Rubrica
Per la critica del capitalismo

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Armando Fernández Steinko
Articoli pubblicati
per Proteo (2)

Professore titolare di Sociologia, Università Complutense, Madrid

Argomenti correlati

Europa

Movimento "no global"

Social forum

Nella stessa rubrica

Il capitalismo greco, l’Unione Europea e la Sinistra
John Milios

Moneta, denaro e capitale: concetti dagli inizi del XXI secolo
Henrike Galarza

Firenze ‘02: Altre Europe sono possibili. Costruire l’opposizione alla barbarie del capitale
Armando Fernández Steinko

Il movimento antiglobalizzazione: un nuovo soggetto nelle relazioni internazionali?
Rebeca Oroza Busutil

 

Tutti gli articoli della rubrica "Per la critica del capitalismo"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Firenze ‘02: Altre Europe sono possibili. Costruire l’opposizione alla barbarie del capitale

Armando Fernández Steinko

Formato per la stampa
Stampa

Firenze segna un’inflessione. La globalizzazione neoliberale sta trasformando questo mondo in qualcosa di insopportabile, ma, se il socialismo dell’Est ha fatto piangere, quello del centro-sinistra comincia davvero a far morire dal ridere. Il prima e il dopo che potrebbe marcare Firenze non è tuttavia facile da definire; esistono solo pochissimi avvenimenti storici che rendono possibile identificare con certezza un prima e un dopo rispetto ad essi, mentre altri, come l’11 settembre 2001, accelerano piuttosto processi già in atto da alcuni mesi o anni. Il Forum Sociale di Porto Alegre ha segnato il punto di partenza, anche se nemmeno tanto, dal momento che Porto Alegre I, a sua volta, è stato il risultato di una serie di piccole esperienze di cambiamenti innovativi che si sono affermate e perfezionate negli anni, e che vanno dalla peculiare Rivoluzione Zapatista fino alle premesse insite in Brasile. Cosa insegna la storia dei movimenti sociali? Qual è la novità di Firenze, oltre il superamento di qualsiasi previsione di partecipazione e creatività, oltre che la maturità politica e intellettuale di quasi tutto ciò che è stato detto, discusso e proposto, oltre che il fatto che la manifestazione contro la guerra del 9 novembre ha veramente riunito circa 750.000 persone diverse, mescolate e unite come abbiamo potuto testimoniare tutti noi che eravamo lì, senza ingannare nessuno?

Certamente, Firenze ha molte caratteristiche in comune con i grandi movimenti sociali che hanno modificato il volto dell’Occidente, addomesticato la sua economia selvaggia o che addirittura sono riusciti ad abbattere il capitalismo. In primo luogo, possiede in comune con questi la combinazione di protesta contro la guerra e protesta sociale e lavorativa, che riunisce improvvisamente settori delle classi medie, operaie, delle donne e giovani in un amalgama molto potente. Questa combinazione, che solo nel minor numero dei casi ha portato un cambiamento rivoluzionario, ma che in molti altri ha radicalmente ridefinito il gioco politico, o, almeno, ha preparato il terreno per cambiamenti più profondi, si è avuta sia durante la Rivoluzione Russa del ’17, sia nella Germania del ’18, sia durante la Settimana Tragica di Barcellona (1909) e durante lo Sciopero Generale nella Spagna del 1917, sia nei grandi movimenti antifascisti del 1944-1950, che nelle proteste contro la Guerra del Vietnam del 1968. Questo stesso amalgama si è ripetuto a Firenze e solo esso spiega l’affluenza massiva alla manifestazione di sabato 9 di novembre contro la Guerra in Irak.

In secondo luogo, a Firenze si è verificato un nuovo avvicinamento tra gli obiettivi di coloro che scelgono delle forme di partecipazione e di lotta più dirette e coloro che scelgono una lotta più istituzionale con, in effetti, una chiara preponderanza dei primi. Il discredito delle istituzioni politiche, che sta portando un aumento dell’astensione e del disinteresse per la politica in Europa, ha dato molta più voce a coloro che scelgono di partecipare “alla base” (da gruppi ecologisti, a ONG, da iniziative cittadine di ogni tipo fino ad organizzazioni dichiaratamente antistituzionali, da gruppi marxisti o libertari fino a sindacati “di base”), che alle organizzazioni più moderate e istituzionali. I partiti di centro-sinistra, screditati dal loro triste ruolo nella seconda metà degli anni Ottanta, si sono fatti notare piuttosto per la loro assenza e, anche se in misura minore, anche i grandi sindacati europei. A Firenze, però, questa eterna dicotomia si è nettamente temperata, una sorta di “ammorbidimento” che si è dovuto produrre anche affinchè si consolidassero i tre grandi cicli di protesta che ha conosciuto il XX secolo (1917-1924, 1944-1950 e 1968-1980). La Rivoluzione Russa non avrebbe potuto trionfare se l’ancestrale cultura russa dell’autorganizzazione cittadina (soviets) non si fosse imposta alla scelta istituzionalista dei menscevichi, ma nemmeno se molti dei muri che separavo menscevichi e bolscevichi non si fossero ammorbiditi, almeno nei primi mesi del 1917. La Rivoluzione Tedesca è nata a margine del settore maggioritario del SPD, però, sebbene questo l’avrebbe poi tradita, non avrebbe nemmeno trionfato se le organizzazioni operaie e sindacali maggioritarie non si fossero unite ad essa in massa. Le lotte antifasciste a partire dal 1944 sono incominciate in Italia, Francia e nei Balcani come guerre di guerriglie, ma i partiti, con la loro disciplina e la loro organizzazione, erano dietro di esse con le loro reti di intellettuali, militanti organizzati e resistenti di ogni genere. Anche il ’68 è nato nella base, nella base delle fabbriche e nella base delle università e dei quartieri, ma si è visualizzato soprattutto attraverso leggi, proposte e riforme sociali delle quali ancora beneficiamo quando una parte della socialdemocrazia si è unita ad esse, con l’obiettivo di frenare la pressione della sua ala sinistra, sebbene anche in questo caso per appropriarsene elettoralmente e poi dimenticarle troppo presto. La lotta senza quartiere tra istituzionalisti puri e antistituzionalisti puri che conosciamo degli anni Settanta o anche degli anni Ottanta e Novanta (nei primi tentativi di creare i vari Forum Sociali/Movimenti Antiglobalizzazione di Barcellona e di Madrid continuano ad essere vive), è stata sospesa, grazie alla rettifica di alcune organizzazioni di tipo tradizionale (come Rifondazione Comunista, speriamo anche Izquierda Unida, il PCE e altre), ma soprattutto grazie alla forza delle iniziative cittadine che hanno in parte accantonato gli inganni dei vecchi meccanismi fordisti della rappresentanza politica.

Terzo. Firenze non è il risultato del lavoro e dell’impegno di una generazione o di un gruppo sociale determinato che domina pesantemente sugli altri; è vero che quelli che predominavano erano i giovani universitari, come nel 1968, però era ben rappresentata anche la generazione intermedia, quella che ha fatto il Terzo Ciclo e quella di coloro, come noi, cresciuti politicamente negli anni Ottanta. Il peso dei giovani è sempre stato decisivo. Le città più rivoluzionarie d’Europa nel 1917 erano, non a caso, le più giovani (San Pietroburgo, Barcellona e Berlino, in questo momento non ho dati per Torino e altre), pertanto quella del ’68 non è stata la prima rottura che ha avuto le nuove generazioni come protagoniste, anche se è vero che solamente verso gli anni Sessanta i giovani creano identità e culture proprie. La gioventù non protesta per capriccio, lo fa perchè può veramente guadagnarci di più che gli adulti, perchè investe maggiormente in un futuro che si estende davanti ad essa per un numero di anni maggiore di quello davanti ai più vecchi. Poi vi sono le donne che, in attesa di studi più sistematici, ho l’impressione che a Firenze fossero almeno numerose quanto gli uomini. Le donne sono state decisive nella Rivoluzione Russa esattamente come lo sono state nella lotta per il suffragio universale che nella Finlandia del 1906 dette loro per la prima volta il diritto al voto (la Finlandia era stata fino a quegli anni una colonia della Russia), così come lo sono state nella Settimana Tragica di Barcellona, che rappresenta una pietra miliare per la storia dei movimenti sociali in Spagna. L’inserimento di migliaia di donne nel lavoro remunerato nella maggioranza dei Paesi che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale (i casi di Francia e Russia sono emblematici, ma anche quelli della Germania, la Gran Bretagna e degli Stati Uniti) è stato importante per riuscire a rompere l’ordine politico e, in parte, economico del XIX secolo, quasi quanto la forza organizzata del movimento operaio. La storia si è ripetuta di nuovo verso il 1944, quando milioni di donne si sono inserite nella lotta antifascista, rompendo con molti schemi, ruoli e comportamenti legati alla famiglia tradizionale, ermetica e sempre molto poco aperta agli avvenimenti cittadini. Le donne, e il movimento femminista in generale, sono state decisive anche nel ’68, come tutti sanno, e le donne, che oggi hanno un’importanza almeno quanto quella degli uomini tra gli universitari nei Paesi del Sud d’Europa, sono ancora una volta fondamentali, tanto che non appare strano che siano state così numerose a Firenze.

L’aspetto che è stato più nuovo dal punto di vista storico, più originale, è che a Firenze le parti non si sono messe a litigare in una discussione tra radicali e riformisti (molto diversamente da quanto è successo nel 1968 e nel 1917, anche se non per quanto riguarda il 1944), tra il semplice rifiuto del capitalismo e la sua accettazione dogmatica; a Firenze, come a Porto Alegre, ha trionfato il sì sul no, hanno trionfato le proposte capaci di unire la critica di ciò che esiste sul solo rifiuto di qualcosa che non si vuole, ma di fronte a cui non si hanno molte alternative possibili. La maggior parte delle proposte fatte nei migliaia di forum e gruppi di discussione ha portato ad una messa in discussione, non tanto radicale solo a livello verbale, quanto profonda e meditata, del sistema vigente. Quello che si chiedeva è semplicemente impossibile da ottenere all’interno dell’attuale sistema capitalista; se la sicurezza socioeconomica nel suo significato più ampio, la sostenibilità, la diversità culturale e la pace sono gli obiettivi che quasi tutti considerano auspicabili e necessari per fare quegli “altri mondi possibili”, sembra molto difficile che tutto ciò si possa realizzare partendo dalle grandi leggi che regolano oggi l’economia e la società. Firenze lascia un’altra lezione, per gli altri, già scritta da più di qualcuno negli ultimi anni: che “il capitalismo non verrà abolito semplicemente collettivizzando la proprietà privata, come forse si era creduto prima, ma che è necessario creare e praticare modi di vita (produzione, consumo, tempo libero) che superino lo stesso capitalismo” [1]. Questo “socialismo quotidiano” (Enric Tello) non richiede molta fraseologia rivoluzionario-di rottura, semplicemente lo è in sè, la si definisca così o in un altro modo. Vivere in un modo determinato, produrre, intervenire nella società, consumare, diventano in questo modo un processo più “radicale” di molte delle grandi frasi che tutti conosciamo.

Altre novità che ho potuto riscontrare a Firenze rispetto all’ultimo ciclo di protesta (1968-1980), del quale siamo figli io e molti altri che sono stati lì, sono le seguenti:

Primo, la combinazione di mancanza di prospettiva lavorativa e di alte qualifiche tra i giovani. I giovani degli anni ’70, almeno quelli della classe media, erano certamente molto più qualificati di quelli prima di loro; come gli europei di oggi, essi hanno usufruito di un sistema pubblico d’istruzione che in quegli anni aveva già lasciato tracce profonde nella coscienza collettiva (cultura generale, conoscenza del mondo, delle strutture politiche ed economiche, ecc.). Tuttavia, a differenza di quei giovani, cresciuti in un contesto di abbondanza e crescita quasi ininterrotte, i giovani di Firenze hanno un futuro professionale affatto spianato. La crisi del 1975 ha diminuito molto le prospettive di vita dei giovani contestatori di allora; ma verso il 1975 il ciclo di protesta incominciava ad esaurirsi proprio a causa del problema della disoccupazione, della precarietà e del principio del “si salvi chi può” che ha colto alla sprovvista una protesta che in realtà nuotava sull’onda dell’abbondanza dello sviluppo fordista e che non è riuscita a trovare una formula unitaria per infrangere i modelli della rigidezza della democrazia fordista. Oggi, al contrario, disoccupazione, mancanza di prospettiva professionale e protesta giovanile si uniscono di nuovo in un cocktail di politicizzazione generale dei più interessati, che, semmai, assomiglia di più a quanto è successo durante il Primo Ciclo di Protesta (1917-1924), che a ciò che si è visto durante il Terzo, più vicino cronologicamente. Questo spiega l’avvicinamento spontaneo di culturale-verde e viola e altri colori, con il vecchio colore rosso del lavoro, avvicinamento che, nella maggior parte dei paesi, non ha in realtà smesso di riferirsi agli anni Settanta, nonostante la retorica propria della classe operaia di molte delle “sette” (e “non sette”) politiche di allora.

In secondo luogo, vi è l’impressionante varietà di iniziative, organizzazioni, reti e associazioni di ogni tipo che sono confluite a Firenze. Firenze è stata l’irruzione definitiva della pluralità, della diversità, della creatività collettiva, un trionfo che viene da Porto Alegre I e II, ma che solo in un continente così diverso e multiculturale come quello europeo poteva arrivare ad essere tanto incisivo. E non solo questo, perchè questo, in sè, non porta ad un nuovo ciclo di protesta, dal momento che può anche portare alla sua divisione e indebolimento, come è successo verso il 1970, o anche alla sua autoliquidazione per colpa dei settarismi e degli scontri tra grandi organizzazione politico-sindacali, le iniziative più di base e tra le stesse iniziative di base tra loro. Firenze ha seguito la geniale parola d’ordine di Porto Alegre di autodefinirsi piuttosto come uno spazio di incontro e di elaborazione di proposte, piuttosto come un processo di ricerca collettiva, piuttosto come una sorgente di creatività trasversale che cerca un’alternativa alla globalizzazione neoliberale, che come un punto unificatore ed “accumulatore di forze” nel senso tradizionale del termine. In questo aspetto risiede molta della novità, perchè riguarda i modi di costrurire dei contropoteri. Anche gli incontri specializzati di universitari, di sindacalisti o di ONG celebrati negli ultimi anni per tutto il pianeta in lungo e in largo avevano dato origine a proposte e scambi importanti di iniziative, modelli e proposte, ma nessuno di essi era stato capace di scatenare effetti-domino paragonabili a quelli visti a Firenze; solo la trasversalità dei dibattiti, delle età, delle iniziative e dei progetti ha permesso una diffusione dello stimolo a creare collettivamente.

Ma non solo. Firenze non è stata solamente pluralità, ma anche confluenza di diversità che si annodano e si ramificano di nuovo in capillarità diverse per esplorare nuove tematiche e strategie, per attrarre più gente nuova. È un movimento di movimenti generatore di consensi, consensi che risultano innovatori, per il sistema che li origina, per rompere i modelli unificatori di ciò che si intende generalmente per “consenso”. A Firenze c’erano cinque lingue ufficiali (italiano, spagnolo, francese e inglese) con il dominio dell’italiano nello stesso modo in cui Porto Alegre è riuscito ad adottare lo spagnolo come lingua libera rispetto all’inglese e non per nulla, ma semplicemente perchè la maggioranza parlava o capiva lo spagnolo. Questa accettazione delle regole della diversità in un ambito così problematico e tanto costoso economicamente come quello della lingua (i traduttori simultanei costano molto) ha dato un segno distintivo a Firenze, come lo aveva dato a Porto Alegre e, se si consolida questa linea, è probabile che dovremmo fare un’incursione strategica nell’arabo nel prossimo Forum Sociale del Mediterraneo, in modo che si potrebbe ampliare in maniera esplosiva le adesioni da parte del dimenticato, sconosciuto e maltrattato mondo arabo. Ma il fatto curioso è che questa diversità linguisttica non ha impedito la comunicazione. Certamente, la diversità obbliga ad imparare le lingue, certamente questo richiede uno sforzo addizionale di traduzione simultanea, certamente sarebbe stato più economico tradurre tutto in inglese; tuttavia lo sforzo ha meritato la pena, anche solo per il potere simbolico delle mescolanze linguistiche. La multiculturalità ed il plurilinguismo, che è una delle sue espressioni più dirette, hanno un’enorme capacità di unire, di maggiore coesione e agibilità, di certificare una diversità, di tradurla in creatività, una creatività che poi restituisce con gli interessi tutto ciò che si è investito in essa. Ho sempre pensato che il fallimento della transizione spagnola, il fallimento della costruzione di uno spazio multiculturale, si debba all’incapacità degli Spagnoli delle zone solo parlanti castigliano di apprendere le lingue, le lingue peninsulari e il Foro Sociale Europeo non ha fatto che confermarmelo. Non esiste possiblità di generare consensi senza distruggere il particolare, se non esiste una disposizione di fondo a convivere con diverse lingue, e non solo la lingua (naturalmente, l’inglese oltre al proprio).

Firenze ha generato consenso nonostante tutto, ma un consenso che non ha nulla a che vedere con il “Consenso di Washington” basato sulla omologazione imposta dalla società del denaro, sulla prepotenza dell’inglese e sull’egemonia culturale dell’area anglosassone. La parola di moda lì, sulla moquette dove dormivano i ragazzi arrivati da lontano con i sacchi a pelo, pochi soldi e il loro incrollabile ottimismo è la parola “contagio”. Contagio tra Paesi, culture e credi, contagio tra programmi marxisti e non marxisti, tra il rosso del mondo del lavoro, il viola delle donne in lotta, il giallo della diversità culturale e linguistica, il blu del movimento per la pace e il verde dell’ecologismo. Contagio tra generazioni, tra tematiche e discipline, tra sapienti e apprendisti, tra ascoltatori e oratori, contagio, e contagio. La ripugnanza di fronte alla guerra, l’orrore per la politica di Sharon, la sensazione che realmente il tempo preme per fare qualcosa per il mondo, l’indignazione per il lavoro scarso e precario, tutto questo univa a gente diversa senza bisogno di troppi accordi scritti. Gli unici accordi sono il rifiuto della globalizzazione neoliberale, del razzismo e della guerra, così come il rispetto di una serie di norme di funzionamento interno. Questa formula, che nasconde cose molto più profonde che tutti conoscono, ma che ognuno può interpretare a modo suo, sta permettendo di allargare rapidamente la rete di partecipanti. Solo la pluralizzazione di modi di vita, di ambienti politici mutevoli e di situazioni di diseguaglianza generati dalla crisi del fordismo e dal “capitalismo flessibile” hanno potuto preparare il terreno per questa impressionante esplosione di diversità.


[1] Elmar Altvater, nell’intervista con Joachim Bischoff e Richard Detje in Sozialismus (nov. 2002, p.15).