Le sfide del movimento sindacale uruguaiano in un nuovo contesto regionale e globale
Alfredo Falero
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1. Breve intoduzione socio-storica
L’Uruguay, piccolo Paese di tre milioni e duecentomila
abitanti, alimentato fortemente dall’immigrazione, soprattutto italiana e
spagnola nella prima metà del secolo, situato tra due giganti quali l’Argentina
ed il Brasile, sta attraversando una delle crisi più gravi nella sua storia. La
mancanza di aspettative che impregna la sua società emerge, ad esempio, nella
forte immigrazione dei settori sociali in cui questa strategia individuale è
possibile.
Tuttavia, la sua storia, per buona parte del XX secolo, è
stata molto diversa. Di fatto, l’Uruguay è stato considerato peculiare in
America Latina, un’eccezione rispetto agli altri Paesi, mostrando un certo
livello di integrazione sociale e minori disuguaglianze, cosa certo non comune
in un’area in cui la emarginazione di alcuni settori e la povertà erano di
carattere strutturale. Visto in termini subregionali, l’Uruguay, come parte
dell’area del cono Sud, ha mostrato le proprie diversità strutturali rispetto
al resto dell’America Latina ed in certi contesti del secolo XX può essere
definito “semiperiferia”, secondo la terminologia di Wallerstein.
In particolare nel caso uruguayano, dall’inizio del XX
secolo si è costituito uno Stato che metteva insieme soggetti diversi, con una
relativa autonomia dei gruppi economici, che ha introdotto canali istituzionali
per le richieste provenienti dal mondo del lavoro. Questo non sarebbe stato
possibile senza le precoci manifestazioni di un movimento dei lavoratori che
continuava a rafforzarsi. Costituito originariamente su idee anarchiche e
socialiste, esso ha seguito i via vai ideologici successivi, basandosi sul
lavoro formale, soprattutto industriale, che il modello di accumulazione vigente
rendeva possibile.
Il mito di una scalata sociale possibile per tutti, aveva
così un referente empirico sicuro che era la possibilità, garantita da uno
Stato che interviene in materia sociale, di accedere gratuitamente a un sistema
pubblico di istruzione relativamente buono, con possibilità reali di
inserimento lavorativo stabile. Certo, si è trattato di una costruzione sociale
non esente da forti conflitti all’interno del mondo del lavoro. Tuttavia,
elementi come il menzionato intervento dello Stato, un tessuto sociale integrato
e un contesto di Paese piccolo, ha permesso di definire la società uruguayana
“ammortizzatrice di conflitti” [1].
Il modello di accumulazione è entrato chiaramente in crisi
negli anni Sessanta, anche se il cedimento era iniziato prima. Con esso
cominciò a sgretolarsi anche il mito di “Svizzera d’America”. A livello
politico, si nota chiaramente la svolta autoritaria, a volte definita “dittatura
costituzionale”, instaurata dal Partido Colorado alla fine degli anni
Sessanta, che rafforzava così il suo schieramento a destra nel panorama
politico (mentre prima questa tendenza era condivisa all’interno del partito
con altre posizioni di centro e centro-sinistra).
All’interno di questi cambiamenti nella struttura del
potere, sono evidenti gli stretti legami tra potere economico e potere politico.
L’azione del movimento sindacale uruguayano - che si era già unificato nel
1964 come centrale unica, la Convención Nacional de Trabajadores (CNT) - è una
presenza pubblica forte in contrapposizione a tali strutture. Inoltre, si nota
un processo di “maturazione” a livello politico-ideologico del movimento dei
lavoratori, legato all’elaborazione di un programma di trasformazione del
Paese che include la riforma agraria, le nazionalizzazioni, la riforma del
commercio estero, la politica di investimenti pubblici, ecc. (D’Elia,1969; H.,
1985).
Dal punto di vista della base sindacale, si deve tener
presente un inserimento lavorativo formale pubblico o privato, quantitativamente
importante, oltre le minacce latenti o manifeste dello Stato e del capitale di
licenziamento e repressione. In questo senso, non sorprende che il 27 giugno
1973 non solo segni il colpo di stato per il Paese, all’interno di un processo
di colpi di stato in tutta l’area appoggiati dagli Stati Uniti, ma anche l’inizio
di uno storico sciopero generale.
Lo storico Universindo Rodríguez ha affermato di recente che
“lo sciopero generale del 1973 rappresenta per i suoi obbiettivi e la sua
durata la più importante esperienza di lotta portata avanti dai lavoratori
uruguayani, che ottennero l’adesione di ampi settori di non salariati non
sindacalizzati, tra gli altri: chiese, Università della Repubblica, Federazione
degli Studenti Universitari e del Sindacato Medico” (2003). Successivamente la
storia oltrepassò le frontiere: una violenta repressione militare e dittatura
con complicità civile, soprattutto di membri del già nominato Partido
Colorado.
Anche l’uscita dalla dittatura vede un ruolo attivo del
movimento sindacale, del movimento di cooperative per gli alloggi e di mutuo
soccorso [2] (FUCVAM, un’altra
particolare esperienza uruguayana di successo) e del movimento studentesco (De
Sierra, 1992; Filgueira, 1985;). Con l’evoluzione democratica, il movimento
sindacale unisce la sua memoria di lotta più recente alla memoria storica e la
centrale dei lavoratori si unisce sotto la sigla PIT-CNT (Plenario Intersindical
de Trabajadores-Convención Nacional de Trabajadores).
Come nel resto dell’America Latina, i sindacati hanno avuto
un ruolo importante mentre invece, i cambiamenti strutturali successivi -
politica di aggiustamenti, ristrutturazione produttiva, flessibilità del lavoro
e cambiamenti nella struttura del mercato del lavoro - hanno provocato una forte
crisi interna (de la Garza, 2001). Vediamo come ha affrontato questa situazione
il movimento sindacale uruguayano ed alcune delle sfide che deve affrontare.
2. Crisi del modello di accumulazione e destrutturazione del movimento
sindacale
Dopo il periodo postdittatura, sotto la gestione politica
ancora una volta del Partido Colorado abilmente presentato come il grande
manovratore politico della dittatura, inizia un periodo che può essere definito
di crescita escludente (Olesker, 2002). Non tutti i settori dei lavoratori
salariati vengono considerati nello stesso modo con questo modello, dal momento
che gli impiegati bancari ad esempio ottengono all’interno della “piazza
finanziaria regionale” alcuni vantaggi paragonati agli altri lavoratori.
Ma già verso la fine del Novanta, si notano chiari segni di
una crisi che attualmente che colpisce con crudezza importanti settori della
popolazione. Basta ricordare una cifra significativa per questo piccolo Paese
con una popolazione invecchiata e cioè che la metà dei bambini nascono in
condizioni di povertà. Di fatto, anche se questo non è il luogo in cui
affrontare questo tema, si osserva un netto aumento della degradazione sociale
(esclusione sociale ed emarginazione senza precedenti). La capitale, Montevideo,
mostra in particolare una frammentazione prima sconosciuta, in cui si situano
zone chiaramente dei “poveri” e zone chiaramente dei “ricchi”.
D’altro canto, mentre il sistema politico appare segnato
dall’utilitarismo e dall’inattività, si osserva inoltre un insieme
importante di pratiche collettive di resistenza, un arco di inedite e vecchie
manifestazioni di scontento, azioni di costruzioni sociali “classiche” ed un
ventaglio di esperienze creative. Il movimento sindacale smette di essere “l’asse”
di un potenziale progetto antiegemonico dal punto di vista della società civile
e diventa solo uno dei vettori di un insieme di espressioni sociali di
richieste. Ma, sottolineiamo, non necessariamente dal punto di vista di attori
“dati” o costruiti, ma in costruzione e con potenzialità di aprire un altro
orizzonte di possibilità.
Questo ci porta ad esaminare alcuni aspetti
teorici-metodoligici di base. Una prima chiave è che se si sceglie come unico
referente di categoria quello che chiamiamo “movimento sociale”, si
impedirebbe di ragionare ad altre formazioni, dimenticheremmo i cambiamenti che
stanno nascendo all’interno del tessuto sociale e che formano questa capacità
di costruzione del nuovo. Per esempio, l’intero tessuto sociale della
periferia di Montevideo legato ad esperienze di coltivazioni in campi comuni,
rappresenta una potenziale costruzione di una nuova soggettività sociale. Ma il
futuro è aperto, può anche svilupparsi in attività meramente assistenziali o
di volontariato.
Considerando questo ventaglio di attori, questo campo di
tensioni egemoniche che chiamiamo società civile, in tale ambito di generazione
di una “cultura” di riferimento alternativa ai rapporti dominanti, tende a
configurarsi in questo modo ed a nostro giudizio, un aspetto fondamentale che
dà vita al difficile, contraddittorio formarsi di un nuovo “senso comune”
(Boaventura de Souza, 2000), di una nuova soggettività sociale e della sua
capacità di costruzione (Zemelman, 1997).
La soggettività sociale si forma a partire dell’articolarsi
di bisogni, esperienze ed aspettative. Per questo è importante non solo
considerare il movimento sindacale come nel periodo anteriore, ma anche pensare
ad attivare nuove attività, anche se discontinue, progetti che aprano nuovi
orizzonti possibili. Insomma, stiamo parlando della capacità della creatività
sociale e di nuove formule del collettivo. Da qui si deduce una nuova sfida per
il futuro: la partecipazione del movimento sindacale nella ricostruzione di
altre basi sociali che non sono il classico sindacato di fabbrica e questo
suppone introdurre una certa dose di flessibilità a livello organizzativo.
Ad esempio la Central de Trabajadores Argentina (CTA) nata
come alternativa sindacale nell’epoca di Menem - a partire dal sindacalismo
corporativo e mafioso praticato dalla Confederación General del Trabajo (CGT) -
include basi territoriali come quella rappresentata dalla Federación Tierra y
Vivienda (FTV) ed il movimento conosciuto come “Piqueteros”, lavoratori
disoccupati il cui principale mezzo di lotta è il blocco stradale. In questo
caso, la quotidianità del disoccupato all’interno di un collettivo porta alla
costruzione di un’altra soggettività sociale.
Considerando il modello precedentemente delineato, basato
sull’inserimento all’interno del lavoro formale - ed in cui i diritti
sociali erano costruiti a partire da tale inserimento - il movimento sindacale
diventava ovviamente il grande asse strutturatore per lo meno del lavoro formale
urbano. Quando fu colpita in maniera più generale la materialità e la
soggettività dell’essere che vive del lavoro, è esaurito anche un modello di
sindacalismo a livello globale (Antunes, 1999). Nel caso uruguayano, ad esempio,
la soggettività proveniente dal mondo del lavoro si costruisce ora su una base
molto meno tributaria dell’asse industriale e questo lascia un vuoto che non
è coperto da altri settori.
Si noti che a causa del forte processo di
deindustrializzazione degli ultimi anni, il rapporto lavoratori dei servizi e
operai passò da un rapporto 40 e 60% rispettivamente nel I Congresso
Straordinario di maggio 1987 ad un rapporto 19 e 81% nel VII Congresso
Straordinario di giugno 2001 (Falco, 2001). Come è risaputo, la
sindacalizzazione in alcuni settori di servizi è molto difficile, come succede
con gli impiegati dei supermercati.
D’altro canto anche l’aumento del lavoro precario e
informale o direttamente la crescente disoccupazione destrutturano le basi
sindacali uruguayane. Le cifre delle inchieste sugli alloggi dell’anno 2002
mostrano che un 63% della popolazione attiva ha problemi di lavoro (Olesker,
2003). Sono considerati con problemi di lavoro i disoccupati (vicini ad un 20%),
i lavoratori precari (che non hanno copertura di sicurezza sociale o hanno un’evidente
instabilità del lavoro) ed i sotto-impiegati che sono coloro che lavorano meno
di 40 ore settimanali e vorrebbero farlo di più.
Queste cifre riflettono una realtà che potrebbe danneggiare
qualunque movimento sindacale e che aggiunge elementi alla sfida di ampliamento
delle basi sociali a sostegno del movimento. Uno di questi elementi è la
necessità di estendere la conoscenza dei diritti sociali - ancor prima di avere
la possibilità di organizzare azioni collettive- visto che le giovani
generazioni non li conoscono; e questo, non solo nel tentativo di sperimentare
una realtà diversa da quella del vecchio dirigente sindacale, ma soprattutto a
causa di un processo di perdita della memoria storica messo in atto con successo
nel paese dalla destra politica.
Inoltre, come ci ha indicato con la sua esperienza un
importante attivista sindacale ormai morto: “non si diventa dirigenti
sindacali frequentando una scuola o un’accademia da cui uscire con il titolo
di dirigente sindacale, e quando e dove ci si è provati il risultato è stato
negativo: ne sono usciti dei mediocri burocrati, incapaci di guidare i
lavoratori nelle loro lotte o, peggio ancora, incapaci di ascoltarli per farsi
portavoce delle loro aspirazioni” (Rodríguez, H., 1985, p. 31).
Certo non tutte le sfide sono il prodotto di modificazioni
strutturali. Alcune hanno a che vedere con problemi strategici e con la poca
credibilità del movimento sindacale come veicolo che incida nella realtà
sociale. Si accumulano problemi di ogni tipo: dalla crescente tendenza alla
burocratizzazione e al distacco tra base e dirigenza fino alle dispute interne
che diminuiscono la capacità d’azione.
Tra le manifestazioni pubbliche una delle poche che ha avuto
successo è stata la “mobilitazione di veicoli” tra Montevideo e Punta del
Este - la principale località balneare del Paese, di turismo alto e medio-alto
realizzata il 24 gennaio 2002 e che ha avuto una massiccia risposta da parte
dei residenti nel tratto percorso. Comunque, la sua riuscita si deve più alla
pubblicità causata dalla proibizione del governo del presidente Batlle ad
entrare nella località balneare e ai tentativi di screditare la manifestazione
messi in atto dai dirigenti dei partiti di destra Colorado e Nacional,
che non ai meriti dell’organizzazione nel facilitare la discussione a livello
sociale.
I problemi strategici si sono presentati di nuovo quando il
sindacato PIT-CNT ha partecipato attivamente all’organizzazione della così
della “Concertación para el crecimiento” insieme ad alcuni settori del
capitale e il cui atto pubblico ha avuto luogo il 16 aprile del 2002. Sebbene la
manifestazione sia stata enorme (circa 100 mila persone), non si è riusciti a
coinvolgere tutti i settori popolari, visto che il movimento cooperativo degli
alloggi (FUCVAM) aveva deciso di non partecipare mostrando così la sua distanza
dalle posizioni del Sindacato.
In ogni modo, la manifestazione - sebbene costruita da
dirigenti di organizzazioni con interessi eterogenei e appesantita da vari dubbi
sulla sua percorribilità - ha permesso di incanalare un significativo
malcontento sociale ponendo la necessità di un cambiamento nella politica
economica. Però, vista la mancanza di solide basi nel tessuto sociale, le sue
possibilità di continuità non sono molte.
Infine, in questo capitolo, non dobbiamo mancare di
menzionare qualcosa di veramente nuovo: le esperienze di occupazione delle
fabbriche abbandonate dai vecchi proprietari per farle produrre di nuovo. Come
si sa, questa esperienza è molto più avanzata in Argentina, ma anche in
Uruguay ci sono state alcune esperienze in questo campo, alcune opportunità
perdute (per esempio con la chiusura dell’unica fabbrica di contenitori di
vetro del paese) e alcune esperienze che generano aspettative. E’ il caso del
settore dell’industria del caucciù e della possibilità di applicazione di un
modello di gestione cooperativa. In questi casi, la sfida è realizzare un
veloce apprendimento delle difficoltà implicite in questi processi e creare una
conoscenza e un’informazione sistematizzata per il futuro.
[1] “Società ammortizzatrice” è l’espressione
usata da Carlos Real de Azúa, uno degli intellettuali uruguayani più
importanti. La sua interpretazione era che la società uruguayana tendeva a
neutralizzare i grandi conflitti, tesi che fu esagerata da letture
posteriori.
[2] Cooperativas de viviendas por ayuda mutua (N.d. T.).