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Joseph Halevi
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Joseph Halevi è docente di economia all’Università di Sydney in Australia e, periodicamente, insegna in Francia alle università di Grenoble (Pierre Mendès France) e di Nizza

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Automobili, crisi e scontro alla FIAT

Joseph Halevi

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1. Introduzione

L’automobile ha costituito nella storia economica moderna un asse portante del processo di industrializzazione e di accumulazione capitalistica così come nel passato lo furono le ferrovie e la cantieristica per la produzione di navi in acciao. Il settore in questione continua a ricoprire tale ruolo anche dopo otto decenni dalla comparsa della produzione automobilistica di massa. La funzione odierna dell’auto è collegata non più alla formazione di nuovi settori della meccanica ma al fatto che questo prodotto, per l’importanza che ricopre, dopo l’edilizia, nella spesa delle famiglie, è il maggiore catalizzatore della domanda effettiva. Al pari dell’edilizia quindi la dinamica della produzione del settore riflette le tendenze di fondo del processo di accumulazione e della domanda. Da oltre vent’anni la domanda mondiale di auto è sostanzialmente stagnante ripercuotendosi pertanto negativamente sull’andamento della produzione del settore. A loro volta i profitti sono legati al volume delle vendite ed al margine caricato sui costi diretti (lavoro e materie prime). Nel caso le aziende siano state mediamente capaci di mantenere i margini di profitto il calcolo è presto fatto: dal 1979 al 1998 la produzione mondiale di automobili è aumentata del 19,4%. Con un margine costante, i profitti reali sarebbero pertanto aumentati della stessa percentuale [1]. In relazione all’ipertrofico gonfiamento dei valori di borsa e delle plusvalenze imputate alle attività speculativo-finanziarie, un’espansione ventennale dei profitti del 19% è assolutamente irrisoria, per cui la tendenza ad operare delle selvagge ristrutturazioni è molto pronunciata [2].

Dato però il vincolo costituito dalla stagnante domanda, le ristrutturazioni non possono che essere incentrate sui licenziamenti e su aumenti di produttività fondati sull’allentamento della connessione con i salari. In caso di successo questa strategia porta a dei profitti di stagnazione e di disoccupazione. In altri termini, l’aumento dei margini di profitto ottenuto rallentando o bloccando i salari rispetto alla produttività comporta due tendenze stagnazionistiche. In primo luogo le ristrutturazioni effettuate per ottenere gli aumenti di produttività implicano licenziamenti che causano disoccupazione ed una riduzione del reddito disponibile e quindi della domanda globale di beni di consumo. Inoltre è improbabile che le ristrutturazioni comportino investimenti tali da riassorbire o mitigare significativamente le perdite occupazionali [3]. In presenza di capacità produttive eccedentarie gli investimenti saranno ad hoc mentre la riorganizzazione del lavoro volta ad aumentare la produttività tende a coinvolgere l’insieme dei dipendenti. In secondo luogo, l’aumento della produttività rispetto ai salari contribuisce al divario tra produzione e domanda per l’insieme dell’economia.

Questo secondo aspetto si manifesta in maniera più lenta e parziale ma può avere un effetto importante se l’esperienza del settore che la mette in atto viene seguita anche da altri comparti. Al miglioramento dei margini di profitto non corrisponde necessariamente un miglioramento dei saggi di profitto in rapporto al valore del capitale immobilizzato. Abbiamo visto che quando la domanda è atona le ristrutturazioni comportano l’accentuazione delle tendenze stagnazionistiche. Ne consegue che l’economia non genera alcuna spinta all’aumento dell’utilizzo di capacità produttiva eccedentaria. I ragionamenti tradizionali si basano tutti sul capitale come completamente circolante, che termina la sua esistenza alla fine del ciclo produttivo ‘annuale’. In questa logica non vi è posto per la capacità eccedentaria come fenomeno strutturale del capitalismo moderno. Le aziende oligopolistiche di oggi hanno invece un vasto ammontare di capitale fisso per cui l’eccesso di capacità produttiva grava sui saggi di profitto in maniera talmente determinanante da poter anche annullare eventuali miglioramenti nei margini di profitto. La documentazione concernente il settore dell’auto a livello mondiale tende a corroborare la tesi secondo cui eventuali miglioramenti nei margini di profitto non alleviano il peso dell’eccesso di capacità e la conseguente pressione sui saggi di profitto. Governi ed organismi internazionali, in diretta alleanza con le multinazionali del settore, hanno fatto di tutto per creare nuove capacità produttive sapendo benissimo che la domanda non sarebbe stata sufficiente a sostenerle. La stessa strategia delle società produttrici ha comportato un aggravamento della sovraccumulazione aggiungendo strati di capacità produttiva per aumentare, al fine di acchiappare profitti in un mercato stagnante, la diversificazione tipica dell’oligopolio eterogeneo [4].

2. Il quadro mondiale

 

Nel pieno della lunga espansione post bellica (1966) la produzione mondiale di auto, escludendo camion, autobus ed altri veicoli commerciali, era di 19 milioni di unità, di cui 8 milioni e mezzo negli Stati Uniti, circa novecentomila in Giappone, settecentomila in Canada e la quasi totalità dei restanti nove milioni in Europa compresa l’Urss ed i paesi dell’est. La rottura della crescita militaristico keynesiana avvenne intorno al 1974-75, tuttavia, grazie all’espansione della domanda di beni di consumo dovuta agli aumenti salariali, la produzione mondiale ammontava nel 1979 a 31 milioni e trecentomila unità, sempre escludendo i veicoli industriali e commerciali. L’incremento di 12 milioni di unità, mediamente quasi un milione all’anno dal ‘66 al ‘79, va ascritto soprattutto all’entrata nel settore del Giappone che dalle novecentomila unità passò, tredici anni dopo, ad oltre sei milioni di auto prodotte. Inalterata, anzi in leggero calo, era la produzione effettuata sul suolo statunitense compensata però dalla crescita di quella in Canada, mentre in Europa, tanto in occidente che all’est - compresa l’Unione Sovietica - si registrava una progressione generale sebbene di gran lunga inferiore a quella nipponica. Parallelamente all’evoluzione quantitiva del settore nei paesi industrializzati ed in quelli ‘socialisti’ apparivano sul piano mondiale anche i dati del Brasile (900mila unità) e del Messico (circa 300mila unità). Per quel che concerne l’Europa capitalista l’espansione maggiore avvenne in Germania, Francia e Spagna. In Italia invece la dinamica fu molto lenta passando dall’un milione e trecentomila unità del 1966 a un milione e mezzo tredici anni dopo mentre in Gran Bretagna la produzione addirittura crollò di oltre seicentomila unità superando di poco il milione di auto.

All’espansione del primo ventennio post bellico seguono, a partire dal 1979, due decenni completamente stagnanti. Prendendo i dati completi del 1998 si nota che la produzione mondiale di automobili era di 37 milioni di unità vale a dire un incremento medio annuo non superiore all’1%. In altri termini, il settore ha subito sia il rallentamento dovuto al calo dei tassi di crescita globali, sia l’effetto di saturazione del mercato. È interessante notare che un altro settore del tardo ottocento, anch’esso elemento importante della siderurgia e della meccanica, entrato in stagnazione in pieno boom post-bellico, ha subito un totale capovolgimento grazie agli investimenti effettuati dai paesi asiatici. Si tratta della cantieristica navale la cui produzione mondiale era rimasta sui 12-13 milioni di tonnellate di stazza lorda per circa un quarto di secolo. Poi sul finire degli anni ottanta la cantieristica si è ripresa al punto di superare nel 1998 le 27 milioni di tonnellate varate. Di queste circa 22 milioni vengono varate in Giappone (11 milioni), Corea del sud (9 milioni) e Cina (1,5 milioni + 500mila a Taiwan). Il rinnovato boom cantieristico è dovuto all’impatto cumulativo dell’effetto speciale della crescita asiatica fondata su una stretta dipendenza dalle importazioni dal Giappone e dalla conseguentemente necessaria crescita delle esportazioni verso paesi terzi. Il settore, oltre a fornire il veicolo principale per il rifornimento del greggio ed altre materie prime in una zona ad alto sviluppo industriale, ha beneficiato del processo di integrazione regionale e della dinamica delle esportazioni verso il resto del mondo di tutti i paesi dell’area. Per l’auto non vi è stato alcun effetto speciale. Per molti aspetti sia la trasformazione dell’automobile come mezzo di trasporto privilegiato e sostenuto dai pubblici poteri sia la stessa globalizzazione della produzione hanno contribuito a porre il prodotto a diretto contatto con la saturazione del mercato e l’andamento della crescita aggregata mondiale che, malgrado il rapido decollo cinese, nel ventennio 1980-2000 si è più che dimezzata rispetto al periodo 1960-1980.

Il settore dell’automobile può quindi essere visto come il fulcro della stagnazione mondiale. Si prenda ad esempio il caso degli Stati uniti: il parco auto nel 2000 era di circa 133 milioni di unità, circa tre milioni in meno rispetto al 1989 comprovando così la saturazione del mercato. Contemporaneamente avanza la vendita dei fuori-strada 4WD che sono classificati come camion. Chiaramente la strategia dei leader cioè delle case americane e giapponesi consiste nell’immettere sul mercato un prodotto più grande, più caro, meno economico dal lato del consumo di carburante, con meno vincoli ambientali e di far leva su di esso per riequipaggiare il parco auto. Tuttavia i fuori-strada sono solo parzialmente sostitutivi. I livelli di saturazione sono quindi più bassi. È probabile quindi che alla stagnazione della domanda di auto si aggiunga fra breve la stagnazione di quella dei 4WD aggravando così il problema della capacità produttiva eccedentaria. In Giappone la produzione stagna tra gli 8 milioni e gli 8,5 milioni di unità dalla fine degli anni ottanta. Ora oltre ad aggiungere il suo bravo strato di 4WD - che per la struttura urbana di quel paese sono tanto assurdi quanto lo sarebbero per le vie di Gubbio o di Lucca - il Giappone è impegnato in Malaysia ed in Thailandia a sviluppare produzioni di massa quando la domanda globale ha tutte le tendenze a restringersi a meno che non entri rapidamente in scena la Cina. La domanda cinese non verrà però soddisfatta dalle importazioni ma piuttosto dalla produzione in loco effettuata in joint venture con le multinazionali. L’obiettivo non sarà solo la domanda interna ma anche - ed in misura non secondaria - quella estera. La Cina e le multinazionali creeranno quindi ulteriori capacità produttive in eccesso rispetto alla dinamica della domanda interna cinese mentre gli Usa e l’Europa sono saturi e l’America Latina implode sotto la crisi.

È vero che dal 1998 al 2000 la produzione globale è aumentata di 4 milioni di auto toccando la cifra di 41 milioni di unità. Una buona parte dell’espansione proveniva dalla Corea meridionale che nel biennio 1999-2000 ha incrementato la produzione di un milione di auto. Questo è il prodotto della svalutazione della moneta nazionale in seguito alla crisi asiatica del 1997-98 che ha enormemente abbassato i prezzi pagati dalle concessionarie estere importatrici. Anche il Messico e l’Europa orientale hanno mostrato una sostanziale accelerazione della produzione incrementandola per un totale di 550 mila unità a riprova del loro status di aree di rilocalizzazione. Tra i grandi paesi industriali Giappone, Francia e Spagna sommati assieme hanno esibito, durante la breve espansione dell’ultimo biennio del ventesimo secolo, un aumento complessivo di poco più di settecentomila auto; poco rispetto alla totalità delle loro capacità produttive. Negli Usa, in Germania, in Gran Bretagna ed in Italia la produzione è rimasta stagnante ed in calo. Il grosso della crescita della produzione automobilisdtica del biennio “new economy” è stato il portato di crisi deflazionistiche in Asia che hanno generato grandi profitti per le concessionarie importatrici nonchè di processi di rilocalizzazione (Messico ed Europa orientale) piuttosto che dalla flebile vitalità dei redditi delle famiglie da cui scaturisce la domanda afferente al settore.

La mia ipotesi consiste quindi nel prevedere che se l’effetto Cina si materializza a breve scadenza, diciamo nei prossimi sei-sette anni, la crisi dell’auto da stagnazionistica si trasformerà in un massiccio processo di rilocalizzazione. Il Giappone, che non importa molte automobili, sarà tra i paesi che tenteranno di resistere più a lungo alla rilocalizzazione degli impianti. Tutto dipenderà dal grado di controllo che le multinazionali nipponiche eserciteranno sull’evoluzione del settore dell’auto in Cina. Se tale controllo risulterà elevato le società nipponiche cercheranno di applicare i meccanismi a circuito chiuso, ove vengono pianificate sia le esportazioni dal Giappone che le importazioni in Giappone, che con molto successo hanno utilizzato nell’Asia orientale. In tal caso la capacità di evitare o attenuare un’eventuale deindustrializzazione del settore dell’auto in Giappone verrà rafforzata. Ma i cinesi conoscono le strategie nipponiche molto bene e fino ad oggi sono riusciti a non incapparvi grazie anche alla dimensione statuale della Cina. Metà della produzione cinese - che nel 2000 era di 607mila auto raddoppiando rispetto al 1994 - origina dagli impianti Volkswagen. I giapponesi sono presenti con una serie di case ognuna delle quali produce tra le cinquantamila ed ottantamila vetture. In Cina alla concentrazione tedesca corrisponde una notevole frammentazione nipponica. Non penso che i giapponesi riusciranno ad instaurarvi un sistema a circuito controllato, come invece stanno facendo in Malaysia. Il passaggio della Repubblica Popolare alla produzione di massa per esportare creerà un conflitto concorrenziale, dati i differenziali nei costi di produzione, che si ripercuoterà anche all’interno delle case nipponiche. Il risultato sarà che gli impianti in Giappone si troveranno svantaggiati rispetto a quelli delle proprie società in Cina per cui potrebbe avviarsi un processo di delocalizzazione ancora più accelerato di quello che sta caratterizzando il trasferimento della produzione nordamericana verso il Messico. È anche possibile che i giapponesi scelgano strategie diverse però mi pare difficile aggirare la questione cinese.


[1] La comodità del calcolo ipotetico dei profitti attraverso la formula del margine di profitto sui costi consiste nell’integrare anche i processi inflazionistici. Infatti il prezzo oligopolistico è uguale a: salario monetario per unità di prodotto + margine di profitto sul medesimo rapporto + costo delle materie prime per unità di prodotto + margine di profitto sul medesimo rapporto. Salari e costo delle materie prime sono tutti espressi in termini monetari. Ne consegue che, conoscendo il margine di profitto sui costi unitari monetari e le unità vendute otterremo i profitti effettivi quale che sia l’andamento dei prezzi. Ancora validissimo è pertanto il libro di Paolo Sylos-Labini Oligopolio e progresso tecnico, Torino, Einaudi, 1962.

[2] Le statistiche sono prese da: MOTORSAT: http://perso.club-internet.fr/motorsat/; ORGANISATION INTERNATIONALE DES CONSTRUCTEURS D’AUTOMOBILES: http://www.oica.net/, ANFIA: http://www.anfia.it/english/default.htm. Le serie storiche per paese sono state tratte dal Calendario Atlante Geografico, Novara: De Agostini, annate varie 2001-1968.

[3] Se un’azienda ristruttura ordinando nuovi macchinari (investimenti) essa creerà domanda e forse anche occupazione addizionale per le industrie delle macchine. Ma tutto ciò è molto incerto perchè aumenti di produttività e riorganizzazioni nel settore delle macchine possono eliminare l’esigenza di incrementare l’occupazione. I meccansimi keynesiani funzionano con maggiore certezza verso il basso che verso l’alto. Solo con investimenti e spese totalizzanti come nel periodo, storicamente molto limitato, del ‘keynesismo militare’ i suddetti meccanismi funzionavano anche verso l’alto.

[4] William Greider, One World, Ready or Not : the Manic Logic of Global Capitalism, London, Penguin, 1998.