11. Gli anni Novanta: un triste declino
Gli anni Novanta segnano una netta inversione di tendenza
rispetto al decennio precedente: la FIAT perde vistosamente posizioni sia sul
mercato domestico che su quello europeo, mentre concorrenti come Ford, Renault,
Peugeot e Volkswagen migliorano le loro. Nessuna meraviglia, se si pensa al
fatto che dal 1988 al 1993 la FIAT non aveva prodotto alcun nuovo modello. A
peggiorare la situazione, si aggiunse nel 1993 lo smantellamento delle ultime
barriere alla circolazione di merci nella Comunità Europea. Era giunto il
momento che Valletta aveva tanto temuto: quello di doversi confrontare con la
concorrenza senza più scudi protezionistici, di natura tariffaria o di altro
genere. I risultati non si fecero attendere: quota sul mercato europeo ridotta
al 12%, e perdite per oltre 1.800 miliardi.
Cosicché si corse ai ripari, ma tenendo fede alle migliori
tradizioni della casa: attuando innanzitutto una gigantesca ricapitalizzazione
della FIAT (4.285 miliardi) sotto la regia di Mediobanca, che fece entrare
nell’azionariato FIAT nuovi azionisti quali la stessa Mediobanca, Deutsche Bank,
le Generali e Alcatel. Questi azionisti composero, assieme alle finanziarie di
famiglia IFI e IFIL, un sindacato di blocco che avrebbe mantenuto il controllo
della FIAT nelle solite mani. Ossia, in ultima analisi, in quelle degli Agnelli:
infatti una clausola del patto diceva a chiare note che nessuna decisione
avrebbe potuto essere presa senza il loro consenso. D’altro lato, Mediobanca
avrebbe sin d’ora esercitato un forte potere di condizionamento, e questo
rafforzò in particolare Romiti, che godeva per l’appunto della fiducia di
Cuccia e di Mediobanca.
Romiti affrontò la situazione in perfetta continuità con il
recente passato: proseguendo la "diversificazione", ossia la
finanziarizzazione del gruppo; chiedendo lo "stato di crisi" e
licenziando (questa volta, però, anche molti impiegati e capi); [1]
assumendo giovani in contratto di formazione-lavoro, per pagarli di meno;
aprendo nuovi stabilimenti nel sud (Melfi e Pratola Serra) per giovarsi dei
previsti contributi pubblici e operare - come afferma delicatamente Castronovo -
"in un ambiente socio-economico non ancora sfiorato dall’industrialismo e
dai suoi risvolti conflittuali [sic!]". [2]
Si è molto cianciato dei formidabili risultati produttivi e
di mercato dei nuovi stabilimenti, della "qualità totale", del nuovo
"modello partecipativo" introdotto dalla FIAT. La verità è ben
diversa: se in qualche momento degli anni Novanta si è registrata una ripresa
della FIAT, ciò è stato dovuto essenzialmente alla svalutazione del 30% della
lira avvenuta nel 1992. E non appena i suoi effetti sono svaniti, le vendite
della FIAT hanno ripreso a crollare. Tant’è vero che a soccorso della FIAT è
dovuta arrivata nel 1996 la "rottamazione" decisa da Prodi e Bersani.
[3]
Peraltro, proprio mentre il governo varava gli ennesimi
incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto, la FIAT spostava produzioni
all’estero, con il risultato che nel 2001 il 66% del fatturato era realizzato
all’estero (nel 1990 era il 44%); più del 50% della forza-lavoro operava fuori
d’Italia (nel 1990 era il 22%); e all’estero era fabbricato il 47% delle
macchine prodotte (nel 1990 era il 17%). [4] Purtroppo per
i conti di FIAT Auto, questo ingente sforzo delocalizzativo non ha dato i
risultati sperati, a causa delle crisi che hanno sommerso i "mercati
emergenti" nel 1997-98.
Nel 1998 Paolo Fresco subentra come presidente della FIAT a
Romiti (che a sua volta era subentrato nel 1996 a Gianni Agnelli, divenuto
presidente onorario), e, vista la situazione, nel 2000 negozia con la General
Motors un accordo che prevede la cessione del 20% di FIAT Auto, e l’opzione a
comprare il restante 80% nel 2004. [5]
12. La situazione odierna: le cifre del disastro
Negli anni successivi la situazione continua a peggiorare. Se
il 2001 si era chiuso malissimo, con un reddito operativo che non era
sufficiente neppure a pagare gli oneri finanziari, nel 2002 la situazione
tracolla. A fine maggio, l’esposizione complessiva di FIAT raggiunge i 35,5
miliardi di euro. In prima fila tra i creditori, ovviamente, ci sono le banche
italiane, esposte per un valore di 8,4 miliardi di euro. [6] Per di più, buona parte del
debito è a breve.
Scatta quindi l’operazione di salvataggio-ristrutturazione
del debito FIAT da parte delle banche (Sanpaolo, Intesa, Bancaroma, Unicredito),
che allungano a 3 anni la scadenza di 3 miliardi di euro di debiti a breve. In
cambio del riscadenzamento, FIAT accetta un piano di dimezzamento dei debiti, e
intanto dà il benservito all’amministratore delegato Cantarella (che va a casa
con appena 40 miliardi di lire di liquidazione). [7] Se il piano non
sarà realizzato nei tempi previsti, le banche potranno trasformare i loro
crediti in azioni della società.
Siamo a luglio e la FIAT presenta il suo nuovo Piano
Industriale, che prevede pesanti misure (in primo luogo, non lo credereste,
tagli di personale per 3.800 unità). La FIOM e i sindacati di base (CUB, FLMU e
SLAI-COBAS dell’Alfa) sono i soli sindacati a contestare il piano, giudicandolo
totalmente inadeguato. E in effetti col passare dei mesi la situazione peggiora
con rapidità impressionante. Il 9 ottobre la FIAT chiede al governo lo
"stato di crisi". Il "piano di ristrutturazione" presentato
dall’azienda, con 8.100 tra operai ed impiegati in cassa integrazione dal 2
dicembre (la metà dei quali - nelle intenzioni della FIAT - non tornerà in
fabbrica), assomiglia molto da vicino ad un vero e proprio smantellamento della
FIAT Auto. Ormai è chiaro che entro la fine dell’anno la FIAT perderà 2
miliardi di euro.
Anche dal punto di vista delle quote di mercato, siamo al
punto più basso di un declino ormai più che decennale. In Italia, la
percentuale delle auto vendute da FIAT era del 60,42% nel 1986. Nel novembre
2002 è stata del 28,1%. In Europa (Unione Europea, Italia inclusa, più
Svizzera) la quota FIAT era del 13,85% nel 1990, al secondo posto dopo la
Volkswagen. Nel novembre 2002 è stata del 7,7%, e la FIAT è ora all’ottavo
posto, dopo Volkswagen, Peugeot, Fords, GM, Renault e i produttori giapponesi.
[8] Le cose non vanno bene neppure
fuori d’Europa. Così, per il 2000 il piano industriale FIAT prevedeva la
produzione di 1.000.000 di vetture (i modelli Palio e Siena) in zone extra UE,
di cui 400.000 in Brasile, 100.000 in Argentina, 50.000 in Polonia. I risultati
del 2001 ammontavano invece a 400.000 vetture in totale e, per i Paesi citati,
rispettivamente a 270.000, 31.000 e 6.000 unità. Addirittura desolanti, poi, i
risultati ottenuti in due grandi mercati quali l’India (previste 100.000 unità,
realizzate meno di 9.000), e la Cina (previste 100.000, realizzate... 0). [9]
In questa situazione, le principali agenzie di rating
internazionali dichiarano possibile il declassamento del debito FIAT al livello
dei titoli "spazzatura" (junk), cosa che avviene il 23 dicembre.
[10] Nel frattempo, le lotte dei lavoratori impongono la vicenda FIAT come
un caso di assoluta rilevanza. Ai piani alti delle stanze del potere, dopo un
tentativo fallito di Mediobanca e Berlusconi di appropriarsi della FIAT (e del
"Corriere della Sera"), prendono a circolare voci di una proposta di
Colaninno per acquisire una partecipazione di controllo in FIAT, avviandone la
ricapitalizzazione. [11] Al momento in cui scriviamo, non è dato conoscere i
dettagli dell’operazione (e soprattutto del relativo piano industriale per il
rilancio dell’azienda). Una cosa, però, è certa: i capitali necessari per un
risanamento dell’azienda sono ingenti, e decisamente non appare praticabile il
meccanismo della scalata di Colaninno su Telecom (comprare un società a debito,
facendolo poi pagare a questa stessa società).
13. Chi è il colpevole?
Ora, è evidente che all’esplosione della crisi FIAT hanno
contribuito tanto una crisi congiunturale, quanto gli specifici problemi del
settore auto. In effetti, una (grave) crisi congiunturale investe tanto
l’Europa, quanto il Giappone e gli Stati Uniti, nonché molti Paesi in via di
sviluppo (e nell’unico grande Paese che registra tassi di crescita
considerevoli, la Cina, la FIAT come abbiamo visto non è presente). Questa
crisi ha ovvi e pesanti riflessi sul mercato dell’auto. Ma, al di là della
congiuntura, il settore dell’auto è investito da una vera e propria crisi
strutturale da sovrapproduzione. Nel maggio 2002 su un articolo del Wall Street
Journal si poteva leggere che "i costruttori possono produrre 22 milioni di
automobili di troppo ogni anno, 22 milioni in più di quelle che i consumatori
compreranno." Di qui il forte processo di concentrazione del settore che
non ha conosciuto soste dal 1970 (anno di inizio della fase di crisi che tuttora
perdura): nel mondo i produttori di auto indipendenti erano 40 nel 1970. Sono
scesi a 14 nel 2001. Saranno 7 nel 2010. [12]
Detto questo, va anche rilevato che alcuni produttori
(Peugeot, BMW, Honda Daimler-Chrysler...), stanno espandendo la loro capacità
produttiva. Insomma, anche in una fase come l’attuale c’è chi vince e c’è chi
perde. Ci sono episodi che raffigurano emblematicamente questa diversità di
destini. Ad esempio, negli stessi giorni di fine maggio in cui le banche si
accordavano con la FIAT per trasformare i debiti a breve in debiti a medio-lungo
termine, la Peugeot lanciava i turni lavorativi nel week-end per poter
soddisfare la domanda della "307". Non solo: il 28 ottobre la stessa
casa automobilistica ha pubblicamente annunciato la costruzione di una nuova
fabbrica in Europa per poter raggiungere, entro il 2006, l’obiettivo di 4
milioni di veicoli prodotti. [13]
Proviamo, quindi, a passare in rassegna alcune cause più
specifiche della crisi della FIAT.
1) Struttura proprietaria anacronistica (capitalismo
familiare). A questo proposito è stato notato che è un nonsenso pensare ad
un’"impresa transnazionale di tipo famigliare": infatti una struttura
proprietaria di questo tipo non è in grado di dotare l’impresa di capitali
sufficienti per il mantenimento di posizioni competitive accettabili. [14] Tanto più che la famiglia
Agnelli è nota per l’ampiezza della sua rete parentale (120 sono i membri della
famiglia, a ciascuno dei quali spetta la sua brava quota di dividendi...). Tutto
vero. Va però notato che questa spiegazione, da sola, non è sufficiente a
spiegare la crisi FIAT: anche perché non va dimenticato che una delle
principali società automobilistiche tedesche, la BMW, è per il 49% di
proprietà familiare (della famiglia tedesca Quandt), e nonostante questo va
benissimo.
2) Una politica errata di fusioni e acquisizioni. L’unica
acquisizione di rilievo fatta da FIAT Auto negli ultimi vent’anni è quella
dell’Alfa Romeo. In compenso, FIAT ha perso Seat (venduta nel 1981), e non è
riuscita nell’intento di acquisire né Volvo, né Daewoo. Nello stesso periodo
di tempo, Volkswagen ha acquisito marchi come Seat, Skoda, Audi. Risultato: la
produzione del gruppo Volkswagen è oggi di 5 milioni di unità all’anno. Quella
FIAT è inferiore ai 2 milioni e mezzo. La soglia minima per essere competitivi
è stimata in circa 4 milioni di unità prodotte all’anno.
3) Modello di globalizzazione "povera". [15] La FIAT ha sottratto risorse al mercato europeo per lanciarsi in
avventure rivelatesi fallimentari nei Paesi in via di sviluppo, sperando di
poter lanciare un’"utilitaria globale" (world car), operazione
riuscita solo in parte (in definitiva solo in Brasile, dove FIAT ha superato le
quote di mercato di Volkswagen). In verità, come dimostrano i dati riportati
più sopra, il problema vero è che FIAT non è riuscita a penetrare nei mercati
più promettenti (India e Cina): da questo punto di vista, non si è
globalizzata troppo, ma troppo poco. E del resto l’espansione in aree diverse
dall’Europa non implicherebbe affatto, di per sé, un crollo delle quote di
mercato come quello patito da FIAT nel suo originario mercato di riferimento.
4) Esternalizzazione selvaggia di funzioni produttive.
L’"outsourcing" (parola chiave di tutti i consulenti aziendali degli
anni Ottanta e Novanta, assieme al "downsizing" - ossia al
licenziamento di lavoratori) è stato in effetti praticato da FIAT in misura
tale che intere porzioni di produzione, anche strategiche (ad esempio la
progettazione di nuovi modelli), sono state collocate al di fuori dell’azienda.
Verissimo. Peccato che sino a poco tempo fa questo genere di
"esternalizzazione" fosse magnificato da tutti, ma proprio tutti, gli
"esperti" di politica aziendale...
5) Investimenti insufficienti in ricerca e sviluppo tecnologico. Che la FIAT
investa poco in sviluppo tecnologico (come del resto la media delle imprese
italiane) è noto. La misura di questo deficit di investimento, però, è
decisamente sorprendente. I dati li ha citati il governatore della Banca
d’Italia Fazio l’11 ottobre scorso: la FIAT nel decennio compreso tra la metà
degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha destinato agli investimenti in
ricerca 4 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la Volkswagen (che all’epoca
aveva le stesse dimensioni di FIAT) ne ha spesi 20, BMW (all’epoca più piccola
di FIAT) ha speso 8 miliardi. [16]
6) Operazioni finanziarie azzardate. Gli esempi non mancano.
Ad esempio, FIAT negli anni scorsi ha ritirato dal mercato le quote di minoranza
di Toro, Magneti Marelli e Comau, pagandole un’enormità. Inoltre ha fatto
acquistare, dalla controllata americana New Holland (tra i leader mondiali nei
trattori e nelle macchine di movimento terra), la società concorrente Case per
4,3 miliardi di dollari (per la cronaca, attualmente la partecipazione del
gruppo FIAT nella Case New Holland è valutata meno di 1,1 miliardo di dollari).
Tutto vero. Detto questo, in genere i soldi i capitalisti non
li spendono per caso. Per mettere qualche punto fermo, proviamo a partire
proprio da qui.
[1] A costoro
Romiti tenne ad esprimere tutto il proprio rammarico per aver falcidiato
"coloro che più hanno dimostrato attaccamento all’azienda e che noi
abbiamo sempre considerato come un patrimonio fondamentale". Insomma: dopo
tante benemerenze (vedi marcia dei "40.000"), il danno e le beffe!
[2] Castronovo, p. 1665. Cosicché a
Melfi fu possibile introdurre da subito un istituto tremendamente avanzato quale
il sabato lavorativo... Per quanto riguarda i contributi pubblici basta
ricordare che le agevolazioni di cui la FIAT beneficiò ammontarono a 1.350
miliardi di lire. Più di quanto la FIAT aveva ricevuto nell’intero decennio
precedente.
[3] Che però ha avuto unicamente l’effetto, come ha ammesso di recente lo stesso
amministratore delegato di Fiat Auto Boschetti, di aiutare la concorrenza
(consentendo la sostituzione di vecchie FIAT con nuove Volkswagen).
[4] Dati FIAT, 20/2/2002.
[5] Di recente si è saputo che fu proprio la
FIAT ad insistere per inserire nel contratto con la GM l’opzione a cedere l’80%:
v. A. Plateroti, "Wagoner: ’GM non voleva il put sull’80%’", Il
Sole-24 ore, 3/12/2002.
[6] Ma anche 33 banche
estere vantano crediti per complessivi 5,8 miliardi di euro. La più esposta è
una banca pubblica brasiliana: il BNDES (Banco Nacional de Desenvolvimento
Economico e Social). V. il Sole 24 Ore, 5/6/2002.
[7] Una vera miseria in confronto
ai 185 miliardi intascati a suo tempo da Cesare Romiti...
[8] Dati: il Sole 24 Ore, 16/11 e 27/12/2002.
[9] Vedi
A. Enrietti, "La crisi del sistema Fiat. La struttura aziendale e i suoi
punti deboli", in gli argomenti umani, anno 3, n. 9, settembre 2002, pp.
52-66, e partic. p. 55.
[10] Nonostante la vendita delle partecipazioni in GM, Burgo, Fidis per fare
cassa.
[11] Il primo giornale a darne notizia è stato il Riformista,
vicino a Massimo D’Alema.
[12] Cifre contenute in un rapporto della
società Roland Berger al ministro Marzano e rese note da L’espresso
(31/10/2002).
[13] Vedi le Monde, 29/10/2002.
[14] M.
Revelli, "Fiat, vivere fra i tagli", la Rinascita, 1 novembre 2002.
Per inciso, può essere utile ricordare che per la FIAT la famiglia Agnelli non
mette mano al portafoglio dal lontano 1985 (v. O. De Paolini, "L’Apocalisse
schivata", Borsa & Finanza, 14712/2002).
[15] M.
Revelli, cit.
[16] il Sole 24 Ore, 12/10/2002.