Firenze ‘02: Altre Europe sono possibili. Costruire l’opposizione alla barbarie del capitale

Armando Fernández Steinko

Firenze segna un’inflessione. La globalizzazione neoliberale sta trasformando questo mondo in qualcosa di insopportabile, ma, se il socialismo dell’Est ha fatto piangere, quello del centro-sinistra comincia davvero a far morire dal ridere. Il prima e il dopo che potrebbe marcare Firenze non è tuttavia facile da definire; esistono solo pochissimi avvenimenti storici che rendono possibile identificare con certezza un prima e un dopo rispetto ad essi, mentre altri, come l’11 settembre 2001, accelerano piuttosto processi già in atto da alcuni mesi o anni. Il Forum Sociale di Porto Alegre ha segnato il punto di partenza, anche se nemmeno tanto, dal momento che Porto Alegre I, a sua volta, è stato il risultato di una serie di piccole esperienze di cambiamenti innovativi che si sono affermate e perfezionate negli anni, e che vanno dalla peculiare Rivoluzione Zapatista fino alle premesse insite in Brasile. Cosa insegna la storia dei movimenti sociali? Qual è la novità di Firenze, oltre il superamento di qualsiasi previsione di partecipazione e creatività, oltre che la maturità politica e intellettuale di quasi tutto ciò che è stato detto, discusso e proposto, oltre che il fatto che la manifestazione contro la guerra del 9 novembre ha veramente riunito circa 750.000 persone diverse, mescolate e unite come abbiamo potuto testimoniare tutti noi che eravamo lì, senza ingannare nessuno?

Certamente, Firenze ha molte caratteristiche in comune con i grandi movimenti sociali che hanno modificato il volto dell’Occidente, addomesticato la sua economia selvaggia o che addirittura sono riusciti ad abbattere il capitalismo. In primo luogo, possiede in comune con questi la combinazione di protesta contro la guerra e protesta sociale e lavorativa, che riunisce improvvisamente settori delle classi medie, operaie, delle donne e giovani in un amalgama molto potente. Questa combinazione, che solo nel minor numero dei casi ha portato un cambiamento rivoluzionario, ma che in molti altri ha radicalmente ridefinito il gioco politico, o, almeno, ha preparato il terreno per cambiamenti più profondi, si è avuta sia durante la Rivoluzione Russa del ’17, sia nella Germania del ’18, sia durante la Settimana Tragica di Barcellona (1909) e durante lo Sciopero Generale nella Spagna del 1917, sia nei grandi movimenti antifascisti del 1944-1950, che nelle proteste contro la Guerra del Vietnam del 1968. Questo stesso amalgama si è ripetuto a Firenze e solo esso spiega l’affluenza massiva alla manifestazione di sabato 9 di novembre contro la Guerra in Irak.

In secondo luogo, a Firenze si è verificato un nuovo avvicinamento tra gli obiettivi di coloro che scelgono delle forme di partecipazione e di lotta più dirette e coloro che scelgono una lotta più istituzionale con, in effetti, una chiara preponderanza dei primi. Il discredito delle istituzioni politiche, che sta portando un aumento dell’astensione e del disinteresse per la politica in Europa, ha dato molta più voce a coloro che scelgono di partecipare “alla base” (da gruppi ecologisti, a ONG, da iniziative cittadine di ogni tipo fino ad organizzazioni dichiaratamente antistituzionali, da gruppi marxisti o libertari fino a sindacati “di base”), che alle organizzazioni più moderate e istituzionali. I partiti di centro-sinistra, screditati dal loro triste ruolo nella seconda metà degli anni Ottanta, si sono fatti notare piuttosto per la loro assenza e, anche se in misura minore, anche i grandi sindacati europei. A Firenze, però, questa eterna dicotomia si è nettamente temperata, una sorta di “ammorbidimento” che si è dovuto produrre anche affinchè si consolidassero i tre grandi cicli di protesta che ha conosciuto il XX secolo (1917-1924, 1944-1950 e 1968-1980). La Rivoluzione Russa non avrebbe potuto trionfare se l’ancestrale cultura russa dell’autorganizzazione cittadina (soviets) non si fosse imposta alla scelta istituzionalista dei menscevichi, ma nemmeno se molti dei muri che separavo menscevichi e bolscevichi non si fossero ammorbiditi, almeno nei primi mesi del 1917. La Rivoluzione Tedesca è nata a margine del settore maggioritario del SPD, però, sebbene questo l’avrebbe poi tradita, non avrebbe nemmeno trionfato se le organizzazioni operaie e sindacali maggioritarie non si fossero unite ad essa in massa. Le lotte antifasciste a partire dal 1944 sono incominciate in Italia, Francia e nei Balcani come guerre di guerriglie, ma i partiti, con la loro disciplina e la loro organizzazione, erano dietro di esse con le loro reti di intellettuali, militanti organizzati e resistenti di ogni genere. Anche il ’68 è nato nella base, nella base delle fabbriche e nella base delle università e dei quartieri, ma si è visualizzato soprattutto attraverso leggi, proposte e riforme sociali delle quali ancora beneficiamo quando una parte della socialdemocrazia si è unita ad esse, con l’obiettivo di frenare la pressione della sua ala sinistra, sebbene anche in questo caso per appropriarsene elettoralmente e poi dimenticarle troppo presto. La lotta senza quartiere tra istituzionalisti puri e antistituzionalisti puri che conosciamo degli anni Settanta o anche degli anni Ottanta e Novanta (nei primi tentativi di creare i vari Forum Sociali/Movimenti Antiglobalizzazione di Barcellona e di Madrid continuano ad essere vive), è stata sospesa, grazie alla rettifica di alcune organizzazioni di tipo tradizionale (come Rifondazione Comunista, speriamo anche Izquierda Unida, il PCE e altre), ma soprattutto grazie alla forza delle iniziative cittadine che hanno in parte accantonato gli inganni dei vecchi meccanismi fordisti della rappresentanza politica.

Terzo. Firenze non è il risultato del lavoro e dell’impegno di una generazione o di un gruppo sociale determinato che domina pesantemente sugli altri; è vero che quelli che predominavano erano i giovani universitari, come nel 1968, però era ben rappresentata anche la generazione intermedia, quella che ha fatto il Terzo Ciclo e quella di coloro, come noi, cresciuti politicamente negli anni Ottanta. Il peso dei giovani è sempre stato decisivo. Le città più rivoluzionarie d’Europa nel 1917 erano, non a caso, le più giovani (San Pietroburgo, Barcellona e Berlino, in questo momento non ho dati per Torino e altre), pertanto quella del ’68 non è stata la prima rottura che ha avuto le nuove generazioni come protagoniste, anche se è vero che solamente verso gli anni Sessanta i giovani creano identità e culture proprie. La gioventù non protesta per capriccio, lo fa perchè può veramente guadagnarci di più che gli adulti, perchè investe maggiormente in un futuro che si estende davanti ad essa per un numero di anni maggiore di quello davanti ai più vecchi. Poi vi sono le donne che, in attesa di studi più sistematici, ho l’impressione che a Firenze fossero almeno numerose quanto gli uomini. Le donne sono state decisive nella Rivoluzione Russa esattamente come lo sono state nella lotta per il suffragio universale che nella Finlandia del 1906 dette loro per la prima volta il diritto al voto (la Finlandia era stata fino a quegli anni una colonia della Russia), così come lo sono state nella Settimana Tragica di Barcellona, che rappresenta una pietra miliare per la storia dei movimenti sociali in Spagna. L’inserimento di migliaia di donne nel lavoro remunerato nella maggioranza dei Paesi che hanno partecipato alla Prima Guerra Mondiale (i casi di Francia e Russia sono emblematici, ma anche quelli della Germania, la Gran Bretagna e degli Stati Uniti) è stato importante per riuscire a rompere l’ordine politico e, in parte, economico del XIX secolo, quasi quanto la forza organizzata del movimento operaio. La storia si è ripetuta di nuovo verso il 1944, quando milioni di donne si sono inserite nella lotta antifascista, rompendo con molti schemi, ruoli e comportamenti legati alla famiglia tradizionale, ermetica e sempre molto poco aperta agli avvenimenti cittadini. Le donne, e il movimento femminista in generale, sono state decisive anche nel ’68, come tutti sanno, e le donne, che oggi hanno un’importanza almeno quanto quella degli uomini tra gli universitari nei Paesi del Sud d’Europa, sono ancora una volta fondamentali, tanto che non appare strano che siano state così numerose a Firenze.

L’aspetto che è stato più nuovo dal punto di vista storico, più originale, è che a Firenze le parti non si sono messe a litigare in una discussione tra radicali e riformisti (molto diversamente da quanto è successo nel 1968 e nel 1917, anche se non per quanto riguarda il 1944), tra il semplice rifiuto del capitalismo e la sua accettazione dogmatica; a Firenze, come a Porto Alegre, ha trionfato il sì sul no, hanno trionfato le proposte capaci di unire la critica di ciò che esiste sul solo rifiuto di qualcosa che non si vuole, ma di fronte a cui non si hanno molte alternative possibili. La maggior parte delle proposte fatte nei migliaia di forum e gruppi di discussione ha portato ad una messa in discussione, non tanto radicale solo a livello verbale, quanto profonda e meditata, del sistema vigente. Quello che si chiedeva è semplicemente impossibile da ottenere all’interno dell’attuale sistema capitalista; se la sicurezza socioeconomica nel suo significato più ampio, la sostenibilità, la diversità culturale e la pace sono gli obiettivi che quasi tutti considerano auspicabili e necessari per fare quegli “altri mondi possibili”, sembra molto difficile che tutto ciò si possa realizzare partendo dalle grandi leggi che regolano oggi l’economia e la società. Firenze lascia un’altra lezione, per gli altri, già scritta da più di qualcuno negli ultimi anni: che “il capitalismo non verrà abolito semplicemente collettivizzando la proprietà privata, come forse si era creduto prima, ma che è necessario creare e praticare modi di vita (produzione, consumo, tempo libero) che superino lo stesso capitalismo” [1]. Questo “socialismo quotidiano” (Enric Tello) non richiede molta fraseologia rivoluzionario-di rottura, semplicemente lo è in sè, la si definisca così o in un altro modo. Vivere in un modo determinato, produrre, intervenire nella società, consumare, diventano in questo modo un processo più “radicale” di molte delle grandi frasi che tutti conosciamo.

Altre novità che ho potuto riscontrare a Firenze rispetto all’ultimo ciclo di protesta (1968-1980), del quale siamo figli io e molti altri che sono stati lì, sono le seguenti:

Primo, la combinazione di mancanza di prospettiva lavorativa e di alte qualifiche tra i giovani. I giovani degli anni ’70, almeno quelli della classe media, erano certamente molto più qualificati di quelli prima di loro; come gli europei di oggi, essi hanno usufruito di un sistema pubblico d’istruzione che in quegli anni aveva già lasciato tracce profonde nella coscienza collettiva (cultura generale, conoscenza del mondo, delle strutture politiche ed economiche, ecc.). Tuttavia, a differenza di quei giovani, cresciuti in un contesto di abbondanza e crescita quasi ininterrotte, i giovani di Firenze hanno un futuro professionale affatto spianato. La crisi del 1975 ha diminuito molto le prospettive di vita dei giovani contestatori di allora; ma verso il 1975 il ciclo di protesta incominciava ad esaurirsi proprio a causa del problema della disoccupazione, della precarietà e del principio del “si salvi chi può” che ha colto alla sprovvista una protesta che in realtà nuotava sull’onda dell’abbondanza dello sviluppo fordista e che non è riuscita a trovare una formula unitaria per infrangere i modelli della rigidezza della democrazia fordista. Oggi, al contrario, disoccupazione, mancanza di prospettiva professionale e protesta giovanile si uniscono di nuovo in un cocktail di politicizzazione generale dei più interessati, che, semmai, assomiglia di più a quanto è successo durante il Primo Ciclo di Protesta (1917-1924), che a ciò che si è visto durante il Terzo, più vicino cronologicamente. Questo spiega l’avvicinamento spontaneo di culturale-verde e viola e altri colori, con il vecchio colore rosso del lavoro, avvicinamento che, nella maggior parte dei paesi, non ha in realtà smesso di riferirsi agli anni Settanta, nonostante la retorica propria della classe operaia di molte delle “sette” (e “non sette”) politiche di allora.

In secondo luogo, vi è l’impressionante varietà di iniziative, organizzazioni, reti e associazioni di ogni tipo che sono confluite a Firenze. Firenze è stata l’irruzione definitiva della pluralità, della diversità, della creatività collettiva, un trionfo che viene da Porto Alegre I e II, ma che solo in un continente così diverso e multiculturale come quello europeo poteva arrivare ad essere tanto incisivo. E non solo questo, perchè questo, in sè, non porta ad un nuovo ciclo di protesta, dal momento che può anche portare alla sua divisione e indebolimento, come è successo verso il 1970, o anche alla sua autoliquidazione per colpa dei settarismi e degli scontri tra grandi organizzazione politico-sindacali, le iniziative più di base e tra le stesse iniziative di base tra loro. Firenze ha seguito la geniale parola d’ordine di Porto Alegre di autodefinirsi piuttosto come uno spazio di incontro e di elaborazione di proposte, piuttosto come un processo di ricerca collettiva, piuttosto come una sorgente di creatività trasversale che cerca un’alternativa alla globalizzazione neoliberale, che come un punto unificatore ed “accumulatore di forze” nel senso tradizionale del termine. In questo aspetto risiede molta della novità, perchè riguarda i modi di costrurire dei contropoteri. Anche gli incontri specializzati di universitari, di sindacalisti o di ONG celebrati negli ultimi anni per tutto il pianeta in lungo e in largo avevano dato origine a proposte e scambi importanti di iniziative, modelli e proposte, ma nessuno di essi era stato capace di scatenare effetti-domino paragonabili a quelli visti a Firenze; solo la trasversalità dei dibattiti, delle età, delle iniziative e dei progetti ha permesso una diffusione dello stimolo a creare collettivamente.

Ma non solo. Firenze non è stata solamente pluralità, ma anche confluenza di diversità che si annodano e si ramificano di nuovo in capillarità diverse per esplorare nuove tematiche e strategie, per attrarre più gente nuova. È un movimento di movimenti generatore di consensi, consensi che risultano innovatori, per il sistema che li origina, per rompere i modelli unificatori di ciò che si intende generalmente per “consenso”. A Firenze c’erano cinque lingue ufficiali (italiano, spagnolo, francese e inglese) con il dominio dell’italiano nello stesso modo in cui Porto Alegre è riuscito ad adottare lo spagnolo come lingua libera rispetto all’inglese e non per nulla, ma semplicemente perchè la maggioranza parlava o capiva lo spagnolo. Questa accettazione delle regole della diversità in un ambito così problematico e tanto costoso economicamente come quello della lingua (i traduttori simultanei costano molto) ha dato un segno distintivo a Firenze, come lo aveva dato a Porto Alegre e, se si consolida questa linea, è probabile che dovremmo fare un’incursione strategica nell’arabo nel prossimo Forum Sociale del Mediterraneo, in modo che si potrebbe ampliare in maniera esplosiva le adesioni da parte del dimenticato, sconosciuto e maltrattato mondo arabo. Ma il fatto curioso è che questa diversità linguisttica non ha impedito la comunicazione. Certamente, la diversità obbliga ad imparare le lingue, certamente questo richiede uno sforzo addizionale di traduzione simultanea, certamente sarebbe stato più economico tradurre tutto in inglese; tuttavia lo sforzo ha meritato la pena, anche solo per il potere simbolico delle mescolanze linguistiche. La multiculturalità ed il plurilinguismo, che è una delle sue espressioni più dirette, hanno un’enorme capacità di unire, di maggiore coesione e agibilità, di certificare una diversità, di tradurla in creatività, una creatività che poi restituisce con gli interessi tutto ciò che si è investito in essa. Ho sempre pensato che il fallimento della transizione spagnola, il fallimento della costruzione di uno spazio multiculturale, si debba all’incapacità degli Spagnoli delle zone solo parlanti castigliano di apprendere le lingue, le lingue peninsulari e il Foro Sociale Europeo non ha fatto che confermarmelo. Non esiste possiblità di generare consensi senza distruggere il particolare, se non esiste una disposizione di fondo a convivere con diverse lingue, e non solo la lingua (naturalmente, l’inglese oltre al proprio).

Firenze ha generato consenso nonostante tutto, ma un consenso che non ha nulla a che vedere con il “Consenso di Washington” basato sulla omologazione imposta dalla società del denaro, sulla prepotenza dell’inglese e sull’egemonia culturale dell’area anglosassone. La parola di moda lì, sulla moquette dove dormivano i ragazzi arrivati da lontano con i sacchi a pelo, pochi soldi e il loro incrollabile ottimismo è la parola “contagio”. Contagio tra Paesi, culture e credi, contagio tra programmi marxisti e non marxisti, tra il rosso del mondo del lavoro, il viola delle donne in lotta, il giallo della diversità culturale e linguistica, il blu del movimento per la pace e il verde dell’ecologismo. Contagio tra generazioni, tra tematiche e discipline, tra sapienti e apprendisti, tra ascoltatori e oratori, contagio, e contagio. La ripugnanza di fronte alla guerra, l’orrore per la politica di Sharon, la sensazione che realmente il tempo preme per fare qualcosa per il mondo, l’indignazione per il lavoro scarso e precario, tutto questo univa a gente diversa senza bisogno di troppi accordi scritti. Gli unici accordi sono il rifiuto della globalizzazione neoliberale, del razzismo e della guerra, così come il rispetto di una serie di norme di funzionamento interno. Questa formula, che nasconde cose molto più profonde che tutti conoscono, ma che ognuno può interpretare a modo suo, sta permettendo di allargare rapidamente la rete di partecipanti. Solo la pluralizzazione di modi di vita, di ambienti politici mutevoli e di situazioni di diseguaglianza generati dalla crisi del fordismo e dal “capitalismo flessibile” hanno potuto preparare il terreno per questa impressionante esplosione di diversità. -----

In terzo luogo, vi è il carattere tanto chiaramente globale della protesta, che possiede anch’esso molto di nuovo; è vero che anche il ’68 è stato una catena di avvenimenti che hanno percorso il mondo in tutte le direzioni, da Praga a Parigi, da Città del Messico alla California, dal Nord Italia al margine sinistro del Nervión ed i quartieri periferici di Madrid e Barcellona, ma il movimento contro la globalizzazione neoliberale nasce in un altro momento storico, sulla base di altre forze produttive, con un altro livello di sviluppo dei valori d’uso, di distruzione delle risorse non rinnovabili, ecc... Senza le tecnologie dell’informazione e senza internet non sarebbe stato possibile che persone tanto diverse e variopinte confluissero a Firenze. Tuttavia, ancora più importante di tutto questo è il fatto seguente: senza la riorganizzazione produttiva delle imprese capitaliste che hanno trasformato il mondo in una rete complessissima di imprese “subcontrattate” e “subsubcontrattate” unite tra di esse da autostrade, Oceani e da combustibile a basso prezzo, una rete il cui cuspide si trova nei centri del potere economico e finanziario, ma che danno origine ad una crescente concentrazione dei risultati del lavoro di milioni di persone in tutto il mondo (tra cui molti bambini) in alcuni gruppi sociali che vivono nei quartieri residenziali dei Paesi del primo mondo. Senza tutto questo, non ci sarebbe modo di proporre in maniera così visibile il carattere planetario dei meccanismi di sfruttamento capitalista. Solo la combinazione tra tecnologie dell’informazione e globalizzazione finanziaria, che dà un’ubiquità quasi da infarto ai processi economici e che vincola i processi più locali, più quotidiani che riguardano genti di tutto il mondo alle decisioni di un Greenspan o al cambiamento del prezzo del petrolio, spiega quel nuovo cosmopolitismo affatto ricercato, affatto costruito, ma sentito, intimo e naturale che è sbocciato nella città-fiore di Firenze.

Infine, c’è un’altra novità che non è esistita in forma analoga nè nel 1917, nè nel 1944 nè intorno al 1970, ma che è invece entrata con forza questa volta: il rapporto tra le questioni di classe, che a loro volta creano una determinata cultura politica molto vincolata ad organizzazioni di classe, e ciò che si potrebbe definire le “questioni universali”, come l’ecologia, i modi di vita e di consumo, la pace, il rapporto Nord-Sud o la democrazia. Questa affinità, ancora non esplorata sufficientemente dai sindacati (inibizione che comincia a diventare una vero e proprio atto di irresponsabilità) è emersa in maniera significativamente naturale a Firenze. Sia grazie all’apporto dei “vecchi” partiti e sindacati di sinistra che continuano a considerare seriamente - a torto o a ragione - il mondo del lavoro, sia attraverso tutte le migliaia di iniziative per la creazione di economie sociali e solidali, movimenti di cooperazione, imprese di commercio equo e solidale, iniziative per il controllo della attività di multinazionali, ecc, che iniziavano le conferenze dicendo che “altre imprese sono possibli”. L’analisi di classe non è stata affievolita a causa del punto di vista universalista nè i punti di vista che hanno al centro della propria prospettiva l’umanità intera non si sono negati ad introdurre questioni di classe nell’analisi e nella pratica, ma entrambi si sono ampliati e completati mutuamente. E questo è nuovo, o almeno è nuovo il fatto che questo scambio sia stato maggioritario e spontaneo. È vero che le richieste di soluzione dei problemi universali che riguardano tutti i gruppi e le classi sociali non sono nulla di nuovo; la militanza contro la guerra negli anni del Primo Ciclo di protesta nasce nel movimento operaio, ma si diffonde in tutta la società mano a mano che si accumulano le vittime e la distruzione, mano a mano che tutti, e non soltanto gli operai, escono perdenti dalla guerra. Non è nemmeno nuova l’esistenza di gruppi creatisi intorno a problemi globali che affettano tutte le classi sociali e che, pertanto, non vanno molto d’accordo con i sindacati ed i partiti di classe. Questo proliferare di gruppi legati a problemi di genere, mediambiente, rapporti Nord-Sud, ecc... si è verificato anche nel ’68. Ma un’altra delle novità promettenti di Firenze è che la maggioranza ha scelto una complementarità tra analisi di classe e analisi “universalista”, mettendo fine a degli schieramenti opposti che sono diventati sempre più assurdi mano a mano che il capitalismo mostra il suo lato più puro e con l’aumento della sua capacità distruttiva.

Tutto questo, inoltre, fissa un termine nella storia recente dei movimenti sociali. Durante il Terzo Ciclo di Protesta le questioni universali erano relativamente contrapposte alle questioni sociali, di classe. Con alcune eccezioni, il movimento operaio organizzato non ha saputo o non ha voluto capire intorno al 1970 tutto quello che, almeno potenzialmente, lo univa a ciò che allora si cominciava a chiamare “i nuovi movimenti sociali”. Bisogna comunque dire che esisteva un motivo specifico per questo blocco: il benessere sociale, anche quello che cominciava a conquistare la classe operaia, era costruito su forme di consumo e di produzione predatorie, perfino su una aggressività militare che era quella che permetteva di assicurare posti di lavoro grazie alla conquista di mercati neocoloniali e alla riduzione dei costi delle materie prime. Questo spiega la complicità cinica anche di una parte dell’ala socialdemocratica del movimento operaio con le politiche aggressive dei rispettivi governi, complicità che incarna perfettamente il percorso del “nostro amato” Javier Solana. Oggi, però, il disastro ambientale non si verifica più unito al progresso sociale come negli anni Settanta, la distruzione della biosfera non porta più nella stessa maniera alla democrazia economica in casa; i nuovi contestatori non sono figli di papà con un futuro lavorativo relativamente assicurato, ma giovani con poche prospettive, con molte più conoscenze di quelle che possono applicare sul lavoro e nella vita quotidiana. Sono giovani che non devono andare in guerra come nel 1914, ma la cui precarietà sociale e lavorativa assomiglia molto all’incertezza che vivono le masse del Sud che vivono inoltre un deterioramento simultaneo sia delle proprie condizioni di lavoro, che del proprio intorno ambientale, sia delle condizioni consumo che delle condizioni di vita in generale.

Tuttavia, penso che per continuare a parlare di Firenze 2002, la cosa migliore sia commentare un volantino preso a caso tra tutti i migliaia che sono stati distribuiti da uno di quei gruppi e iniziative che pullulavano nella Fortezza da Basso e nelle sue vicinanze. Il volantino incomincia così: “Il CONSUMO gioca una parte fondamentale nel mondo attuale. Mentre facciamo la spesa possediamo tutti un potente strumento a nostra disposizione per scegliere che tipo di mondo desideriamo. OGNI ACQUISTO è UNA SCELTA Politica ed abbiamo tutti la possibilità di incidere attivamente sulla realtà che ci circonda” (evidenziato nell’originale). E continua “Il Gruppo di Consumo Critico del Firenze Social Forum è un GRUPPO DI AFFINITA’ (maiuscolo nell’originale). Questo significa che non siamo semplicemente un gruppo politico: ci sentiamo uniti precisamente da un forte sentimento condiviso, che non nega le nostre differenze. Anche se il nostro comportamento verso noi stessi, il territorio e la società possiede un forte contenuto politico, non parliamo mai dell’ideologia: pensiamo che la nostra azione sia trasversale rispetto alla politica e che tematiche universali (evidenziato nell’originale) come il trattamento dei rifiuti, la valorizzazione delle risorse, la qualità dell’aria e dell’acqua, la difesa ambientale e le condizioni di vita e di lavoro siano importanti per tutti”. Penso che questo volantino contiene alcuni elementi nuovi, nuovi almeno per la loro presenza generalizzata nel Forum. Se riusciamo a decifrarli, avremo potuto definire l’originalità di Firenze.

Primo: l’autodeterminato “Gruppo di Consumo Critico” non è un’organizzazione definita solamente in funzione di profonde convinzioni comuni che la caratterizzano verso l’esterno (“forte sentimento condiviso”), che delimitano il suo territorio rispetto al resto della società generando coesione interna di fronte a terzi, ma che, inoltre, riconsce e convive con proprie differenze interne (“che non nega le nostre differenze”). La forte affinità verso l’interno, coesiste, apparentemente senza problemi, con il riconoscimento della diversità interna e del diritto a dissentire.

Secondo: il gruppo non nega il proprio sentimento politico (“il nostro comportamento verso noi stessi (...) ha un forte contenuto politico”). Tuttavia, il senso che qui si vuole dare al termine “politico” sembra essere al di sopra di ciò che si intende tradizionalmente per “politica” (“pensiamo che la nostra azione sia trasversale rispetto alla politica” e “ogni acquisto è una scelta politica”), ossia supera la sua definizione formale, estende l’esperienza di ciò che è politico a molti dei piccoli atti individuali e quitidiani. Il gruppo rifiuta così la nozione di politica intesa come somma di spazi specializzati e separati a livello organizzativo dalla quotidianità, le persone in quanto esseri politici, ma non la politicizzazione in sè. L’idea che “un’altro modo di consumo è possibile” è proprio un nesso ideale che permette di collegare i piccoli comportamenti nella vita quotidiana, con i grandi avvenimenti che provocano tanto dolore al mondo, nesso che nello stesso tempo diventa une leva efficace per trasfomarlo (“abbiamo tutti la possibilità di incidere attivamente nella realtà che ci circonda”). La “politicizzazione” della vita quotidiana, intesa come una serie di comportamenti individuali e soggettivamente implicati (“gruppo di affinità”), ma persistenti, ossia, con una coerenza, una particolare carica morale e supportata da una determinata analisi della situazione globale del mondo, non diminuisce, ma al contrario, trascende l’idea di ciò che è politico, la rende meno formale e cinica, la socializza, la diluisce nell’intera pratica sociale. Da quel che mi risulta, negli ultimi anni solamente il “nazionalismo militante” e una parte delle ONG hanno saputo elevare il politico fino ad una pratica quotidiana, trasversale e persistente in un modo simile. La differenza tra quello e ciò che abbiamo visto a Firenze è che quest’ultimo è essenzialmente universalista, multiculturale, e includente mentre il nazionalismo militante è essenzialmente escludente. Stiamo assistendo al ritorno di ciò che ho chiamato la “cultura politica del massimalismo democratico” [2].

Terzo: Per questo gruppo i problemi universali non sono contrapposti a tutte quelle preoccupazioni classiche del movimento operaio e dei lavoratori salariati moderni (“pensiamo che (...) le tematiche universali come il trattamento dei residui (...) e le condizioni di vita e di lavoro siano importanti per tutti” e “attraverso il boicottaggio delle multinazionali che sfruttano i lavoratori”). Qui il rosso (lo sfruttamento del lavoro umano) non si inserisce in un contesto isolato dal verde, dal rapporto Nord-Sude, ecc..., ma tutto l’opposto: esiste un insieme di tematiche e problemi interconnessi che sono quelli che stanno rendendo il mondo irrespirabile, temi che conflusicono (come la prospettiva di questo gruppo di consumo critico) in un determinato modo di comprare e consumare, ma che nascono da molti altri come quello delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone nel mondo.

Questa trasversalità, questa affinità culturale, geografica e sociale che sprizza senza troppa retorica, senza troppo intellettualismo avanguardista da questo volantino, doveva apparire, prima o poi, come idea base affinchè si riprendessero i movimenti di protesta, e non solo come effetto della globalizzazione neoliberale, che poteva portare la gente a pensare in questo modo a causa dell’aumento dell’integrazione economica del mondo, dell’abbassamento del costo della comunicazione. Vederlo in questo modo sarebbe, ancora una volta, cadere nel facile determinsimo; la spiegazione è secondo me più complessa, più ideologica e più immediata allo stesso tempo. Il frazionamento del sapere, del pensare, della pratica sociale, la separazione in compartimenti degli spazi di vita nei territori ultracompetitivi e nelle città neoliberali, la creazione di ghetti come forme dell’organizzazione della quotidianità e delle mentalità, sono le cause fondamentali e quotidiane dell’inquetudine che vive il mondo, cause che, evidentemente, hanno una forte spiegazione anche economica. Solamente rompendo molti dei modi di pensare lanciati dai postmoderni, solamente curando il pensiero “mutilato” che impedisce di “vedere”, cioè capire, analizzare, dimostrare e trasmettere il carattere insostenibile della situazione attuale, e tutto ciò nonostante la realtà non smetta di darci ogni giorno prove empiriche e anche immagini di questa situazione, solamente la distruzione del filtro ideologico che separa i “consumatori” occidentali dalla realtà mondiale e locale in cui vivono, ha potuto condurre a ciò che si è verificato a Firenze [3]. Doveva trionfare la convinzione che l’individualismo neoliberale non ha nulla a che vedere, ma proprio nulla, con l’individualità solidaristica che si è vista a Firenze. Doveva diventare egemonica la sensazione che le istituzioni e le urbanizzazioni della classe media/alta sorvegliate da guardie giurate non hanno nulla a che vedere con le migliaia di tasselli di identità che possono convivere in armonia in un mondo finito formando un grande mosaico multiculturale. Ognuno doveva sentire dentro di sè che il frazionamento postmoderno e quella stupida avversione a “tutto” con cui Fernando Savater ci ha venduto il termine della emancipazione individuale, non hanno nulla a che vedere, ma proprio nulla, con la pluralità sociale e identitaria che impara ad autoregolamentarsi. La libertà individuale con cui agiscono le persone che sono confluite a Firenze non è nemmeno nulla che assomiglia alle categorie di “consumatore” e di “produttore” atomizzati che crea il pensiero neoclassico-liberale, che si spiega nelle facoltà universitarie e si diffonde senza necessità nei mezzi di comunicazione: la specializzazione dei politici professionali di uno e dell’altro schieramento che i mezzi di comunicazione spacciano per la politica con conseguenze disastrose per la partecipazione elettorale, non hanno neanche essi a che vedere con il modo di “vivere” la politica che abbiamo letto in quel volantino del gruppo di consumo critico. Definire, o meglio, intuire e “sentire” chiaramente queste differenze era assolutamente necessario affinchè si riprendesse l’opposizione a questa barbarie in cui si sta trasformando il mondo. L’egemonia di questo sentimento ha fintio per arrivare entrando ed uscendo tra il 6 ed il 9 novembre nella Fortezza da Basso di Firenze.

Abbiamo detto che i Forum Sociali sono spazi prima di tutto, ma non spazi astratti come quelli che formula la società neoliberale, ma spazi concreti, geografici, territori con avvenimenti sociali, con una struttura della convivenza, con una storia. Il valore simbolico di Porto Alegre si fonda nel fatto che è una città media qualsiasi del Paese del mondo con maggiore differenza tra poveri e ricchi. Non è una capitale importante, non è un luogo che abbia potuto raccogliere un ruolo di protagonista di rilievo nel campo della storia, sebbene adesso faccia già parte di essa.Qual è il valore simbolico di Firenze, città toscana con un’identità, una cultura, una territorialità concrete?

Firenze, e il Nord Italia in generale, sono sempre stati esempi di spazi aperti, rappresentativi di un modello di civilizzazione policentrico e multiculturale che perdura fino ad oggi. Questa forma di organizzazione contrastava, già nel Medioevo, con quella di territori come Francia, Germania o Spagna, che eraano molto più influenzati dalla uniformità religiosa e feudale, dagli onnipotenti ordini monastici e della cavalleria. Gli artisti fiorentini, pisani, senesi, bolognesi, veronesi e padovani viaggiavano da una città all’altra, si facevano spesso visita tra loro, approfittando delle corte distanze e della varietà dei singoli microclimi urbani. Lo facevano imparando e assorbendo estetiche e modi diversi che, riannodati in una nuova sensibilità, hanno dato vita nientemeno che all’Età Moderna. La novità del Rinascimento non è però il naturalismo, che già esisteva nel Medioevo, e nemmeno l’individualismo, che sorge già prima in qualche angolo dell’Europa. La novità è che questo individualismo diventa nella Toscana del Quattrocento uno strumento di lotta, un grido di guerra. La novità nell’arte toscana di quegli anni è che l’individualismo smette di essere una goccia in più in un immenso, invertebrato e illimitato oceano come ai tempi del gotico, tempi paragonabili all’Oceano del caos, maree nere e barbarie senza frontiere visibili, che è ciò che sta oggi diventando il mondo. La novità del Quattrocento è che, per la prima volta, quell’individualismo e quel naturalismo diventano parte di una strategia per contemplare il mondo comprendendo contemporaneamente tutte le sue parti, uno strumento di addomesticazione di uno spazio, di una luce e di un colore che fino ad allora sembravano non addomesticabili con o senza naturalismo/individualismo. La prospettiva unitaria, che nasce proprio a Firenze, è lo stratagemma geniale per riuscirci, per ingabbiare il caos da mondo medioevale. Questa prospettiva si raggiunge facendo sì che il sogggetto assuma un unico punto di vista situato al di fuori del quadro dal quale può abbracciare con lo sguardo tutta la realtà. Non però disfacendosi nel caos del mondo come ai tempi del gotico, non diluendo la certezza del mondo in relativismo nello stile postmoderno, ma organizzando il mondo, razionalizzandolo, sistematizzandolo per affrontarlo e migliorarlo [4]. Senza questa rivoluzione culturale che rende la razionalizzazione che comprende un grido contro il caos ed i modi di produzione precapitalisti, non sarebbero stati possibili nè il capitalismo, nè la scienza, nè le burocrazie moderne con i suoi eserciti, ma nemmeno sarebbe stata possibile la cultura politica dominante nel XX secolo, dal neoconservatorismo democratacristiano fino alla socialdemocrazia ed il socialismo che trionfa negli anni Venti in Russia e si spacca clamorosamente nel 1990. -----

Il rifiuto della prospettiva unica basata sull’individualismo razionalista, che successivamente si è evoluto fino all’individualismo possessivo della rivoluzione industriale perdendo i suoi contenuti umanisti, inizia con la rivoluzione delle arti all’inizio del XX secolo. La pittura era stata il mezzo d’espressione che aveva saputo esprimere meglio la nuova sensibilità rinascimentale nella Firenze di Giotto e la pittura fu ancora una volta la prima a metterla radicalmente in dubbio, con il cubismo di Picasso e Braque, anche se tutte le arti lo faranno poco tempo dopo. Il cubismo, l’idea del “collage” che lo accompagna, scopre che l’unicità del punto di vista è relativa, che la realtà è troppo complessa per poter essere osservata interamente da un unico punto di vista statico. Questa scoperta nel modo di trattare lo spazio visuale ha il suo equivalente nella teoria della relatività con cui Einstein e compagnia fanno esplodere i pilastri della scienza nata nel Rinascimento, pilastri che erano basati anch’’essi sull’osservazione della natura a partire da un punto di vista unico e statico (principi matematici e fisici di Newton).

Il XX secolo è il secolo della democrazia e la democrazia non è altro che la dispersione, tra un numero inteminabile di attori con diritti uguali (“cittadini”) del diritto a decidere nelle questioni politiche, economiche e culturali. La democrazia è la moltiplicazione di punti di vista, attori e opinioni rilevanti. La fine del fordismo, che si sviluppa negli anni ’70 senza che ancora si possa parlare di un nuovo modo relativamente coerente e determinato di regolamentazione sociale dei processi economici (“capitalismo flessibile” [5]), erode la dottrina della unicità e la strumentalità di cui il fordismo è figlio ed anacronistico difensore. L’unica forma di democrazia che è capace di generare il fordismo è quella che riproduce, spesso, i principi della concetrazione del sapere e delle risorse politiche in mano di pochi (professionalizzazione della politica, modelli di democrazia minimalista del secondo dopoguerra mondiale che durano fino ad oggi, concentrazione delle decisioni collettive in squadre negoziatrici specializzate, ecc.). In questo senso, il fordismo è erede di quei principi rinascimentali che, in quelle remote date fiorentine, hanno organizzato una ribellione contro il caos medioevale a partire da questo punto di fuga, da questa unicità che comprende tutto ed è razionalizzante. Questo lo hanno intuito molto presto Adorno e Horkheimer [6], anche se hanno diffuso infinite confusioni, mettendo nello stesso sacco i contenuti umanisti dell’inizio del Rinascimento e la sua degradazione tardo-capitalista a partire dal 1890.

Perpetuare oggi uno sistema lineare e univoco di visione, comprensione e soprattutto di gestione del sociale diventa sempre più difficile, in un mondo policentrico, multiculturale e vario. Una parte di questa ribellione contro le grandi infrastrutture di rappresentanza create intorno al 1950 -siano esse partiti, sindacati, collegi professionali o gli stessi parlamenti- che stiamo vivendo ora, è sintomo di un lungo declino dell’ordine creato dal Rinascimento, quell’ordine che intorno al 1890 entra in una veloce spirale di degrado con la trasformazione del capitalismo in imperialismo, con il trionfo del pensiero neoclassico in economia e dell’individualismo metodologico in sociologia [7]. Il Ciclo di Protesta che inizia nel 1968 è stato il primo tentativo cosciente e sistematico di perforarlo, ma il fordismo possedeva ancora riserve di sviluppo e leggittimazione culturale, ambientale ed economica. La postmodernità degli anni Ottanta e la critica dei “grandi racconti” è stato il secondo tentativo di abbatterlo, sebbene la sua alleanza con il neoliberismo gli abbia rubato qualsiasi contenuto emancipatore, sviando la critica della burocrazia verso l’individualismo. Le democrazie partecipative, la così detta Rivoluzione Zapatista, lo stesso movimento no global, che a Firenze ha raggiunto la sua maturità, sono il terzo grande assalto contro una determinata maniera di concepire ed organizzare la vita, il sapere riguardante il mondo, la protesta ed anche la partecipazione, assalto che questa volta si inserisce nel desiderio di creare un proprio spazio al di fuori di questo centro-sinistra europeo e mondiale che fa così ridere.

Questo terzo tentativo potrebbe però vincere solo una volta riusciti a rompere quella paralizzante alleanza tra ribellione contro l’unicità fordista e postmodernità neoliberale. Questa rottura doveva verificarsi in Europa, perchè è stato in Europa dove è nata ed è in Europa dove doveva morire. Firenze è diventato ancora una volta il simbolo di una nuova rottura civilizzatrice, una rottura che sembra, solo sembra, mettere in discussione il principio da cui essa stessa nacque. Il punto di fuga Rinascimentale è stato un programma emancipatore monumentale per la sua epoca così come la moltiplicazione di attori, punti di vista e sorgenti di creatività e sapere, è il grande programma emancipatore di quello che potrebbe essere il Primo Ciclo di Protesta il Millennio.I gruppi come quello del “consumo critico” vogliono osservare la diversità dalla diversità e non dall’unicità di una dottrina determinata rappresentata da uno di quei “politici” professionali. A questi livelli del capitalismo c’è già troppo sapere disperso tra troppe persone che sanno fare molte più cose di quelle che il mercato del lavoro gli permette di fare, per pensare che l’unica forma di generare sapere sia continuare a concentrarlo nelle mani di pochi specialisti, organizzazioni o dogmi. Esistono troppe situazioni di vita diverse, troppe lingue e Paesi, troppi gruppi politici, associazioni, iniziative e circoli per poter credere in una avanguardia con una ipotetica capacità di decifrare il segreto di un già impossibile e unico punto di fuga. Il Forum Sociale di Firenze dimostra che è possibile osservare la complessità del mondo dalla diversità per cercare di trasformarlo, che non esiste uno, ma migliaia di punti di fuga e che quella molteplicità non genera incoerenza, dispersione ed individualizzazione postmoderna come temono ancora i professori politici del fordismo che ancora esitono, ma esattamente l’opposto. Firenze mette nella sua giusta luce l’idea del collage, l’idea della simultaneità e della multifocalità. Sono idee delle quali si erano appropriati i postmoderni e neoliberali per combattere i “grandi racconti”, ma idee che hanno a che vedere maggiormente con il cosmo di “Manhattan Transfer” e “La Colmena” che con morire in un ghetto di Harlem o diventare una “pazza postmoderna”, idee che non escludono la coerenza all’interno della diversità, ma che, al contrario, la necessitano per elaborare una visione del tutto.

In questa minestra, in questo insieme diverso, le teorie e le scelte politiche più adatte alla realtà, con maggiore capacità di prevenire e prevedere i fatti e le dinamiche, i gruppi con maggiore influenza reale, con più capacità di convinzione tra i cittadini, sono quelli che stanno diventando “egemoni”. Ma questo, se succede, sarà il risultato di una selezione naturale, della stessa dinamica tentacolare. Il “movimento dei movimenti” non è controllato da nessun centro (non può esserci qualcosa come una razionalità suprema al di quella che si danno gli stessi attori), è un polipo sociale la cui testa non comanda i tentacoli, ma è mossa verso dove decidono i tentacoli stessi. Lo ha già detto Fausto Bertinotti del Partito della Rifondazione Comunista: “è imprescindibile che nessuna presunta avanguardia si senta tentata di egemonizzare un movimento come questo”. I soggetti della trasformazione sono molteplici, non sono definiti anticipatamente, ma si creano con il movimento stesso. Se è vero che anche nella storia avvengono progressi, il compito principale del XXI secolo sarà quello di mettere in moto una cultura politica così ambiziosa come questa utilizzando tutti i saperi, tutte le esperienza, tutti gli insuccessi e le conquiste che hanno legato a noi sei secoli, a partire da quei primi anni del Rinascimento fiorentino.

NOTE


[1] Elmar Altvater, nell’intervista con Joachim Bischoff e Richard Detje in Sozialismus (nov. 2002, p.15).

[2] Fernández Steinko (2002).

[3] Io ho fatto il mio tentativo in un saggio ancora inedito scritto nel 1997 (“Il sogno del frammento. Fine del secolo e pensiero mutilato”). In esso ricerco le radici intellettuali di questo pensiero e cerco di dimostare la sua importanza pratica per delineare questo mondo impossibile in cui viviamo.

[4] A.Hauser: Storia sociale della letteratura e dell’arte. Ed. Labor, Barcelona 1983, tomo 1, p.341.

[5] Ver Bieling, H.-J./Dörre, K./Steinhilber, J/Urban H.J. (eds.): Flexibler Kapitalismus. VSA, Hamburgo 2001.

[6] Dialéctica de la Ilustración. Trotta, Madrid 1994.

[7] A. Fernández Steinko: El sueño del fragmento. Cap.22).