Rubrica
Eurobang

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Vladimiro Giacché
Articoli pubblicati
per Proteo (16)

Studioso di economia e politica economica

Argomenti correlati

Capitalismo

Capitalismo italiano

Nella stessa rubrica

Cent’anni di improntitudine.Ascesa e caduta della FIAT
Vladimiro Giacché

Automobili, crisi e scontro alla FIAT
Joseph Halevi

 

Tutti gli articoli della rubrica "Eurobang"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Cent’anni di improntitudine.Ascesa e caduta della FIAT

Vladimiro Giacché

Formato per la stampa
Stampa

14. Considerazioni conclusive

1) La mutazione della FIAT: da società industriale a holding finanziaria di partecipazioni

Recentemente, il giornale della Confindustria ha proposto una tesi degna di nota: la crescita dell’indebitamento della FIAT "non è venuta tanto dalla FIAT Auto, passata dai 15 miliardi di euro di esposizione del 1997 ai 17,3 del 2001, quanto dal tentativo di sviluppare e diversificare il gruppo in altri settori per cercare di sostituire con questi la redditività decrescente dell’automobile. Invece di utilizzare la leva debitoria per tentare di riportare in carreggiata la gestione industriale degli autoveicoli, la FIAT ha cominciato ad investire in altri campi". [1] Per converso, "dal 1995 la FIAT ha investito sulle quattro ruote assai meno dei suoi principali concorrenti". [2]

Il punto è questo: dalla fine degli anni Ottanta la regìa delle scelte di investimento finanziario del gruppo è stata orientata verso settori diversi da quello dell’automobile, secondo una logica che privilegia investimenti a maggiore o più certa redditività.

L’elenco di questi settori di investimento è lungo. Ecco i dati essenziali:

a) Assicurazioni. Controllo al 100% della Toro Assicurazioni e tentativo (fallito nel 2002) di creare il secondo polo assicurativo italiano, impadronendosi anche di SAI e Fondiaria.

b) Banche. Gli Agnelli sono azionisti di due tra i principali gruppi bancari italiani: di Capitalia (ex Banca di Roma), tramite la Toro, possiedono il 6,6%; del Sanpaolo-IMI, tramite le finanziarie di famiglia IFIL e IFI, circa il 5%.

c) Grandi magazzini. Negli ultimi mesi del 2002 (cioè mentre esplodeva la crisi di FIAT Auto) le finanziarie di famiglia degli Agnelli, IFI e IFIL hanno lanciato un’OPA sulla Rinascente (che già controllavano), per un impegno finanziario di 180 milioni di euro.

d) Macchine di movimentazione terrestre. Controllo di Case New Holland.

e) Settore aerospaziale. Controllo di FIAT Avio.

f) Settore turistico. IFIL possiede il 100% di Alpitour, il 25% di Sifalberghi, il 7,2% di Club Med.

g) Telecomunicazioni. FIAT non è riuscita a tenersi la Telecom (nonostante gliene avessero graziosamente regalato il controllo, al tempo della privatizzazione, contro il possesso dello 0,6% del capitale). In compenso ha il 33% di Atlanet, controlla Edisontel (tramite Edison), ed è presente con una quota di minoranza in IPSE.

h) Energia. Nell’estate 2001 ha comprato (assieme alla francese EdF) la Edison, secondo produttore italiano di energia elettrica. Probabilmente è proprio questa la scommessa più importante fatta dalla FIAT negli ultimi anni. Sembra che Paolo Fresco, nel famigerato incontro ad Arcore del 2 ottobre scorso, abbia detto a Berlusconi: "fateci fare dieci nuove centrali elettriche e noi riassumeremo una parte dei dipendenti licenziati da FIAT Auto". [3]

 

2) La scialuppa di salvataggio delle privatizzazioni

Nella fuga dall’auto verso altri settori, le politiche dei governi che si sono alternati al potere da dieci anni a questa parte hanno grandemente contribuito. In particolare, le privatizzazioni e (semi)liberalizzazioni, hanno dato un formidabile contributo a questo processo, consentendo a capitalisti industriali in difficoltà di dirigersi su mercati sottratti alla concorrenza internazionale, quali quelli delle imprese di pubblica utilità (le public utilities). Ottenendo un duplice, brillante risultato: la creazione di oligopolisti privati nell’erogazione di servizi di pubblica utilità e la distruzione del tessuto industriale del nostro Paese.

Può sembra un’affermazione eccessiva. Però ormai queste cose le ammettono anche i quotidiani finanziari. Ecco, ad esempio, cosa scriveva Giangiacomo Nardozzi sul Sole-24 Ore lo scorso 20 ottobre: "la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili profitti". E il Financial Times, già il 31 maggio scorso, dopo aver parlato di "un declino inevitabile del legame affettivo [sic!] della famiglia Agnelli nei confronti del business dell’auto", notava che tale tendenza è "accentuata dal successo degli Agnelli nell’acquisire forti business al di fuori del settore auto".

A onor del vero, va aggiunto che la FIAT è in buona compagnia: fenomeni analoghi riguardano attualmente tanto il gruppo Pirelli (acquisto di Telecom), quanto il gruppo Benetton (Autogrill e Autostrade). È insomma l’intero gotha del mondo manifatturiero italiano che si trasforma in un "capitalismo delle bollette".

3) Il basso costo del lavoro come unica leva competitiva

La "ritirata strategica" dal settore manifatturiero alle public utilities contribuisce a spiegare i mancati investimenti nel settore dell’auto, la politica di taglio dei costi senza respiro, la mancanza di una chiara e convinta visione strategica. Però non spiega come sia stato possibile per gli Agnelli credere (almeno sino al 2000 e all’accordo con GM) di poter mantenere comunque una presenza autonoma nel settore auto. A questo riguardo non vanno dimenticati gli incentivi pubblici, che hanno ritardato e occultato la crisi: basti pensare che soltanto negli anni Novanta la FIAT è stata destinataria di non meno di 11 mila miliardi di lire di agevolazioni pubbliche.  [4] Ma è soprattutto un altro fattore che ha pesato nella scelta di FIAT di continuare sino all’ultimo su una strada rovinosa: mi riferisco alla riduzione del costo del lavoro, considerato come leva esclusiva per la competitività.

Di fatto, l’unica strategia perseguita con coerenza dalla FIAT in tutti questi anni, a partire dalla storica sconfitta operaia del 1980, è stata la compressione del costo della forza-lavoro. Attraverso salari tra i più bassi d’Europa nel settore, ed un uso molto spinto della cosiddetta "flessibilità": licenziando e mettendo in cassa integrazione lavoratori assunti a tempo indeterminato, per sostituirli con il lavoro straordinario, con l’utilizzo di lavoratori precari e sottopagati e con l’esternalizzazione di parti sempre più importanti del processo produttivo. Il punto è che la FIAT, illudendosi di poter sostenere la competizione in questo modo, ha trascurato di fare i necessari investimenti in ricerca e sviluppo e si è trovata rapidamente fuori mercato. È importante sottolineare con forza questo aspetto della crisi FIAT. E questo per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché l’ossessione del costo del lavoro e della flessibilità rappresentano uno dei più ricorrenti (e nauseanti) luoghi comuni della pubblicistica di questi anni. In secondo luogo, perché questa ossessione è stata riproposta proprio in relazione al caso FIAT - sfidando il ridicolo - da parte del governatore della Banca d’Italia e del presidente della Confindustria. In particolare al primo dei due, in quanto esperto di sacri misteri, vorremmo chiedere di spiegarci un fatto che ha del miracoloso: per quale motivo, pur essendo gli operai Volkswagen pagati un 30% in più degli operai FIAT, le Golf si vendono, e le Stilo no.


[1] G. Oddo, "La lunga marcia", il Sole 24 ore, 17/10/2002 (corsivi miei). Vedi anche G. Bodo, "L’ansia di creare valore ha portato fuori strada", Borsa & Finanza, 19/10/2002.

[2] V. Castronovo, "Le ragioni di Ghidella", il Sole 24 Ore, 15/10/2002.

[3] Vedi L. Gianotti, "Dal 1980 in retromarcia. Un tramonto targato FIAT", la Rinascita, 18/10/2002.

[4] Questa cifra, di fonte governativa, non tiene conto delle agevolazioni sulle joint venture tra imprese italiane ed imprese straniere, gestite dalla Simest, che sono destinate in gran parte a società "esterovestite" della stessa FIAT. Quindi il saldo totale dei trasferimenti dallo Stato alla FIAT è ancora superiore.