"Siamo appena all’alba di un grandioso movimento di capitali, di masse, di lavoro. Mi sbaglierò, ma l’automobile segnerà l’inizio di un rinnovamento sociale dalle fondamenta"
(Giovanni Agnelli, 1901)
La FIAT nacque l’11 luglio 1899 per iniziativa di due nobili torinesi con nomi da operetta, Roberto Biscaretti di Ruffia ed Emanuele Bricherasio di Cacherano, che decisero di impiantare anche in Italia una fabbrica di autovetture sportive. All’iniziativa, che coinvolse una trentina di nobili e borghesi, partecipò anche un ricco proprietario terriero che rispondeva al nome di Giovanni Agnelli. Il capitale sociale, piuttosto consistente per l’epoca, ammontava a 800.000 lire. Nel 1902 Agnelli viene nominato amministratore delegato, e nel 1903 viene decisa la quotazione in Borsa della società.
Al momento della quotazione, il bilancio della società era in attivo, pur essendo la FIAT in un mercato in cui non vi erano consistenti barriere all’entrata: la produzione automobilistica era infatti a carattere semi-artigianale, e all’inizio del secolo erano ormai una sessantina le imprese attive in Italia in questo settore (a fronte di appena 6.000 automobili in circolazione). Si trattava comunque di un settore di avanguardia, che come tale attirava gli speculatori di borsa. In effetti le quotazioni delle azioni FIAT presero a crescere vertiginosamente, tanto che si dovette fare uno split azionario, riducendo il taglio minimo delle azioni (da 200 lire a 25). Questa operazione (la stessa che ha compiuto Tiscali nel 1999) fece sì che le azioni divenissero alla portata anche dei "piccoli capitalisti" (così si espresse il presidente della società), e questo fece crescere ulteriormente i corsi della FIAT: sta di fatto che il titolo FIAT, del valore nominale di 25 lire, ai primi di marzo del 1906 era negoziato in borsa al prezzo di 2.500 lire. A questo punto, colpo di scena: grazie al boom di borsa vengono acquisite altre aziende, la vecchia società viene liquidata, e ne viene creata una nuova, della quale Agnelli è il principale azionista; un terzo circa del capitale sociale è di proprietà di qualche centinaio di piccoli azionisti, mentre i soci originari sono ormai tagliati fuori dalla società.
L’operazione di ristrutturazione societaria arriva appena in tempo per consegnare il potere della società nelle mani di Agnelli: nell’autunno dello stesso anno, infatti, la bolla speculativa scoppia e le quotazioni precipitano sino a 17 lire per azione; i debiti della società, invece, crescono sino a raggiungere i 10 milioni di lire, una cifra superiore al capitale sociale. Comunque sia, la società viene salvata, attraverso un consorzio di banche e aziende creditrici con a capofila la Banca Commerciale: il capitale della società, però, viene azzerato e ricostituito. In questo modo i 1.300 piccoli azionisti che avevano investito in azioni FIAT perdono tutti i loro soldi. Nel frattempo emergono pesanti indizi circa la falsità dei bilanci dell’epoca del boom borsistico. Agnelli e altri membri del Consiglio di Amministrazione vengono così denunciati per "illecita coalizione, aggiotaggio e alterazione dei bilanci sociali". Il processo, caratterizzato da pesanti pressioni politiche, si chiuderà nel 1912 con un’assoluzione (confermata in appello nel 1913).
All’epoca del proscioglimento Agnelli era già uno dei capitalisti italiani emergenti: rafforzata la sua posizione nell’azienda, aveva cominciato ad integrare la produzione (prima dispersa in diversi stabilimenti e tra vari subfornitori), acquisito altre imprese, avviato la fabbricazione di motori d’aviazione, per navi, e soprattutto la costruzione di autocarri, che aveva consentito di lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia (1911). Ma, soprattutto, aveva intuito che soltanto la produzione in serie di modelli e la loro standardizzazione avrebbe consentito di abbattere i costi di produzione e di conquistare un mercato più vasto di quello a cui si rivolgevano concorrenti come l’Itala, l’Alfa, l’Isotta Fraschini: nasce così il modello "Tipo zero" della FIAT, di fatto l’equivalente italiano del modello "T" della Ford (i cui stabilimenti Agnelli aveva visitato nel 1906). Dal punto di vista dell’organizzazione della produzione, le officine vengono ampliate e si cominciano ad introdurre, sia pure a livello embrionale, i principi del taylorismo e del fordismo: al 1912 risale il primo progetto di utilizzo della catena di montaggio. Si tratta di una razionalizzazione del processo di lavoro nella quale gli industriali vedono tra l’altro la possibilità di ridimensionare il potere di intervento della classe operaia nei processi produttivi e la sua forza negoziale [2]. In effetti già nel 1912 ai lavoratori viene imposto un nuovo contratto di lavoro fortemente peggiorativo dal punto di vista delle garanzie, mettendo al bando gli "scioperi impulsivi", annullando le competenze delle Commissioni Interne, e cercando di imporre trattative individuali con l’azienda: soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, nel 1913, la FIOM otterrà il diritto di rappresentanza dei lavoratori e il riconoscimento della contrattazione collettiva, alla FIAT come nelle altre fabbriche.
La FIAT chiuse il bilancio del 1913 con risultati positivi. Già negli ultimi mesi dell’anno, però, cominciarono ad avvertirsi segnali preoccupanti per quanto riguarda il mercato automobilistico. "Dalla seconda metà del 1913 avevano cominciato a farsi sentire con più intensità i venti freddi della concorrenza straniera, specialmente dell’industria americana ormai in grado di sfornare mezzo milione di vetture all’anno. Da allora le vendite erano rallentate e le esportazioni della FIAT avevano subito un forte calo. Perciò la domanda connessa alla motorizzazione pubblica, ed in particolare a quella militare, era l’unico fattore che consentisse una crescita della produzione tale da assicurare concreti vantaggi dimensionali e quindi reali economie di scala". [3]
La domanda connessa alle spese militari crebbe ovviamente in misura enorme con la mobilitazione bellica e l’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del 1915. Non può quindi stupire che i dirigenti della FIAT (più ancora di Agnelli il presidente della società, Dante Ferraris), appoggiassero i nazionalisti e gli interventisti, foraggiando direttamente le loro case editrici ed i loro giornali, tra cui il "Popolo d’Italia" di Mussolini. La FIAT e le sue consociate contribuirono alla grande carneficina del primo conflitto mondiale in molti modi: producendo mitragliatrici, proiettili, motori per sommergibili e per aeroplani, aeroplani. Ma, ovviamente, fu in primo luogo l’industria automobilistica a giovarsi delle commesse belliche. I primi ordinativi, per 1.700 autoveicoli militari, giunsero alla FIAT nel settembre 1914. Nel corso del conflitto la produzione raggiunse i 56.000 veicoli.
Il numero degli operai FIAT raddoppiò durante la guerra giungendo alle 40.000 unità. Alla loro disciplina ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale; nonché, ovviamente, con l’annullamento delle conquiste precedenti. Ma nel corso del conflitto crebbero vertiginosamente soprattutto i profitti (anzi, come si disse all’epoca, i "sovraprofitti di guerra"). Basti pensare che, a fronte di un capitale sociale di 17 milioni, durante la guerra furono distribuiti dividendi agli azionisti per un valore di 19 milioni, a cui vanno aggiunte le distribuzioni gratuite di azioni ai soci. [4] Cosicché già nel 1917 il patrimonio personale di Agnelli ammontava a 50 milioni, con una quota di capitale della FIAT pari al 10,4%.
"Il problema che ponevano i consigli di fabbrica era il problema del potere... Quando eravamo arrivati alla occupazione delle fabbriche, le commissioni interne e i consigli di fabbrica avevano dimostrato di essere capaci di amministrarle. L’elemento che ha spaventato maggiormente i padroni del vapore è proprio questo: che gli operai, legati a una parte di tecnici, riescono a dirigere, a mandare avanti le fabbriche"
(B. Santhià, operaio metalmeccanico e
membro dei Consigli di fabbrica)
All’indomani dell’armistizio, la FIAT era al terzo posto per capitalizzazione tra le industrie italiane, mentre prima della guerra si trovava al trentesimo posto. Di fatto, come osservò Luigi Einaudi, ormai la FIAT era giunta ad occupare il primo posto in Europa per la produzione su vasta scala di veicoli a motore e "doveva essere annoverata tra i più potenti complessi industriali del mondo".
Il dopoguerra però vide una pesante crisi economica accompagnata da una forte inflazione. Di fatto la necessità di una rapida riconversione dell’apparato industriale dalla produzione bellica mise in ginocchio molte imprese (tra cui l’Ansaldo, che fallì nel 1921). La FIAT si trovò in acque migliori di altre industrie, ma anch’essa si trovò a far fronte ad un forte indebitamento. Per questo nel 1919 tentò la scalata al Credito Italiano, e soltanto un intervento diretto del governo la costrinse a venire a più miti propositi e rivendere (peraltro con ricca plusvalenza) le azioni della banca milanese che deteneva. Ad ogni modo, il problema più rilevante che l’impresa torinese si trovò ad affrontare in quegli anni non riguardava i giochi di potere nel gotha finanziario italiano: nel 1919-1920 esplose infatti il movimento dei Consigli di Fabbrica, ispirato all’Ottobre sovietico ed ai tentativi di costruire repubbliche dei consigli in Germania ed Ungheria. La classe operaia torinese tentava di prendere possesso delle fabbriche, di gestirle direttamente, e di giungere più in generale all’"estinzione dell’assetto capitalistico della produzione". In questa battaglia la base operaia - affiancata dal movimento dell’"Ordine Nuovo" di Gramsci - espresse posizioni più avanzate tanto del partito socialista che della FIOM, giungendo ad assumere il controllo delle Commissioni Interne di fabbrica, creando i Consigli di Fabbrica e facendone uno strumento di lotta politica e sociale, anziché di pura e semplice rivendicazione economica. Lo scontro, tra alterne vicende, ebbe il suo apice con l’occupazione delle fabbriche, iniziata il 31 agosto 1920 e durata circa un mese. L’esperimento di "autogoverno operaio" tentato a Torino fu di fatto uno dei momenti più avanzati della lotta del movimento operaio non soltanto in Italia, ma in Europa.
Ripreso il controllo delle fabbriche, grazie all’approvazione di un accordo civetta siglato dai sindacalisti riformisti della CGdL sul controllo "congiunto" (!) delle fabbriche da parte di operai e padroni, iniziò puntualmente la repressione: nel marzo-aprile del 1921 furono licenziati più di 4.000 operai, in buona parte comunisti. Ma si era soltanto all’inizio della controffensiva reazionaria: il 25 aprile dello stesso anno i fascisti, pagati dagli industriali e protetti dalla forza pubblica, davano fuoco alla Camera del Lavoro di Torino.
È però importante rilevare che la piena ripresa del controllo padronale alla FIAT ebbe luogo tanto con le armi della repressione (i licenziamenti politici e l’uso del terrore fascista), quanto con quelle della riorganizzazione tecnica del processo produttivo in base ai principi del taylorismo e del fordismo: alla fine del 1922 entra in piena attività il nuovo stabilimento del Lingotto. Per intendere le caratteristiche del lavoro operaio nella nuova fabbrica bastano le parole di un servizio pubblicato nel maggio 1923 da "la Stampa" di Torino (già allora di proprietà di Agnelli): "l’operaio è una specie di cellula assegnata a un dato posto. Molte volte non ha più di uno o due metri quadrati di spazio per muoversi. Non ha bisogno di muoversi, non deve. Ogni movimento suo inutile rappresenterebbe una perdita o distruzione di energia. Il pezzo di sua lavorazione giunge a lui lungo un piccolo binario ricco di rulli: giunge sotto la spinta d’un braccio vicino, è lavorato, e sotto un’altra spinta riparte e va da un altro operaio a farsi raffinare o aggraziare". Di fatto, iniziava il processo per cui la figura dell’operaio di mestiere sarebbe stata gradualmente soppiantata dall’addetto macchine, specializzato in un’unica mansione di carattere esecutivo. Si apriva così una fase che si sarebbe chiusa soltanto alla fine degli anni Settanta (ed in effetti soltanto nel 1982 fu abbandonata la produzione al Lingotto).
Per quanto riguarda i rapporti di Agnelli e della FIAT con il fascismo, si sono fatti, anche di recente, molti sottili distinguo, sostenendo che Agnelli sarebbe in fondo sempre rimasto un giolittiano, e facendo discendere il suo appoggio al fascismo dal fatto che gli industriali - come diceva lo stesso Agnelli - sono "ministeriali per definizione". [5] I fatti sono questi: nel maggio 1922 Agnelli (come del resto gli altri industriali e persino un nume del liberalismo italiano come Luigi Einaudi) approvò il programma economico del Partito Fascista. Nel marzo del 1923, neppure 6 mesi dopo la marcia su Roma, Giovanni Agnelli - unico tra gli industriali - fu nominato senatore da Mussolini. Nell’ottobre dello stesso anno Mussolini visitò il Lingotto. Il suo discorso fu applaudito soltanto da Agnelli, dalle altre personalità invitate e da alcuni impiegati: evidentemente, a differenza degli industriali, gli operai non vedevano motivi per essere "ministeriali per definizione".
"Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che da noi culminò nell’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, è passato per sempre... Sorse Mussolini, il liberatore e il ricostruttore, e l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui"
(pubblicazione della FIAT degli Anni Trenta)
Sotto il regime fascista la FIAT prosperò. Aveva bisogno della "pace sociale" in fabbrica, di politiche protezionistiche e di commesse statali: ebbe tutte e tre le cose. Ovviamente, bisognava dare qualcosa in cambio: ad esempio i finanziamenti a "il Tempo" prima, ed al "Corriere Italiano" poi; nel 1924 l’appoggio al "listone" governativo; i finanziamenti di Edoardo Agnelli (figlio di Giovanni) agli squadristi. Ma vediamo più da vicino i capitoli dell’avere.
La pacificazione delle fabbriche fu garantita innanzitutto dal Patto di Palazzo Vidoni, firmato da Governo e Confindustria il 2 ottobre 1924, che sanciva lo scioglimento delle Commissioni Interne ed attribuiva alle corporazioni fasciste l’esclusiva della rappresentanza sindacale. [6] E sin dal 1929 fu introdotto nella fabbriche il cosiddetto "sistema Bedaux" (di controllo cronometrico delle lavoro), che consentiva un’intensificazione dei ritmi di produzione ed una consistente riduzione dei cottimi. Di fatto, i salari operai risultarono nel 1934 inferiori anche del 20% rispetto a quelli del 1931. In questo senso, il regime fascista indubbiamente garantì, come si espresse lo stesso Agnelli, "una fattiva disciplina del lavoro".
Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro le importazioni di automobili straniere, in particolare americane. Il regime doganale, che nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere, fu poi integrato, a partire dal 1928, da misure quali l’esenzione per la FIAT da tasse sull’esportazione, e l’esenzione da dazi sui materiali necessari alla costruzione delle autovetture. A questo proposito il ministro dell’economia nazionale scrisse a Mussolini nel maggio del 1928 queste testuali parole: "Il Ministero dell’Economia Nazionale, d’accordo con quello delle Finanze, ha usato la più grande larghezza possibile nel concedere alle fabbriche d’auto numerose e importanti agevolazioni doganali... Si è fatto accogliere un provvedimento di favore, che per nessun’altra industria era mai stato adottato". Ma tutto questo non era ancora sufficiente. Così, dopo aver impedito un accordo tra la Ford e la Isotta Fraschini con il pretesto che l’industria automobilistica era "industria basilare per la difesa nazionale" (1929-1930), il governo elevò i dazi al 100% (1930), e infine giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione estera. Nonostante ciò, la crisi del 1929 colpì duramente la FIAT: nel 1930 al Lingotto l’occupazione era scesa sotto le 8.000 unità, e la produzione era crollata a meno di 19.000 vetture. Dal 1929 al 1931 le quotazioni delle azioni FIAT persero il 70%. Né valsero a risollevare le sorti del gruppo torinese il lancio della "Balilla" o della "Topolino". La soluzione fu un’altra: le commesse militari. -----
Dalla metà degli anni Trenta, la produzione militare della FIAT conobbe una crescita esponenziale. A partire dal 3 ottobre 1935, data di inizio dell’invasione italiana dell’Etiopia, sulla FIAT e su altre aziende da essa controllate si riversarono cospicue commesse belliche: in concreto le forniture di materiale automobilistico ammontarono a più di 855 milioni di lire. [7] Cosicché, nel giro di un anno, il fatturato della FIAT passò da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni (avrebbe superato i 2 miliardi nel 1937), e la manopera crebbe sino a raggiungere le 50.000 unità. Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori, che Mussolini avrebbe poi definito come la "fabbrica perfetta del regime fascista".
Nel frattempo, siccome un sagace imprenditore pensa non soltanto a se stesso, ma anche ai figli, Giovanni Agnelli, aveva pensato bene di far sì che il capitale della FIAT restasse sotto stretto controllo. Così nel 1932 il sindacato di controllo viene blindato attraverso un regolamento interno che garantiva la permanenza del pacchetto di maggioranza della FIAT nelle mani degli azionisti fondatori dell’IFI (Istituto Finanziario Industriale), ossia lo stesso Giovanni Agnelli e i figli. Da questo momento la FIAT è a tutti gli effetti, anche formalmente, di proprietà della famiglia Agnelli. [8]
"Torino, intatta nella sua virilità morale, nella sua disciplina fattiva, saprà superare la crisi e sviluppare i compiti che la Patria le ha assegnato"
(lettera di Giovanni Agnelli a Mussolini dopo
i bombardamenti su Torino, 5 febbraio 1943)
"Nel vagliare l’accusa di avere contribuito al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra, non si può astrarre dalla posizione soggettiva dell’incolpato. Altra è la responsabilità individuale del libero cittadino, per cui può diventare dovere imperativo la veste di perseguito o profugo politico; altra è quella, necessariamente a larga ripercussione collettiva, del capitano d’industria che deve pensare alle conseguenze di ogni suo atto od omissione rispetto alle industrie che a lui fanno capo"
(memoria predisposta dai difensori di Giovanni Agnelli contro il procedimento di epurazione, giugno 1945)
Se la guerra d’Etiopia aveva rilanciato fatturato ed utili della FIAT, lo stesso - e su scala ben più ampia - accadde durante i primi anni della seconda guerra mondiale. Già nel primo trimestre del 1940, la maggior quota di fatturato raggiunta rispetto allo stesso periodo del 1939 (+ 166 milioni di lire), era dovuta alle "maggiori esportazioni di camions, velivoli, motori d’aviazione". [9] Ed al momento dell’entrata in guerra, nel giugno del 1940, l’amministratore delegato della FIAT, Vittorio Valletta (che aveva assunto tale incarico nel 1939), richiesto dal governo di indicare le potenzialità della produzione bellica della FIAT, diede subito le migliori rassicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la "militarizzazione dei dipendenti", cosicché ognuno fosse "passibile, anche sul lavoro, delle sanzioni del Codice Militare di Guerra". Cosicché fu deciso che ogni infrazione o intralcio all’attività produttiva fossero puniti con il deferimento al Tribunale Militare. Quasi ogni attività della FIAT venne convertita alle esigenze belliche: dalle fabbriche del gruppo uscivano adesso motori d’aviazione, aerei caccia, autocarri, carri armati, unità speciali motorizzate. I risultati non si fecero attendere: il primo quadrimestre del 1941 la FIAT archiviò un risultato eccezionale, e - nonostante una pesantissima tassa sulle plusvalenze azionarie - il titolo della casa torinese crebbe in pochi mesi del 50-60%; le misure di tassazione dei dividendi furono in un primo momento soltanto minacciate, cosicché la società potè distribuire in anticipo i dividendi del 1941 senza pagare alcuna imposta.
I costi che la FIAT, ma soprattutto la città di Torino ed i suoi lavoratori, si trovarono di lì a poco a pagare furono di natura ben diversa: il 18 novembre 1942 cominciarono infatti furiosi bombardamenti anglo-americani sulla città. Gli impianti della FIAT risultarono gravemente danneggiati. Anche per la società torinese si approssimava la fine di un’epoca. Il 23 febbraio 1943 Giovanni Agnelli si dimise dalla carica di amministratore delegato (condivisa sino a quel momento con Valletta) e propose al Consiglio di Amministrazione di accogliere il nipote Gianni "nella famiglia della FIAT". Il 5 marzo iniziò una serie di scioperi, che a partire dall’11 marzo si estese a macchia d’olio a tutti gli stabilimenti. Nei volantini predisposti dal "Comitato operaio" guidato dal Partito comunista, si chiedevano miglioramenti salariali, ma anche "la pace e la libertà". Era il primo atto di ribellione di massa al regime fascista dopo quasi vent’anni di dittatura. Altri scioperi si ebbero dopo l’8 settembre, quando - con il tradimento e la fuga vergognosa del re e dello stato maggiore - la città e la FIAT erano cadute in mano ai Tedeschi. In particolare gli scioperi del marzo e del novembre 1944 scatenarono dure rappresaglie (migliaia di operai furono arruolati di forza o arrestati e deportati). Infine, nell’aprile 1945 gli operai assunsero il controllo della FIAT; in particolare, 800 di essi impedirono in armi la distruzione delle fabbriche da parte dell’esercito nazista in fuga. Il 28 dello stesso mese la radio annunciava l’apertura di un procedimento di epurazione nei confronti di Agnelli e Valletta.
"La FIAT potrebbe riuscire benissimo in qualunque regime economico, liberista o vincolista moderato, perché in Italia l’industria meccanica in generale e quella automobilistica in particolare, se pure hanno deficienza di materie, possono contare su un mercato basso della manodopera più che altrove e per decenni"
(Vittorio Valletta, testimonianza resa alla Commissione economica del ministero per la Costituente, 6 aprile 1946)
Ai primi di maggio del 1945 si insediarono alla FIAT quattro commissari nominati dal CLN. [10] Furono essi a gestire la FIAT per qualche mese, affiancati da un Comitato di gestione espresso dagli operai. Nel frattempo, le autorità alleate premevano per una chiusura positiva della procedura di epurazione. Che puntualmente avvenne. Alla FIAT venne richiamato Valletta (Giovanni Agnelli era morto nel dicembre 1945), il quale riprese nelle sue mani tutte le leve del potere aziendale. L’8 luglio del 1946 Valletta assunse anche la presidenza della società, e si recò anch’egli, come De Gasperi, in missione negli Stati Uniti. Il risultato di queste missioni è noto: l’esclusione delle sinistre dal governo (31 maggio 1947) e lo scongelamento degli aiuti finanziari USA all’Italia. Del maggio 1947 è anche la scissione del PSI, ad opera dei socialdemocratici di Saragat, che Valletta salutò con grande favore (e aiutò con generose donazioni).
La stretta monetaria del 1947 bloccò l’inflazione ma causò una forte recessione che colpì in particolare l’industria. Fu così creato un Fondo per l’industria meccanica, i cui stanziamenti andarono in gran parte alla FIAT. Ma soprattutto il 1948 fu un anno d’oro per la FIAT. Per due motivi (connessi tra loro): il lancio del Piano Marshall e la vittoria democristiana alle elezioni del 18 aprile 1948. [11]
Quanto ai finanziamenti del Piano Marshall, la FIAT ricevette da sola il 26,4% dei fondi devoluti al settore meccanico e siderurgico: complessivamente, ad essa andò più del 12% della totalità degli aiuti concessi all’industria italiana; ma, più in generale, il Piano creava le premesse per una ripresa economiica che avrebbe rilanciato la domanda di autovetture sul mercato italiano ed europeo.
Per quanto riguarda il 18 aprile, Valletta interpretò il risultato elettorale come il segnale, a lungo atteso, per ripristinare un ferreo controllo sulla forza-lavoro: "si può affermare chiaramente che il risultato delle elezioni del 18 aprile - disse in una riunione del Comitato direttivo FIAT - ha avuto un significato principale, quello che da parte di tutti c’è un desiderio di troncare con gli indugi, i rinvii, le discussioni e, attraverso ordine e disciplina, giungere a concrete, positive realizzazioni". [12] La posta in gioco non era quindi soltanto politica: si trattava di mantenere i salari quanto più possibile bassi e al tempo stesso procedere, senza più doversi confrontare con la resistenza da parte dei lavoratori (ed in particolare degli operai specializzati), alla "razionalizzazione" dei metodi produttivi sotto l’egida del fordismo, che di fatto solo nel secondo dopoguerra avrebbe definitivamente trionfato alla FIAT.
Dopo pochi mesi, Valletta mise al bando i Consigli di Gestione, dando inoltre il via a provvedimenti punitivi nei confronti di militanti comunisti e socialisti. A partire dal 1949 furono diverse migliaia i licenziamenti per "motivi disciplinari", i trasferimenti in un apposito "reparto confino", l’Officina Sussidiaria Ricambi (ribattezzata Officina Stella Rossa), come pure i casi di sospensione dei passaggi di categoria e di adibizione a mansioni più faticose e dequalificanti. [13] Ed infine vinse Valletta: alle elezioni per le Commissioni Interne del 29 marzo 1955 la FIOM-CGIL crollò dal 63,2% al 36,7% dei voti, perdendo metà dei suoi delegati.
Sino alla prima metà degli anni Cinquanta, però, perdurò l’asfittica debolezza del mercato dell’auto in Italia. Ma a soccorrere la FIAT venne ancora una volta una guerra: la guerra di Corea. "Probabilmente, nonostante certi innegabili segni di ripresa, l’industria italiana non avrebbe marciato a un passo più spedito se non avesse tratto vantaggio dagli effetti indotti nelll’economia occidentale dall’esplosione di un conflitto nell’Estremo Oriente [...]. La guerra scoppiata in Corea nel giugno 1950 rilanciò infatti il settore degli armamenti e mise in moto un vasto giro di lavorazioni complementari. Ciò valse anche per la FIAT: l’impatto della congiuntura coreana si rivelerà anzi tanto più incisivo in quanto la produzione automobilistica, in un mercato dalle potenzialità ancora modeste, non sarebbe bastata a sorreggere la sua ascesa". [14] In concreto, la FIAT ricevette dagli Stati Uniti commesse per la fabbricazione di ben 220 aerei da caccia "F86 K", e poi vinse una commessa NATO per la costruzione del caccia "G 91".
"Dicono che in Italia non c’è programmazione, non è vero: c’è, ma la fa il professor Valletta"
(Eugenio Scalfari, 1961)
Nel 1955 la FIAT produsse la sua prima utilitaria di successo: la "600". Nello stesso anno il Parlamento inoltre varò un piano decennale per la costruzione di autostrade, che avrebbe dato nuovo impulso alla domanda (Valletta partecipò, assieme ai massimi dirigenti dell’IRI, addirittura alle decisioni sui tracciati delle autostrade!). Nel corso del 1955 la produzione giunse a 232.000 vetture e i profitti raddoppiarono. Iniziava la motorizzazione di massa in Italia (il cui simbolo sarebbe stata la "500", prodotta nel 1957), e la FIAT ne coglieva i frutti, sia a motivo dell’aumento dei ritmi di produzione, che dei forti dazi (pari al 45% del valore) a cui erano assoggettate le vetture straniere: cosicché nel 1956 furono soltanto 3.500 le automobili straniere su 220.000 nuove immatricolazioni (una quota addirittura inferiore a quella degli anni Venti). [15] Si spiega così la battaglia condotta da Valletta per impedire l’abbattimento delle tariffe doganali nel Trattato istitutivo della CEE.
Nel 1957 il capitale della FIAT ammontava a 100 miliardi, il suo fatturato complessivo a 350. Di fatto, il fatturato della FIAT rappresentava il 2,5% dell’intero reddito nazionale (nel 1961 avrebbe raggiunto il 3%) ed il 35% del prodotto dell’industria meccanica. Si può dire che la FIAT incarnasse il rilancio dell’accumulazione postbellico. [16] Negli ultimi anni Cinquanta la crescita del PIL si attestò su un +5% annuo. E la FIAT, sfruttando l’aumento della domanda anche grazie all’ormai piena realizzazione della produzione di massa (catena di montaggio, meccanizzazione e parcellizzazione delle mansioni), superò nel 1960 il mezzo milione di vetture, pari a poco meno del 5% del mercato automobilistico mondiale. Quell’anno i dipendenti FIAT crebbero di 15.000 unità, passando da 92.000 a 107.000 in un solo anno. Masse di lavoratori emigravano dal sud convergendo verso Torino, dove si concentravano gli stabilimenti del gruppo e le fabbriche dell’indotto (il picco fu raggiunto nel 1961, con 84.000 immigrati).
Lo sviluppo della FIAT sembrava inarrestabile. In quegli anni non solo impiantò stabilimenti automobilistici in Jugoslavia, Argentina, Spagna, ma mise a segno un risultato clamoroso, concludendo un accordo (firmato nel 1966) per costruire uno stabilimento in URSS, a Togliattigrad. -----
"Alla verniciatura di Mirafiori, per rendere più rapido il ciclo, le scocche uscivano ancora calde dai forni, prima che i getti d’aria riuscissero a raffreddarle, con il risultato che gli operai si ustionavano i polpastrelli delle dita e a fine giornata avevano le mani gonfie. Si era andati oltre i livelli di saturazione previsti e il sistema non era più sotto controllo"
(G. Berta, Mirafiori, pp. 65-6)
L’èra di Valletta finì nell’aprile 1966, allorché Gianni Agnelli lo sostituì come presidente della FIAT, affiancato dall’ing. Bono nelle cariche di amministratore delegato e direttore generale. Il suo modello di relazioni industriali era però finito quattro anni prima. Nel 1962, infatti, una serie di scioperi costringe la FIAT ad intavolare negoziati a tutto campo (anche con la FIOM, con la quale da 8 anni l’azienda si rifiutava di trattare). Il risultato è un contratto aziendale che prevede tra l’altro la contrattazione degli incentivi (prima assolutamente discrezionali) e una qualche forma di controllo sindacale sui tempi di lavoro. A gennaio 1963 viene firmato anche il contratto nazionale dei metalmeccanici, che prevede discreti aumenti salariali. Cosa del resto tutt’altro che scandalosa, tenuto conto del fatto che, stando agli stessi dati ufficiali della FIAT, nel periodo 1954-1960 il salario di un operaio di terza categoria era cresciuto del 38%, a fronte di un fatturato quasi raddoppiato (+98%), e di profitti netti addirittura quadruplicati.
Dove invece le cose non erano cambiate affatto, era nel controllo della FIAT da parte degli Agnelli. Al contrario, proprio nel 1962 - sotto l’accorta regia della Mediobanca di Cuccia - fu allargata la base finanziaria dell’IFI attraverso il collocamento in Borsa di azioni privilegiate: in questo modo la famiglia Agnelli poté mantenere il controllo sulla società (e quindi sulla FIAT) senza dover investire altro denaro. Sotto il controllo dell’IFI (che non possedeva soltanto la FIAT e le società da questa controllate, ma anche la Rinascente e la Cinzano, oltre a titoli dell’industria cementiera) c’era qualcosa come l’11% del sistema industriale italiano.
Dal maggio 1963 il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, per controllare l’inflazione (in realtà per bloccare la dinamica salariale), si fece promotore di una stretta creditizia che causò la prima recessione dagli anni Cinquanta. Ma già nel biennio 1966 e 1967 la FIAT tornava ad inanellare risultati notevoli: era suo il 21% della produzione a livello di Mercato comune europeo, ed il 6% di quella mondiale; nel complesso la FIAT era al 5° posto a livello mondiale, dopo le americane Ford, General Motors e Chrysler e la tedesca Volkswagen. Non per questo perse le vecchie abitudini protezionistico-monopolistiche: ad es., nel 1966 tentò senza successo di bloccare in tutti i modi la costruzione dello stabilimento Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco dove si sarebbe costruita l’Alfasud.
Il biennio successivo, risultati notevoli li conseguì la classe operaia. I problemi principali che diedero origine agli scioperi del 1968 erano l’appesantimento dei carichi di lavoro, l’accelerazione del ritmo di produzione, a fronte della diminuzione dei salari reali (bloccati dalla manovra deflazionistica del 1963-4). L’operaio che entra in sciopero nel 1968 è però una figura diversa da quella del passato: la composizione della classe operaia ha visto, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il progressivo aumento degli "addetti macchina", ossia di operai non specializzati che svolgono mansioni rigidamente esecutive, non di rado assai logoranti fisicamente. Questa figura operaia (l’"operaio massa") ha soppiantato in FIAT l’operaio di mestiere, passando dal 43,6% della forza-lavoro nel 1953 al 70% della fine degli anni Sessanta. Su di essa aveva puntato Valletta, contando sulla minore consapevolezza e coscienza di classe di questa categoria di operai. La novità del biennio 1968-9 sta tutta qui: nel fallimento di quel progetto, e nella creazione - proprio a partire dall’operaio massa - di una nuova soggettività di classe. Questa soggettività si espresse, il 30 marzo 1969, con uno sciopero che colse di sorpresa gli stessi sindacati e paralizzò gli stabilimenti FIAT. Nel corso del 1969-70 le azioni di protesta si intensificarono assumendo caratteristiche inedite sia sotto il profilo degli obiettivi (che cominciarono a riguardare anche le condizioni di vita fuori della fabbrica), che sotto quello delle modalità: in particolare, il blocco della catena di montaggio fece leva sulla rigidità stessa dell’organizzazione fordista del lavoro, facendone il più efficace strumento di lotta. [17] Le lotte dell’"autunno caldo" consentirono di conquistare tanto il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (nel dicembre 1969), quanto lo Statuto dei lavoratori (1970) ed il riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971).
Nel gennaio del 1970 Umberto Agnelli affianca come amministratore delegato della FIAT l’ing. Bono (destinato a dimettersi dalla carica l’anno successivo). In questo modo la famiglia Agnelli prende le leve del comando direttamente nelle proprie mani. Nello stesso anno viene inaugurato lo stabilimento di Termini Imerese e si decide di avviare la costruzione di diversi nuovi stabilimenti al sud (Cassino, Termoli, Bari, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò e Brindisi): in questo modo, oltre a valersi di cospicui finanziamenti pubblici, la FIAT pone le premesse per "decongestionare" la concentrazione operaia di Torino ed avvalersi di manodopera più docile. Di maggiore importanza strategica è un altro tipo di risposta alle lotte operaie: l’avvio dell’automazione in fabbrica. Il punto di vista della FIAT è correttamente descritto da Castronovo: "si trattava di non arroccarsi nella difesa ad oltranza del lavoro di tipo fordista, che avrebbe continuato a generare motivi sempre più aspri e pregnanti di conflittualità operaia e dato modo al sindacato di tenere sotto continua pressione l’azienda, bensì di sperimentare nuove tecnologie che rendessero più flessibili, se non tutte, quantomeno le fasi più complesse e pesanti della lavorazione. Si pensava in pratica che, più presto si fosse proceduto sulla via dell’automazione, più presto sarebbe calata la forza d’urto del sindacato e cresciute invece le capacità d’iniziativa e di comando della direzione d’impresa" [18]. E in effetti le cose sarebbero andate proprio così.
Intanto, il decennio si apre all’insegna della crisi: con la svalutazione del dollaro, nel 1971, salta il regime dei cambi fissi e più in generale il sistema di Bretton Woods, con il corollario di una reviviscenza di misure protezionistiche, a cominciare dagli Stati Uniti. Crolla il tasso di accumulazione (che da allora non ha più raggiunto i livelli conosciuti nel decennio precedente). Per quanto riguarda specificamente il settore automobilistico, si avvicina la saturazione del mercato (con un ritmo di crescita della domanda per gli anni Settanta stimato in 2-3%, a fronte dell’8-9% del decennio precedente), e con essa una classica crisi da sovrapproduzione. Poi, a mettere in ginocchio il settore, verrà anche la crisi petrolifera (1973), che colpirà in misura particolarmente severa proprio la FIAT.
Il bilancio 1973, per la prima volta da molti anni, è in perdita (-150 miliardi di lire nel settore auto). Il 2 ottobre 1974 la FIAT pone in cassa integrazione 65.000 operai, riducendo improvvisamente la capacità produttiva di un terzo. Contemporaneamente, per ristrutturare il debito (i debiti a breve ammontavano a 1.800 miliardi), viene assunto Cesare Romiti. Già in questa fase emerge un problema che si riproporrà periodicamente sino ai giorni nostri: il nucleo di controllo della FIAT, composto dalla famiglia Agnelli per il tramite dell’IFI, non è in grado di affrontare una ricapitalizzazione. Si sceglie di fatto la strada opposta: diversificare (anche attraverso operazioni di scorporo di ramo d’azienda), con l’obiettivo di giungere entro il 1985 a realizzare il 50% del fatturato del gruppo in un settore diverso dall’auto. La situazione del settore auto, intanto, non migliora: lo stesso Gianni Agnelli ammetterà che "il 1975 è stato per il settore auto l’anno più difficile dalla fine della guerra"; difficile dargli torto, con vendite in calo del 25%, e la FIAT precipitata al 10° posto tra i produttori automobilistici mondiali.
Nel 1976, mentre la crisi si aggrava ulteriormente, viene cooptato nel vertice del gruppo Carlo De Benedetti. Ma ben presto sarà costretto a fare le valige, lasciando di fatto campo libero a Romiti. Al di là di faide manageriali poco edificanti, il motivo del benservito a De Benedetti risiede nel fatto che la sua strategia prevedeva un importante aumento di capitale da parte dell’IFI. Che però era a sua volta indebitata. Sarebbe quindi stato necessario far ricorso direttamente al mercato, con il risultato di diluire la quota della FIAT in mano alla famiglia Agnelli. E questa ritenne che fosse più comodo mandar via l’ingegnere. L’aumento di capitale poi fu fatto, facendo sottoscrivere ai libici della Lafico un 10% circa di azioni ordinarie FIAT, ma con clausole contrattuali che garantivano all’IFI di mantenere saldamente il controllo della società. Ancora una volta, la proprietà familiare della FIAT era salva. In compenso, la situazione della FIAT continuò a peggiorare anche in presenza di una ripresa del mercato, a partire dal 1978.
Il 1979 si apre con la nomina dell’ing. Ghidella a capo di Fiat Auto e con una ripresa degli investimenti nell’auto (che si attestano al 31% degli investimenti del gruppo, contro il misero 20% di tre anni prima). Ma il fatto più significativo di quell’anno riguarda le relazioni industriali, e consiste nel licenziamento di 61 operai, accusati di essere violenti o addirittura terroristi: in realtà, in sede giudiziale i licenziamenti saranno contestati uno per uno. Ormai, però il test era andato a segno: anche perché lo sciopero contro i licenziamenti era sostanzialmente fallito.
Nel 1980 la crisi dell’auto, anche grazie al secondo shock petrolifero, assume proporzioni mondiali e coinvolge tanto i produttori americani quanto gli europei (con la sola eccezione della Volkswagen). Quanto alla FIAT, l’indebitamento (6.800 miliardi) è ormai pari al fatturato e più del doppio del patrimonio netto. A questo punto Umberto Agnelli chiede al governo due cose: la svalutazione della lira e la libertà di licenziare. La prima richiesta non andrà a buon fine, per quanto riguarda la seconda la FIAT farà da sé. A luglio Umberto Agnelli si dimette da amministratore delegato. Gli subentra Romiti, che l’11 settembre annuncia il licenziamento di 14.400 lavoratori, successivamente trasformato in cassa integrazione a zero ore per 23.000 lavoratori per due anni. Inizia uno sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti, che termina con una bruciante sconfitta, anche a seguito della marcia dei capi intermedi contro lo sciopero. [19] I 23.000 lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore (che presto diventeranno 33.000), tra cui centinaia di delegati di fabbrica, resteranno fuori dalla FIAT sino al 1987, in violazione di ogni accordo; al loro rientro, saranno collocati in "reparti confino". Centocinquanta di loro si toglieranno la vita. [20] Comincia un periodo di dura restaurazione in fabbrica, ed una svolta a destra nel Paese.
"Ho dovuto affrontare un conflitto d’interpretazione del ruolo della FIAT all’interno del Gruppo. Per Ghidella prevale la visione autocentrica, mentre per me la FIAT è una holding industriale e finanziaria"
(G. Agnelli, discorso ai dirigenti della FIAT,
25 novembre 1988)
Tra le condizioni che resero possibile la vittoria padronale dell’Ottanta un ruolo decisivo giocarono senz’altro le innovazioni tecnologiche introdotte in fabbrica a partire dal 1973. Ha scritto Revelli: "se la FIAT poté permettersi di eliminare d’un colpo, senza flessioni produttive, 23.000 lavoratori dal proprio processo lavorativo; se poté realizzare, senza alcun contraccolpo sui livelli produttivi, la più clamorosa operazione di normalizzazione politica del secondo dopoguerra [...], ciò fu reso possibile da un salto in avanti della produttività maturato silenziosamente nel corso del quinquennio precedente. Fu reso cioè possibile da una trasformazione strutturale dei sistemi lavorativi". [21] Tale trasformazione automatizzò le lavorazioni più faticose e nocive (quali la lastroferratura, la verniciatura e l’assemblaggio di scocca e parti meccaniche) e rese autonome le fasi della lavorazione, eliminando di fatto la tradizionale catena di montaggio. Inizia l’era della "flessibilità", che è prima di tutto flessibilità ed isolamento della forza-lavoro, e conseguentemente drastica riduzione del suo potere contrattuale.
Per quanto riguarda gli andamenti di mercato, solo nel 1983, con il successo della "Uno" (400 mila vetture vendute), la FIAT cominciò ad uscire dalla crisi, e nel 1984 tornò ad essere prima per vendite in Europa. Peraltro l’organico era sceso da 350.000 a 230.000 lavoratori, e la riduzione del costo della forza-lavoro sul fatturato era crollato dal 27% al 18%. L’utile consolidato salì nel 1985 a 1.682 miliardi di lire, e l’anno successivo giunse a 30.000 miliardi, con un ritorno sul capitale proprio addirittura del 45,5%. Questi risultati consentirono nel 1986 di ricomprare la quota detenuta dai libici. [22]
Come se non bastasse, nell’86, ad aiutare la FIAT intervenne anche la "mano visibile" del Governo italiano, che regalò l’Alfa Romeo alla casa torinese, bloccando all’ultimo momento la firma dell’accordo di vendita della società automobilistica pubblica alla Ford. La cifra della transazione è memorabile: 1.000 miliardi di lire (equivalenti ai contributi che la FIAT all’epoca percepiva dallo Stato), per di più pagabili in comode rate decennali. Avendo già acquisito la Lancia, l’Auto Bianchi e la Ferrari, la FIAT aveva così il controllo dell’intera produzione automobilistica nazionale.
All’inizio del 1987 viene inoltre costituita la Accomandita Giovanni Agnelli e soci, società non quotata a cui vengono conferite il 75% delle azioni IFI che erano di proprietà degli Agnelli. La proprietà familiare della FIAT è messa la sicuro ancora per un po’. Nell’87 il gruppo FIAT contava qualcosa come 750 società controllate, guadagnava come gli altri 60 gruppi industriali messi assieme, e totalizzava il 4% del PIL nazionale. Già alla metà degli anni Ottanta le partecipazioni FIAT capitalizzavano ormai un quarto dell’intera Borsa italiana. Tra esse c’erano società come Snia, Gemina (Rizzoli e Corriere della Sera), Magneti Marelli, Unicem, Sorin, Olcese, Toro Assicurazioni, Rinascente. Si può pertanto affermare che già alla metà degli anni Ottanta si profili quella trasformazione della FIAT in holding finanziaria che poi sarà realizzata pienamente nel corso degli anni Novanta. In altri termini: i profitti dell’auto cominciano già in questo periodo ad essere reinvestiti altrove.
E proprio su questo nel 1988 si accese uno scontro ai vertici della FIAT, tra l’ing. Ghidella - a capo della FIAT Auto - e Cesare Romiti. Il motivo del contendere riguardava la focalizzazione di business: Ghidella premeva per spingere sull’automobile come cuore del gruppo, Romiti puntava a "diversificare", ossia a trasformare definitivamente la FIAT in una holding finanziaria di partecipazioni appartenenti a diversi settori (finanza, assicurazioni, editoria, ecc.). Ghidella perse, e Romiti divenne amministratore delegato del gruppo. Gli effetti di questa scelta non avrebbero tardato a manifestarsi. -----
Gli anni Novanta segnano una netta inversione di tendenza rispetto al decennio precedente: la FIAT perde vistosamente posizioni sia sul mercato domestico che su quello europeo, mentre concorrenti come Ford, Renault, Peugeot e Volkswagen migliorano le loro. Nessuna meraviglia, se si pensa al fatto che dal 1988 al 1993 la FIAT non aveva prodotto alcun nuovo modello. A peggiorare la situazione, si aggiunse nel 1993 lo smantellamento delle ultime barriere alla circolazione di merci nella Comunità Europea. Era giunto il momento che Valletta aveva tanto temuto: quello di doversi confrontare con la concorrenza senza più scudi protezionistici, di natura tariffaria o di altro genere. I risultati non si fecero attendere: quota sul mercato europeo ridotta al 12%, e perdite per oltre 1.800 miliardi.
Cosicché si corse ai ripari, ma tenendo fede alle migliori tradizioni della casa: attuando innanzitutto una gigantesca ricapitalizzazione della FIAT (4.285 miliardi) sotto la regia di Mediobanca, che fece entrare nell’azionariato FIAT nuovi azionisti quali la stessa Mediobanca, Deutsche Bank, le Generali e Alcatel. Questi azionisti composero, assieme alle finanziarie di famiglia IFI e IFIL, un sindacato di blocco che avrebbe mantenuto il controllo della FIAT nelle solite mani. Ossia, in ultima analisi, in quelle degli Agnelli: infatti una clausola del patto diceva a chiare note che nessuna decisione avrebbe potuto essere presa senza il loro consenso. D’altro lato, Mediobanca avrebbe sin d’ora esercitato un forte potere di condizionamento, e questo rafforzò in particolare Romiti, che godeva per l’appunto della fiducia di Cuccia e di Mediobanca.
Romiti affrontò la situazione in perfetta continuità con il recente passato: proseguendo la "diversificazione", ossia la finanziarizzazione del gruppo; chiedendo lo "stato di crisi" e licenziando (questa volta, però, anche molti impiegati e capi); [23] assumendo giovani in contratto di formazione-lavoro, per pagarli di meno; aprendo nuovi stabilimenti nel sud (Melfi e Pratola Serra) per giovarsi dei previsti contributi pubblici e operare - come afferma delicatamente Castronovo - "in un ambiente socio-economico non ancora sfiorato dall’industrialismo e dai suoi risvolti conflittuali [sic!]". [24]
Si è molto cianciato dei formidabili risultati produttivi e di mercato dei nuovi stabilimenti, della "qualità totale", del nuovo "modello partecipativo" introdotto dalla FIAT. La verità è ben diversa: se in qualche momento degli anni Novanta si è registrata una ripresa della FIAT, ciò è stato dovuto essenzialmente alla svalutazione del 30% della lira avvenuta nel 1992. E non appena i suoi effetti sono svaniti, le vendite della FIAT hanno ripreso a crollare. Tant’è vero che a soccorso della FIAT è dovuta arrivata nel 1996 la "rottamazione" decisa da Prodi e Bersani. [25]
Peraltro, proprio mentre il governo varava gli ennesimi incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto, la FIAT spostava produzioni all’estero, con il risultato che nel 2001 il 66% del fatturato era realizzato all’estero (nel 1990 era il 44%); più del 50% della forza-lavoro operava fuori d’Italia (nel 1990 era il 22%); e all’estero era fabbricato il 47% delle macchine prodotte (nel 1990 era il 17%). [26] Purtroppo per i conti di FIAT Auto, questo ingente sforzo delocalizzativo non ha dato i risultati sperati, a causa delle crisi che hanno sommerso i "mercati emergenti" nel 1997-98.
Nel 1998 Paolo Fresco subentra come presidente della FIAT a Romiti (che a sua volta era subentrato nel 1996 a Gianni Agnelli, divenuto presidente onorario), e, vista la situazione, nel 2000 negozia con la General Motors un accordo che prevede la cessione del 20% di FIAT Auto, e l’opzione a comprare il restante 80% nel 2004. [27]
Negli anni successivi la situazione continua a peggiorare. Se il 2001 si era chiuso malissimo, con un reddito operativo che non era sufficiente neppure a pagare gli oneri finanziari, nel 2002 la situazione tracolla. A fine maggio, l’esposizione complessiva di FIAT raggiunge i 35,5 miliardi di euro. In prima fila tra i creditori, ovviamente, ci sono le banche italiane, esposte per un valore di 8,4 miliardi di euro. [28] Per di più, buona parte del debito è a breve.
Scatta quindi l’operazione di salvataggio-ristrutturazione del debito FIAT da parte delle banche (Sanpaolo, Intesa, Bancaroma, Unicredito), che allungano a 3 anni la scadenza di 3 miliardi di euro di debiti a breve. In cambio del riscadenzamento, FIAT accetta un piano di dimezzamento dei debiti, e intanto dà il benservito all’amministratore delegato Cantarella (che va a casa con appena 40 miliardi di lire di liquidazione). [29] Se il piano non sarà realizzato nei tempi previsti, le banche potranno trasformare i loro crediti in azioni della società.
Siamo a luglio e la FIAT presenta il suo nuovo Piano Industriale, che prevede pesanti misure (in primo luogo, non lo credereste, tagli di personale per 3.800 unità). La FIOM e i sindacati di base (CUB, FLMU e SLAI-COBAS dell’Alfa) sono i soli sindacati a contestare il piano, giudicandolo totalmente inadeguato. E in effetti col passare dei mesi la situazione peggiora con rapidità impressionante. Il 9 ottobre la FIAT chiede al governo lo "stato di crisi". Il "piano di ristrutturazione" presentato dall’azienda, con 8.100 tra operai ed impiegati in cassa integrazione dal 2 dicembre (la metà dei quali - nelle intenzioni della FIAT - non tornerà in fabbrica), assomiglia molto da vicino ad un vero e proprio smantellamento della FIAT Auto. Ormai è chiaro che entro la fine dell’anno la FIAT perderà 2 miliardi di euro.
Anche dal punto di vista delle quote di mercato, siamo al punto più basso di un declino ormai più che decennale. In Italia, la percentuale delle auto vendute da FIAT era del 60,42% nel 1986. Nel novembre 2002 è stata del 28,1%. In Europa (Unione Europea, Italia inclusa, più Svizzera) la quota FIAT era del 13,85% nel 1990, al secondo posto dopo la Volkswagen. Nel novembre 2002 è stata del 7,7%, e la FIAT è ora all’ottavo posto, dopo Volkswagen, Peugeot, Fords, GM, Renault e i produttori giapponesi. [30] Le cose non vanno bene neppure fuori d’Europa. Così, per il 2000 il piano industriale FIAT prevedeva la produzione di 1.000.000 di vetture (i modelli Palio e Siena) in zone extra UE, di cui 400.000 in Brasile, 100.000 in Argentina, 50.000 in Polonia. I risultati del 2001 ammontavano invece a 400.000 vetture in totale e, per i Paesi citati, rispettivamente a 270.000, 31.000 e 6.000 unità. Addirittura desolanti, poi, i risultati ottenuti in due grandi mercati quali l’India (previste 100.000 unità, realizzate meno di 9.000), e la Cina (previste 100.000, realizzate... 0). [31]
In questa situazione, le principali agenzie di rating internazionali dichiarano possibile il declassamento del debito FIAT al livello dei titoli "spazzatura" (junk), cosa che avviene il 23 dicembre. [32] Nel frattempo, le lotte dei lavoratori impongono la vicenda FIAT come un caso di assoluta rilevanza. Ai piani alti delle stanze del potere, dopo un tentativo fallito di Mediobanca e Berlusconi di appropriarsi della FIAT (e del "Corriere della Sera"), prendono a circolare voci di una proposta di Colaninno per acquisire una partecipazione di controllo in FIAT, avviandone la ricapitalizzazione. [33] Al momento in cui scriviamo, non è dato conoscere i dettagli dell’operazione (e soprattutto del relativo piano industriale per il rilancio dell’azienda). Una cosa, però, è certa: i capitali necessari per un risanamento dell’azienda sono ingenti, e decisamente non appare praticabile il meccanismo della scalata di Colaninno su Telecom (comprare un società a debito, facendolo poi pagare a questa stessa società).
Ora, è evidente che all’esplosione della crisi FIAT hanno contribuito tanto una crisi congiunturale, quanto gli specifici problemi del settore auto. In effetti, una (grave) crisi congiunturale investe tanto l’Europa, quanto il Giappone e gli Stati Uniti, nonché molti Paesi in via di sviluppo (e nell’unico grande Paese che registra tassi di crescita considerevoli, la Cina, la FIAT come abbiamo visto non è presente). Questa crisi ha ovvi e pesanti riflessi sul mercato dell’auto. Ma, al di là della congiuntura, il settore dell’auto è investito da una vera e propria crisi strutturale da sovrapproduzione. Nel maggio 2002 su un articolo del Wall Street Journal si poteva leggere che "i costruttori possono produrre 22 milioni di automobili di troppo ogni anno, 22 milioni in più di quelle che i consumatori compreranno." Di qui il forte processo di concentrazione del settore che non ha conosciuto soste dal 1970 (anno di inizio della fase di crisi che tuttora perdura): nel mondo i produttori di auto indipendenti erano 40 nel 1970. Sono scesi a 14 nel 2001. Saranno 7 nel 2010. [34]
Detto questo, va anche rilevato che alcuni produttori (Peugeot, BMW, Honda Daimler-Chrysler...), stanno espandendo la loro capacità produttiva. Insomma, anche in una fase come l’attuale c’è chi vince e c’è chi perde. Ci sono episodi che raffigurano emblematicamente questa diversità di destini. Ad esempio, negli stessi giorni di fine maggio in cui le banche si accordavano con la FIAT per trasformare i debiti a breve in debiti a medio-lungo termine, la Peugeot lanciava i turni lavorativi nel week-end per poter soddisfare la domanda della "307". Non solo: il 28 ottobre la stessa casa automobilistica ha pubblicamente annunciato la costruzione di una nuova fabbrica in Europa per poter raggiungere, entro il 2006, l’obiettivo di 4 milioni di veicoli prodotti. [35]
Proviamo, quindi, a passare in rassegna alcune cause più specifiche della crisi della FIAT.
1) Struttura proprietaria anacronistica (capitalismo familiare). A questo proposito è stato notato che è un nonsenso pensare ad un’"impresa transnazionale di tipo famigliare": infatti una struttura proprietaria di questo tipo non è in grado di dotare l’impresa di capitali sufficienti per il mantenimento di posizioni competitive accettabili. [36] Tanto più che la famiglia Agnelli è nota per l’ampiezza della sua rete parentale (120 sono i membri della famiglia, a ciascuno dei quali spetta la sua brava quota di dividendi...). Tutto vero. Va però notato che questa spiegazione, da sola, non è sufficiente a spiegare la crisi FIAT: anche perché non va dimenticato che una delle principali società automobilistiche tedesche, la BMW, è per il 49% di proprietà familiare (della famiglia tedesca Quandt), e nonostante questo va benissimo.
2) Una politica errata di fusioni e acquisizioni. L’unica acquisizione di rilievo fatta da FIAT Auto negli ultimi vent’anni è quella dell’Alfa Romeo. In compenso, FIAT ha perso Seat (venduta nel 1981), e non è riuscita nell’intento di acquisire né Volvo, né Daewoo. Nello stesso periodo di tempo, Volkswagen ha acquisito marchi come Seat, Skoda, Audi. Risultato: la produzione del gruppo Volkswagen è oggi di 5 milioni di unità all’anno. Quella FIAT è inferiore ai 2 milioni e mezzo. La soglia minima per essere competitivi è stimata in circa 4 milioni di unità prodotte all’anno.
3) Modello di globalizzazione "povera". [37] La FIAT ha sottratto risorse al mercato europeo per lanciarsi in avventure rivelatesi fallimentari nei Paesi in via di sviluppo, sperando di poter lanciare un’"utilitaria globale" (world car), operazione riuscita solo in parte (in definitiva solo in Brasile, dove FIAT ha superato le quote di mercato di Volkswagen). In verità, come dimostrano i dati riportati più sopra, il problema vero è che FIAT non è riuscita a penetrare nei mercati più promettenti (India e Cina): da questo punto di vista, non si è globalizzata troppo, ma troppo poco. E del resto l’espansione in aree diverse dall’Europa non implicherebbe affatto, di per sé, un crollo delle quote di mercato come quello patito da FIAT nel suo originario mercato di riferimento.
4) Esternalizzazione selvaggia di funzioni produttive. L’"outsourcing" (parola chiave di tutti i consulenti aziendali degli anni Ottanta e Novanta, assieme al "downsizing" - ossia al licenziamento di lavoratori) è stato in effetti praticato da FIAT in misura tale che intere porzioni di produzione, anche strategiche (ad esempio la progettazione di nuovi modelli), sono state collocate al di fuori dell’azienda. Verissimo. Peccato che sino a poco tempo fa questo genere di "esternalizzazione" fosse magnificato da tutti, ma proprio tutti, gli "esperti" di politica aziendale...
5) Investimenti insufficienti in ricerca e sviluppo tecnologico. Che la FIAT investa poco in sviluppo tecnologico (come del resto la media delle imprese italiane) è noto. La misura di questo deficit di investimento, però, è decisamente sorprendente. I dati li ha citati il governatore della Banca d’Italia Fazio l’11 ottobre scorso: la FIAT nel decennio compreso tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha destinato agli investimenti in ricerca 4 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la Volkswagen (che all’epoca aveva le stesse dimensioni di FIAT) ne ha spesi 20, BMW (all’epoca più piccola di FIAT) ha speso 8 miliardi. [38]
6) Operazioni finanziarie azzardate. Gli esempi non mancano. Ad esempio, FIAT negli anni scorsi ha ritirato dal mercato le quote di minoranza di Toro, Magneti Marelli e Comau, pagandole un’enormità. Inoltre ha fatto acquistare, dalla controllata americana New Holland (tra i leader mondiali nei trattori e nelle macchine di movimento terra), la società concorrente Case per 4,3 miliardi di dollari (per la cronaca, attualmente la partecipazione del gruppo FIAT nella Case New Holland è valutata meno di 1,1 miliardo di dollari).
Tutto vero. Detto questo, in genere i soldi i capitalisti non li spendono per caso. Per mettere qualche punto fermo, proviamo a partire proprio da qui. -----
1) La mutazione della FIAT: da società industriale a holding finanziaria di partecipazioni
Recentemente, il giornale della Confindustria ha proposto una tesi degna di nota: la crescita dell’indebitamento della FIAT "non è venuta tanto dalla FIAT Auto, passata dai 15 miliardi di euro di esposizione del 1997 ai 17,3 del 2001, quanto dal tentativo di sviluppare e diversificare il gruppo in altri settori per cercare di sostituire con questi la redditività decrescente dell’automobile. Invece di utilizzare la leva debitoria per tentare di riportare in carreggiata la gestione industriale degli autoveicoli, la FIAT ha cominciato ad investire in altri campi". [39] Per converso, "dal 1995 la FIAT ha investito sulle quattro ruote assai meno dei suoi principali concorrenti". [40]
Il punto è questo: dalla fine degli anni Ottanta la regìa delle scelte di investimento finanziario del gruppo è stata orientata verso settori diversi da quello dell’automobile, secondo una logica che privilegia investimenti a maggiore o più certa redditività.
L’elenco di questi settori di investimento è lungo. Ecco i dati essenziali:
a) Assicurazioni. Controllo al 100% della Toro Assicurazioni e tentativo (fallito nel 2002) di creare il secondo polo assicurativo italiano, impadronendosi anche di SAI e Fondiaria.
b) Banche. Gli Agnelli sono azionisti di due tra i principali gruppi bancari italiani: di Capitalia (ex Banca di Roma), tramite la Toro, possiedono il 6,6%; del Sanpaolo-IMI, tramite le finanziarie di famiglia IFIL e IFI, circa il 5%.
c) Grandi magazzini. Negli ultimi mesi del 2002 (cioè mentre esplodeva la crisi di FIAT Auto) le finanziarie di famiglia degli Agnelli, IFI e IFIL hanno lanciato un’OPA sulla Rinascente (che già controllavano), per un impegno finanziario di 180 milioni di euro.
d) Macchine di movimentazione terrestre. Controllo di Case New Holland.
e) Settore aerospaziale. Controllo di FIAT Avio.
f) Settore turistico. IFIL possiede il 100% di Alpitour, il 25% di Sifalberghi, il 7,2% di Club Med.
g) Telecomunicazioni. FIAT non è riuscita a tenersi la Telecom (nonostante gliene avessero graziosamente regalato il controllo, al tempo della privatizzazione, contro il possesso dello 0,6% del capitale). In compenso ha il 33% di Atlanet, controlla Edisontel (tramite Edison), ed è presente con una quota di minoranza in IPSE.
h) Energia. Nell’estate 2001 ha comprato (assieme alla francese EdF) la Edison, secondo produttore italiano di energia elettrica. Probabilmente è proprio questa la scommessa più importante fatta dalla FIAT negli ultimi anni. Sembra che Paolo Fresco, nel famigerato incontro ad Arcore del 2 ottobre scorso, abbia detto a Berlusconi: "fateci fare dieci nuove centrali elettriche e noi riassumeremo una parte dei dipendenti licenziati da FIAT Auto". [41]
2) La scialuppa di salvataggio delle privatizzazioni
Nella fuga dall’auto verso altri settori, le politiche dei governi che si sono alternati al potere da dieci anni a questa parte hanno grandemente contribuito. In particolare, le privatizzazioni e (semi)liberalizzazioni, hanno dato un formidabile contributo a questo processo, consentendo a capitalisti industriali in difficoltà di dirigersi su mercati sottratti alla concorrenza internazionale, quali quelli delle imprese di pubblica utilità (le public utilities). Ottenendo un duplice, brillante risultato: la creazione di oligopolisti privati nell’erogazione di servizi di pubblica utilità e la distruzione del tessuto industriale del nostro Paese.
Può sembra un’affermazione eccessiva. Però ormai queste cose le ammettono anche i quotidiani finanziari. Ecco, ad esempio, cosa scriveva Giangiacomo Nardozzi sul Sole-24 Ore lo scorso 20 ottobre: "la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili profitti". E il Financial Times, già il 31 maggio scorso, dopo aver parlato di "un declino inevitabile del legame affettivo [sic!] della famiglia Agnelli nei confronti del business dell’auto", notava che tale tendenza è "accentuata dal successo degli Agnelli nell’acquisire forti business al di fuori del settore auto".
A onor del vero, va aggiunto che la FIAT è in buona compagnia: fenomeni analoghi riguardano attualmente tanto il gruppo Pirelli (acquisto di Telecom), quanto il gruppo Benetton (Autogrill e Autostrade). È insomma l’intero gotha del mondo manifatturiero italiano che si trasforma in un "capitalismo delle bollette".
3) Il basso costo del lavoro come unica leva competitiva
La "ritirata strategica" dal settore manifatturiero alle public utilities contribuisce a spiegare i mancati investimenti nel settore dell’auto, la politica di taglio dei costi senza respiro, la mancanza di una chiara e convinta visione strategica. Però non spiega come sia stato possibile per gli Agnelli credere (almeno sino al 2000 e all’accordo con GM) di poter mantenere comunque una presenza autonoma nel settore auto. A questo riguardo non vanno dimenticati gli incentivi pubblici, che hanno ritardato e occultato la crisi: basti pensare che soltanto negli anni Novanta la FIAT è stata destinataria di non meno di 11 mila miliardi di lire di agevolazioni pubbliche. [42] Ma è soprattutto un altro fattore che ha pesato nella scelta di FIAT di continuare sino all’ultimo su una strada rovinosa: mi riferisco alla riduzione del costo del lavoro, considerato come leva esclusiva per la competitività.
Di fatto, l’unica strategia perseguita con coerenza dalla FIAT in tutti questi anni, a partire dalla storica sconfitta operaia del 1980, è stata la compressione del costo della forza-lavoro. Attraverso salari tra i più bassi d’Europa nel settore, ed un uso molto spinto della cosiddetta "flessibilità": licenziando e mettendo in cassa integrazione lavoratori assunti a tempo indeterminato, per sostituirli con il lavoro straordinario, con l’utilizzo di lavoratori precari e sottopagati e con l’esternalizzazione di parti sempre più importanti del processo produttivo. Il punto è che la FIAT, illudendosi di poter sostenere la competizione in questo modo, ha trascurato di fare i necessari investimenti in ricerca e sviluppo e si è trovata rapidamente fuori mercato. È importante sottolineare con forza questo aspetto della crisi FIAT. E questo per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché l’ossessione del costo del lavoro e della flessibilità rappresentano uno dei più ricorrenti (e nauseanti) luoghi comuni della pubblicistica di questi anni. In secondo luogo, perché questa ossessione è stata riproposta proprio in relazione al caso FIAT - sfidando il ridicolo - da parte del governatore della Banca d’Italia e del presidente della Confindustria. In particolare al primo dei due, in quanto esperto di sacri misteri, vorremmo chiedere di spiegarci un fatto che ha del miracoloso: per quale motivo, pur essendo gli operai Volkswagen pagati un 30% in più degli operai FIAT, le Golf si vendono, e le Stilo no.
[1] Questa ricostruzione storica delle vicende della FIAT, dalla nascita ai giorni nostri, è la prima parte di una ricerca sulle grandi famiglie del capitalismo italiano, che continuerà nei prossimi numeri di Proteo.
[2] Il presidente della Lega industriale (e segretario del Consorzio automobilistico), Gino Olivetti, affermò esplicitamente che potenziamento delle macchine e razionalizzazione della produzione avrebbero permesso "il superamento delle difficoltà tanto sindacali quanto tecniche" e "ridotto ad un grado molto basso l’influenza della capacità dell’operaio nella produzione" (v. V. Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999, p. 74).
[3] V. Castronovo, cit., pp. 83-84.
[4] Vedi G. Mori, "La Fiat dalle origini al 1918", in Il capitalismo industriale in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 131-2.
[5] Particolarmente insistiti gli sforzi in tal senso di V. Castronovo nella storia della FIAT già citata. Tale storia, ad avviso di chi scrive, rappresenta una grande occasione sprecata: l’abbondante materiale documentario di cui si avvale viene infatti posto al servizio di un impostazione sostanzialmente agiografica.
[6] A questo riguardo giova ricordare che, ancora tra la fine del 1923 ed il maggio 1924, nelle votazioni per le Commissioni Interne alla FIAT, la FIOM aveva raccolto un numero di voti 5 volte superiore a quelli della Corporazione fascista, eleggendo delegati in gran parte comunisti. Non per caso, quando Agnelli andava a Palazzo Venezia, Mussolini soleva dire che dietro il senatore gli sembrava di vedere "trentamila operai della Fiat come i fichi: neri fuori e rossi dentro".
[7] V. Castronovo, cit., p. 495, e P. Grifone, Capitalismo di Stato e imperialismo fascista [1936], Napoli, La Città del Sole, 2002, p. 54.
Quest’ultima era infatti proprietaria in via pressoché esclusiva dell’IFI. Puramente simboliche erano le quote detenute da alcune società controllate dalla stessa FIAT e dalle famiglie Borletti e Pirelli. Di fatto, tramite l’IFI, la famiglia Agnelli deteneva ormai il 70% delle azioni della FIAT. Nel 1927 tale quota era "appena" del 30%.
[8] Quest’ultima era infatti proprietaria in via pressoché esclusiva dell’IFI. Puramente simboliche erano le quote detenute da alcune società controllate dalla stessa FIAT e dalle famiglie Borletti e Pirelli. Di fatto, tramite l’IFI, la famiglia Agnelli deteneva ormai il 70% delle azioni della FIAT. Nel 1927 tale quota era "appena" del 30%.
[9] Documento interno della FIAT, cit. in Castronovo, p. 583.
[10] Tre di essi (tra i quali Aurelio Peccei) erano dirigenti FIAT, il quarto, il comunista Battista Santhià, aveva vissuto l’occupazione delle fabbriche del 1920 ed era stato successivamente incarcerato dai fascisti.
[11] Nei primi mesi del 1948 furono effettuati consistenti anticipi sui contributi previsti dall’European Recovery Program (meglio noto come Piano Marshall), con l’esplicita finalità di influenzare le elezioni del 1948.
[12] Cit. in Castronovo, p. 791 (corsivi miei).
[13] Soltanto dal 1954 al 1958 furono quasi 2.000 gli iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra licenziati dalla FIAT: v. G. Carocci, "Inchiesta alla FIAT. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso FIAT, in "Nuovi Argomenti", 1958, pp. 3-31. Va inoltre aggiunto che le nuove assunzioni venivano effettuate attraverso vere e proprie schedature che consentivano di evitare operai con idee di sinistra. Le schedature della FIAT (oltre 350.000 schede) furono rinvenute, suscitando grande scandalo, nel 1970.
[14] Castronovo, p. 841. Sul tema del rapporto tra guerra ed economia mi permetto di rinviare al mio articolo "Perché la guerra fa bene all’economia", ospitato sul n. 3/2001 di Proteo.
[15] La FIAT esportava invece 80.000 automobili (negli anni Venti erano meno di un terzo). Sia perché negli altri principali Paesi europei i dazi erano molto più bassi che in Italia (30% in Francia, 17% in Germania), sia perché la FIAT praticava prezzi di dumping nelle vendite all’estero (potendo facilmente recuperare i costi sui prezzi interni, vista la rendita monopolistica che le era garantita dal controllo di più del 90% del mercato).
[16] A questo proposito è interessante riproporre alcuni dati. Fatto 100 l’indice di riferimento del 1948, la progressione degli indicatori più significativi al 1956 era la seguente: dipendenti 121; salari reali 196,5; produzione di autoveicoli 575; valore della produzione di autoveicoli 391; fatturato per unità 363; utile 1.465. Si tratta di cifre significative, per chi nei nostri anni di crisi voglia avere un quadro di cosa significhi una situazione di espansione economica (e al tempo stesso di come - anche in tale situazione - la crescita dei salari sia del tutto sproporzionata a quella dei profitti...).
[17] Attraverso il blocco della catena era infatti possibile amplificare i risultati dello sciopero di un settore ad altri settori della fabbrica. Per un inquadramento teorico di questa problematica vedi M. Melotti, F. Lattanzi, "Tecnica di una sconfitta. Il soggetto operaio del dopo-FIAT", in Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe, Quaderno 2, 1980, p. 15-6, e M. Revelli, "La fabbrica come partito. La Fiat dagli anni 70 agli anni 80", in Quaderni del Cric, nov. 1988, n. 3, pp. 103-4.
[18] Castronovo, p. 1243.
[19] La cosiddetta "marcia dei 40 mila". Anche se in piazza non erano più di 12.000.
[20] Per le vicende dei cassintegrati FIAT si veda L’altra faccia della FIAT, a cura dei Coordinamento Cassintegrati, Roma, Massari, 1990.
[21] M. Revelli, cit., p. 113.
[22] Condizione posta dagli USA per poter partecipare allo "scudo stellare" di Reagan.
[23] A costoro Romiti tenne ad esprimere tutto il proprio rammarico per aver falcidiato "coloro che più hanno dimostrato attaccamento all’azienda e che noi abbiamo sempre considerato come un patrimonio fondamentale". Insomma: dopo tante benemerenze (vedi marcia dei "40.000"), il danno e le beffe!
[24] Castronovo, p. 1665. Cosicché a Melfi fu possibile introdurre da subito un istituto tremendamente avanzato quale il sabato lavorativo... Per quanto riguarda i contributi pubblici basta ricordare che le agevolazioni di cui la FIAT beneficiò ammontarono a 1.350 miliardi di lire. Più di quanto la FIAT aveva ricevuto nell’intero decennio precedente.
[25] Che però ha avuto unicamente l’effetto, come ha ammesso di recente lo stesso amministratore delegato di Fiat Auto Boschetti, di aiutare la concorrenza (consentendo la sostituzione di vecchie FIAT con nuove Volkswagen).
[26] Dati FIAT, 20/2/2002.
[27] Di recente si è saputo che fu proprio la FIAT ad insistere per inserire nel contratto con la GM l’opzione a cedere l’80%: v. A. Plateroti, "Wagoner: ’GM non voleva il put sull’80%’", Il Sole-24 ore, 3/12/2002.
[28] Ma anche 33 banche estere vantano crediti per complessivi 5,8 miliardi di euro. La più esposta è una banca pubblica brasiliana: il BNDES (Banco Nacional de Desenvolvimento Economico e Social). V. il Sole 24 Ore, 5/6/2002.
[29] Una vera miseria in confronto ai 185 miliardi intascati a suo tempo da Cesare Romiti...
[30] Dati: il Sole 24 Ore, 16/11 e 27/12/2002.
[31] Vedi A. Enrietti, "La crisi del sistema Fiat. La struttura aziendale e i suoi punti deboli", in gli argomenti umani, anno 3, n. 9, settembre 2002, pp. 52-66, e partic. p. 55.
[32] Nonostante la vendita delle partecipazioni in GM, Burgo, Fidis per fare cassa.
[33] Il primo giornale a darne notizia è stato il Riformista, vicino a Massimo D’Alema.
[34] Cifre contenute in un rapporto della società Roland Berger al ministro Marzano e rese note da L’espresso (31/10/2002).
[35] Vedi le Monde, 29/10/2002.
[36] M. Revelli, "Fiat, vivere fra i tagli", la Rinascita, 1 novembre 2002. Per inciso, può essere utile ricordare che per la FIAT la famiglia Agnelli non mette mano al portafoglio dal lontano 1985 (v. O. De Paolini, "L’Apocalisse schivata", Borsa & Finanza, 14712/2002).
[37] M. Revelli, cit.
[38] il Sole 24 Ore, 12/10/2002.
[39] G. Oddo, "La lunga marcia", il Sole 24 ore, 17/10/2002 (corsivi miei). Vedi anche G. Bodo, "L’ansia di creare valore ha portato fuori strada", Borsa & Finanza, 19/10/2002.
[40] V. Castronovo, "Le ragioni di Ghidella", il Sole 24 Ore, 15/10/2002.
[41] Vedi L. Gianotti, "Dal 1980 in retromarcia. Un tramonto targato FIAT", la Rinascita, 18/10/2002.
[42] Questa cifra, di fonte governativa, non tiene conto delle agevolazioni sulle joint venture tra imprese italiane ed imprese straniere, gestite dalla Simest, che sono destinate in gran parte a società "esterovestite" della stessa FIAT. Quindi il saldo totale dei trasferimenti dallo Stato alla FIAT è ancora superiore.