8. La ripresa della conflittualità operaia e l’autunno caldo
"Alla verniciatura di Mirafiori, per rendere più rapido il ciclo, le
scocche uscivano ancora calde dai forni, prima che i getti d’aria riuscissero
a raffreddarle, con il risultato che gli operai si ustionavano i polpastrelli
delle dita e a fine giornata avevano le mani gonfie. Si era andati oltre i
livelli di saturazione previsti e il sistema non era più sotto
controllo"
(G. Berta, Mirafiori, pp. 65-6)
L’èra di Valletta finì nell’aprile 1966, allorché Gianni
Agnelli lo sostituì come presidente della FIAT, affiancato dall’ing. Bono nelle
cariche di amministratore delegato e direttore generale. Il suo modello di
relazioni industriali era però finito quattro anni prima. Nel 1962, infatti,
una serie di scioperi costringe la FIAT ad intavolare negoziati a tutto campo
(anche con la FIOM, con la quale da 8 anni l’azienda si rifiutava di trattare).
Il risultato è un contratto aziendale che prevede tra l’altro la contrattazione
degli incentivi (prima assolutamente discrezionali) e una qualche forma di
controllo sindacale sui tempi di lavoro. A gennaio 1963 viene firmato anche il
contratto nazionale dei metalmeccanici, che prevede discreti aumenti salariali.
Cosa del resto tutt’altro che scandalosa, tenuto conto del fatto che, stando
agli stessi dati ufficiali della FIAT, nel periodo 1954-1960 il salario di un
operaio di terza categoria era cresciuto del 38%, a fronte di un fatturato quasi
raddoppiato (+98%), e di profitti netti addirittura quadruplicati.
Dove invece le cose non erano cambiate affatto, era nel
controllo della FIAT da parte degli Agnelli. Al contrario, proprio nel 1962 -
sotto l’accorta regia della Mediobanca di Cuccia - fu allargata la base
finanziaria dell’IFI attraverso il collocamento in Borsa di azioni privilegiate:
in questo modo la famiglia Agnelli poté mantenere il controllo sulla società
(e quindi sulla FIAT) senza dover investire altro denaro. Sotto il controllo
dell’IFI (che non possedeva soltanto la FIAT e le società da questa
controllate, ma anche la Rinascente e la Cinzano, oltre a titoli dell’industria
cementiera) c’era qualcosa come l’11% del sistema industriale italiano.
Dal maggio 1963 il Governatore della Banca d’Italia Guido
Carli, per controllare l’inflazione (in realtà per bloccare la dinamica
salariale), si fece promotore di una stretta creditizia che causò la prima
recessione dagli anni Cinquanta. Ma già nel biennio 1966 e 1967 la FIAT tornava
ad inanellare risultati notevoli: era suo il 21% della produzione a livello di
Mercato comune europeo, ed il 6% di quella mondiale; nel complesso la FIAT era
al 5° posto a livello mondiale, dopo le americane Ford, General Motors e
Chrysler e la tedesca Volkswagen. Non per questo perse le vecchie abitudini
protezionistico-monopolistiche: ad es., nel 1966 tentò senza successo di
bloccare in tutti i modi la costruzione dello stabilimento Alfa Romeo di
Pomigliano d’Arco dove si sarebbe costruita l’Alfasud.
Il biennio successivo, risultati notevoli li conseguì la
classe operaia. I problemi principali che diedero origine agli scioperi del 1968
erano l’appesantimento dei carichi di lavoro, l’accelerazione del ritmo di
produzione, a fronte della diminuzione dei salari reali (bloccati dalla manovra
deflazionistica del 1963-4). L’operaio che entra in sciopero nel 1968 è però
una figura diversa da quella del passato: la composizione della classe operaia
ha visto, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il progressivo aumento
degli "addetti macchina", ossia di operai non specializzati che
svolgono mansioni rigidamente esecutive, non di rado assai logoranti
fisicamente. Questa figura operaia (l’"operaio massa") ha soppiantato
in FIAT l’operaio di mestiere, passando dal 43,6% della forza-lavoro nel 1953 al
70% della fine degli anni Sessanta. Su di essa aveva puntato Valletta, contando
sulla minore consapevolezza e coscienza di classe di questa categoria di operai.
La novità del biennio 1968-9 sta tutta qui: nel fallimento di quel progetto, e
nella creazione - proprio a partire dall’operaio massa - di una nuova
soggettività di classe. Questa soggettività si espresse, il 30 marzo 1969, con
uno sciopero che colse di sorpresa gli stessi sindacati e paralizzò gli
stabilimenti FIAT. Nel corso del 1969-70 le azioni di protesta si
intensificarono assumendo caratteristiche inedite sia sotto il profilo degli
obiettivi (che cominciarono a riguardare anche le condizioni di vita fuori della
fabbrica), che sotto quello delle modalità: in particolare, il blocco della
catena di montaggio fece leva sulla rigidità stessa dell’organizzazione
fordista del lavoro, facendone il più efficace strumento di lotta. [1] Le lotte dell’"autunno
caldo" consentirono di conquistare tanto il rinnovo del contratto dei
metalmeccanici (nel dicembre 1969), quanto lo Statuto dei lavoratori (1970) ed
il riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971).
9. Gli anni Settanta: dalla crisi alla sconfitta operaia del 1980
Nel gennaio del 1970 Umberto Agnelli affianca come
amministratore delegato della FIAT l’ing. Bono (destinato a dimettersi dalla
carica l’anno successivo). In questo modo la famiglia Agnelli prende le leve del
comando direttamente nelle proprie mani. Nello stesso anno viene inaugurato lo
stabilimento di Termini Imerese e si decide di avviare la costruzione di diversi
nuovi stabilimenti al sud (Cassino, Termoli, Bari, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò
e Brindisi): in questo modo, oltre a valersi di cospicui finanziamenti pubblici,
la FIAT pone le premesse per "decongestionare" la concentrazione
operaia di Torino ed avvalersi di manodopera più docile. Di maggiore importanza
strategica è un altro tipo di risposta alle lotte operaie: l’avvio
dell’automazione in fabbrica. Il punto di vista della FIAT è correttamente
descritto da Castronovo: "si trattava di non arroccarsi nella difesa ad
oltranza del lavoro di tipo fordista, che avrebbe continuato a generare motivi
sempre più aspri e pregnanti di conflittualità operaia e dato modo al
sindacato di tenere sotto continua pressione l’azienda, bensì di sperimentare
nuove tecnologie che rendessero più flessibili, se non tutte, quantomeno le
fasi più complesse e pesanti della lavorazione. Si pensava in pratica che, più
presto si fosse proceduto sulla via dell’automazione, più presto sarebbe calata
la forza d’urto del sindacato e cresciute invece le capacità d’iniziativa e di
comando della direzione d’impresa" [2]. E in effetti
le cose sarebbero andate proprio così.
Intanto, il decennio si apre all’insegna della crisi: con la
svalutazione del dollaro, nel 1971, salta il regime dei cambi fissi e più in
generale il sistema di Bretton Woods, con il corollario di una reviviscenza di
misure protezionistiche, a cominciare dagli Stati Uniti. Crolla il tasso di
accumulazione (che da allora non ha più raggiunto i livelli conosciuti nel
decennio precedente). Per quanto riguarda specificamente il settore
automobilistico, si avvicina la saturazione del mercato (con un ritmo di
crescita della domanda per gli anni Settanta stimato in 2-3%, a fronte dell’8-9%
del decennio precedente), e con essa una classica crisi da sovrapproduzione.
Poi, a mettere in ginocchio il settore, verrà anche la crisi petrolifera
(1973), che colpirà in misura particolarmente severa proprio la FIAT.
Il bilancio 1973, per la prima volta da molti anni, è in
perdita (-150 miliardi di lire nel settore auto). Il 2 ottobre 1974 la FIAT pone
in cassa integrazione 65.000 operai, riducendo improvvisamente la capacità
produttiva di un terzo. Contemporaneamente, per ristrutturare il debito (i
debiti a breve ammontavano a 1.800 miliardi), viene assunto Cesare Romiti. Già
in questa fase emerge un problema che si riproporrà periodicamente sino ai
giorni nostri: il nucleo di controllo della FIAT, composto dalla famiglia
Agnelli per il tramite dell’IFI, non è in grado di affrontare una
ricapitalizzazione. Si sceglie di fatto la strada opposta: diversificare (anche
attraverso operazioni di scorporo di ramo d’azienda), con l’obiettivo di
giungere entro il 1985 a realizzare il 50% del fatturato del gruppo in un
settore diverso dall’auto. La situazione del settore auto, intanto, non
migliora: lo stesso Gianni Agnelli ammetterà che "il 1975 è stato per il
settore auto l’anno più difficile dalla fine della guerra"; difficile
dargli torto, con vendite in calo del 25%, e la FIAT precipitata al 10° posto
tra i produttori automobilistici mondiali.
Nel 1976, mentre la crisi si aggrava ulteriormente, viene
cooptato nel vertice del gruppo Carlo De Benedetti. Ma ben presto sarà
costretto a fare le valige, lasciando di fatto campo libero a Romiti. Al di là
di faide manageriali poco edificanti, il motivo del benservito a De Benedetti
risiede nel fatto che la sua strategia prevedeva un importante aumento di
capitale da parte dell’IFI. Che però era a sua volta indebitata. Sarebbe quindi
stato necessario far ricorso direttamente al mercato, con il risultato di
diluire la quota della FIAT in mano alla famiglia Agnelli. E questa ritenne che
fosse più comodo mandar via l’ingegnere. L’aumento di capitale poi fu fatto,
facendo sottoscrivere ai libici della Lafico un 10% circa di azioni ordinarie
FIAT, ma con clausole contrattuali che garantivano all’IFI di mantenere
saldamente il controllo della società. Ancora una volta, la proprietà
familiare della FIAT era salva. In compenso, la situazione della FIAT continuò
a peggiorare anche in presenza di una ripresa del mercato, a partire dal 1978.
Il 1979 si apre con la nomina dell’ing. Ghidella a capo di
Fiat Auto e con una ripresa degli investimenti nell’auto (che si attestano al
31% degli investimenti del gruppo, contro il misero 20% di tre anni prima). Ma
il fatto più significativo di quell’anno riguarda le relazioni industriali, e
consiste nel licenziamento di 61 operai, accusati di essere violenti o
addirittura terroristi: in realtà, in sede giudiziale i licenziamenti saranno
contestati uno per uno. Ormai, però il test era andato a segno: anche perché
lo sciopero contro i licenziamenti era sostanzialmente fallito.
Nel 1980 la crisi dell’auto, anche grazie al secondo shock
petrolifero, assume proporzioni mondiali e coinvolge tanto i produttori
americani quanto gli europei (con la sola eccezione della Volkswagen). Quanto
alla FIAT, l’indebitamento (6.800 miliardi) è ormai pari al fatturato e più
del doppio del patrimonio netto. A questo punto Umberto Agnelli chiede al
governo due cose: la svalutazione della lira e la libertà di licenziare. La
prima richiesta non andrà a buon fine, per quanto riguarda la seconda la FIAT
farà da sé. A luglio Umberto Agnelli si dimette da amministratore delegato.
Gli subentra Romiti, che l’11 settembre annuncia il licenziamento di 14.400
lavoratori, successivamente trasformato in cassa integrazione a zero ore per
23.000 lavoratori per due anni. Inizia uno sciopero di 35 giorni con blocco
degli stabilimenti, che termina con una bruciante sconfitta, anche a seguito
della marcia dei capi intermedi contro lo sciopero. [3] I 23.000
lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore (che presto diventeranno
33.000), tra cui centinaia di delegati di fabbrica, resteranno fuori dalla FIAT
sino al 1987, in violazione di ogni accordo; al loro rientro, saranno collocati
in "reparti confino". Centocinquanta di loro si toglieranno la vita.
[4] Comincia un periodo
di dura restaurazione in fabbrica, ed una svolta a destra nel Paese.
10. Gli anni Ottanta: tutto il potere a Romiti
"Ho dovuto affrontare un conflitto d’interpretazione
del ruolo della FIAT all’interno del Gruppo. Per Ghidella prevale la visione
autocentrica, mentre per me la FIAT è una holding industriale e
finanziaria"
(G. Agnelli, discorso ai dirigenti della FIAT,
25 novembre 1988)
Tra le condizioni che resero possibile la vittoria padronale
dell’Ottanta un ruolo decisivo giocarono senz’altro le innovazioni tecnologiche
introdotte in fabbrica a partire dal 1973. Ha scritto Revelli: "se la FIAT
poté permettersi di eliminare d’un colpo, senza flessioni produttive, 23.000
lavoratori dal proprio processo lavorativo; se poté realizzare, senza alcun
contraccolpo sui livelli produttivi, la più clamorosa operazione di
normalizzazione politica del secondo dopoguerra [...], ciò fu reso possibile da
un salto in avanti della produttività maturato silenziosamente nel corso del
quinquennio precedente. Fu reso cioè possibile da una trasformazione
strutturale dei sistemi lavorativi". [5] Tale
trasformazione automatizzò le lavorazioni più faticose e nocive (quali la
lastroferratura, la verniciatura e l’assemblaggio di scocca e parti meccaniche)
e rese autonome le fasi della lavorazione, eliminando di fatto la tradizionale
catena di montaggio. Inizia l’era della "flessibilità", che è prima
di tutto flessibilità ed isolamento della forza-lavoro, e conseguentemente
drastica riduzione del suo potere contrattuale.
Per quanto riguarda gli andamenti di mercato, solo nel 1983,
con il successo della "Uno" (400 mila vetture vendute), la FIAT
cominciò ad uscire dalla crisi, e nel 1984 tornò ad essere prima per vendite
in Europa. Peraltro l’organico era sceso da 350.000 a 230.000 lavoratori, e la
riduzione del costo della forza-lavoro sul fatturato era crollato dal 27% al
18%. L’utile consolidato salì nel 1985 a 1.682 miliardi di lire, e l’anno
successivo giunse a 30.000 miliardi, con un ritorno sul capitale proprio
addirittura del 45,5%. Questi risultati consentirono nel 1986 di ricomprare la
quota detenuta dai libici. [6]
Come se non bastasse, nell’86, ad aiutare la FIAT intervenne
anche la "mano visibile" del Governo italiano, che regalò l’Alfa
Romeo alla casa torinese, bloccando all’ultimo momento la firma dell’accordo di
vendita della società automobilistica pubblica alla Ford. La cifra della
transazione è memorabile: 1.000 miliardi di lire (equivalenti ai contributi che
la FIAT all’epoca percepiva dallo Stato), per di più pagabili in comode rate
decennali. Avendo già acquisito la Lancia, l’Auto Bianchi e la Ferrari, la FIAT
aveva così il controllo dell’intera produzione automobilistica nazionale.
All’inizio del 1987 viene inoltre costituita la Accomandita
Giovanni Agnelli e soci, società non quotata a cui vengono conferite il 75%
delle azioni IFI che erano di proprietà degli Agnelli. La proprietà familiare
della FIAT è messa la sicuro ancora per un po’. Nell’87 il gruppo FIAT contava
qualcosa come 750 società controllate, guadagnava come gli altri 60 gruppi
industriali messi assieme, e totalizzava il 4% del PIL nazionale. Già alla
metà degli anni Ottanta le partecipazioni FIAT capitalizzavano ormai un quarto
dell’intera Borsa italiana. Tra esse c’erano società come Snia, Gemina (Rizzoli
e Corriere della Sera), Magneti Marelli, Unicem, Sorin, Olcese, Toro
Assicurazioni, Rinascente. Si può pertanto affermare che già alla metà degli
anni Ottanta si profili quella trasformazione della FIAT in holding finanziaria
che poi sarà realizzata pienamente nel corso degli anni Novanta. In altri
termini: i profitti dell’auto cominciano già in questo periodo ad essere
reinvestiti altrove.
E proprio su questo nel 1988 si accese uno scontro ai vertici
della FIAT, tra l’ing. Ghidella - a capo della FIAT Auto - e Cesare Romiti. Il
motivo del contendere riguardava la focalizzazione di business: Ghidella premeva
per spingere sull’automobile come cuore del gruppo, Romiti puntava a
"diversificare", ossia a trasformare definitivamente la FIAT in una
holding finanziaria di partecipazioni appartenenti a diversi settori (finanza,
assicurazioni, editoria, ecc.). Ghidella perse, e Romiti divenne amministratore
delegato del gruppo. Gli effetti di questa scelta non avrebbero tardato a
manifestarsi.
[1] Attraverso
il blocco della catena era infatti possibile amplificare i risultati dello
sciopero di un settore ad altri settori della fabbrica. Per un inquadramento
teorico di questa problematica vedi M. Melotti, F. Lattanzi, "Tecnica di
una sconfitta. Il soggetto operaio del dopo-FIAT", in Collegamenti per
l’organizzazione diretta di classe, Quaderno 2, 1980, p. 15-6, e M. Revelli,
"La fabbrica come partito. La Fiat dagli anni 70 agli anni 80", in
Quaderni del Cric, nov. 1988, n. 3, pp. 103-4.
[2] Castronovo, p. 1243.
[3] La cosiddetta "marcia
dei 40 mila". Anche se in piazza non erano più di 12.000.
[4] Per le vicende dei cassintegrati FIAT si veda L’altra faccia della FIAT, a
cura dei Coordinamento Cassintegrati, Roma, Massari, 1990.
[5] M. Revelli, cit., p. 113.
[6] Condizione posta dagli USA per poter partecipare
allo "scudo stellare" di Reagan.