si dice semplicemente che l’imperialismo è funzionale all’accumulazione capitalistica. Si dice che questa, anche in forza dell’unione personale del capitale col governo, causa quella.

[6] Cade in una felice svista Costanzo Preve quando sostiene che nel mondo contemporaneo è venuta meno la quinta caratteristica senza che sia scomparsa la quarta - felice, in quanto responsabile di una sostanziale ma illuminante deformazione della tesi leniniana sugli effetti delle “associazioni monopolistiche”. Secondo Preve (2002, p. 51) la quarta caratteristica consisterebbe nella “competizione interoligopolistica tra grandi imprese per la conquista dei mercati mondiali”, che è precisamente la tesi opposta a quella di Lenin, il quale parlava invece di “associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo”. Per fare un esempio: secondo Lenin, il capitale monopolistico tedesco controllerebbe i mercati dell’impero tedesco, quello americano i mercati dell’impero USA; nella concorrenza oligopolistica, invece, sia gli oligopoli tedeschi che quelli americani si fanno una concorrenza spietata su un unico mercato globale. Ebbene la formulazione di Preve perspicuamente cancella l’idea della spartizione monopolistica dei mercati per sostituirla con quella della concorrenza oligopolistica. È evidente che se le cose stanno così, come in effetti stanno, non ci si può aspettare un consolidamento della quinta caratteristica dell’imperialismo.

[7] Per questo motivo sono poco convincenti quei tentativi di “aggiornamento” della teoria leniniana che cercano di riproporre la tesi dell’essenzialità delle contraddizioni interimperialistiche spostandone l’applicazione dalla scala nazionale a quella continentale. Secondo questa visione, di cui Ernest Mandel (1975) è stato uno dei primi e più prestigiosi propugnatori, oggi vivremmo in un sistema di potere mondiale caratterizzato dal conflitto fra tre grandi potenze imperialistiche continentali, gli USA, l’Europa e il Giappone. Certo la tesi poteva avere un certo fascino negli anni ’70, quando la potenza americana sembrava in declino, quella giapponese era all’assalto proprio del mercato americano e quella europea s’era già affermata a livello di predominio commerciale mondiale mentre progettava di fare un balzo in avanti sul piano monetario. Ma oggi è difficile intravedere queste “supercontraddizioni”, o almeno di vedervi alcunché di essenziale. È evidente comunque che non potremmo aspettarci grandi esplosioni di contraddizioni interimperialistiche, neanche per interposta persona, se gli imperi in conflitto fossero questi. Ma il punto è: come fanno questi imperi a essere in conflitto fondamentale se i rispettivi capitali multinazionali non lo sono?

[8] Mandel (1975, cap. 10).

[9] Hardt e Negri (2002) rifiutano esplicitamente la tesi del superimperialismo USA. Tuttavia vi scivolano dentro in più occasioni, ad esempio quando attribuiscono alla potenza militare e alla costituzione americane dei ruoli privilegiati nel processo di costruzione dell’Impero. Per altri versi, la tesi dell’Impero postmoderno è riconducibile a quella dell’ultraimperialismo. Anche in questo caso Hardt e Negri si affettano a negare esplicitamente quello che a più riprese sostengono implicitamente. Ma non c’è dubbio che il loro ragionamento dà adito a una teoria della tendenza alla formazione di uno stato ultra-imperiale sovranazionale.

[10] In tal senso vedi anche Arrighi (1996).

[11] L’europeizzazione dell’America e dell’Australia è un’altra faccenda e comunque un fenomeno imperialistico precedente e sostanzialmente diverso da quello otto-novecentesco.

[12] Malinconico (2001, p. 63) parla di “totalizzazione del rapporto di capitale”.

[13] Quello che fu già rilevato e teorizzato da Emmanuel (1972). Vedi Gibson (1990) per una formalizzazione rigorosa.

[14] Questo fenomeno non sembra particolarmente rilevante al momento. Il peso delle esportazioni dei PVS sul commercio mondiale e sulle importazioni dei paesi capitalistici avanzati è ancora piuttosto basso. Né si può dire che gli investimenti diretti verso i PVS abbiano contribuito a ridurre in misura significativa gli investimenti nel Nord del mondo. C’è da aspettarsi però che i due fenomeni tendano a rafforzarsi col passare del tempo.

[15] Si noti che questa tesi viene citata da Hardt e Negri (2002, p. 21) per stigmatizzare una teoria che non condividono.

[16] Ci tengo a mettere in chiaro che la tesi secondo cui gli stati nazionali vengono disciplinati nel processo di formazione dell’imperium globale non implica che i loro poteri siano necessariamente indeboliti. Infatti quel processo di formazione passa anche per l’azione degli stati nazionali. Non credo a una generica “perdita di poteri” degli stati nazionali. Ritengo che sia necessario distinguere tra grandi e piccoli stati. I grandi stati continentali - USA, Europa, Giappone, Russia, Cina, India, Brasile, vedono in realtà aumentare la propria capacità di fare politica. Quello che nessuno di essi può fare, con due eccezioni, è di muoversi in controtendenza. Per questo è necessario il G8 (domani il G9 e poi il G10). Le due eccezioni sono gli USA e l’Unione Europea, che godono di un’autonomia politica speciale in virtù di due privilegi: 1) hanno un grande peso sul commercio mondiale, cosicché possono almeno in parte far aumentare le proprie esportazioni aumentano le importazioni; 2) emettono moneta internazionale, cosicché non sono soggetti al vincolo estero. Quanto ai piccoli stati, è vero che non possono fare politica economica in controtendenza ai mercati mondiali. Ma questo accadeva anche nel sistema di Bretton Woods. La globalizzazione finanziaria ha solo perfezionato tale fenomeno di dipendenza, non lo ha creato ex novo.