Ritorno al futuro
Luciano Vasapollo
Il terreno di una possibile alternativa al capitalismo ripartendo dal conflitto capitale-lavoro
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1. Marx prova su base rigorosamente scientifica, partendo
dalle conseguenze della sua analisi della teoria del valore che, a differenza di
tutte le altre merci, il valore della forza-lavoro è composto di due elementi
incorporando in sé il plusvalore.
Dopo aver sviluppato, quindi, la teoria del plusvalore, Marx
rivela, per la prima volta nella storia della scienza economica, il meccanismo
dello sfruttamento capitalistico in maniera rigorosamente scientifica, partendo
dall’analisi del capitale come lavoro appropriato, non pagato alla classe
operaia.
Ma Marx andò ancora oltre, mostrando che l’appropriazione
da parte dei capitalisti del lavoro non pagato degli operai era conforme alle
leggi interne del capitalismo.
La teoria economica di Marx, come del resto la dottrina
marxista nel suo insieme, è caratterizzata da una sua chiara natura sociale, da
una sua tendenza all’azione, alla pratica, da un intimo legame fra teoria e
prassi. Conoscere il mondo ha sempre significato per i marxisti trasformarlo. Le
leggi economiche oggettive della società capitalista si manifestano nel corso
della lotta di classe per il superamento del capitalismo.
Davanti ad un volto fortemente aggressivo della competizione
globale, che si esprime come offensiva dell’imperialismo nelle sue diverse
configurazioni attuative, non rimane certo fuori l’attacco diretto ai
marxisti, ai comunisti anche con il tentativo di demolirne i riferimenti teorici
basilari. Sembra di vivere in un periodo in cui si sta realizzando un vero e
proprio “apartheid politico-culturale” contro il pensiero marxista,
arrivando addirittura al punto di proclamare la fuoriuscita delle teorie
marxiane dalla “cittadinanza” scientifica ed accademica, e con essa
estromettendo gli studiosi marxisti dalla scienza ufficiale.
Al grido “fuori Marx dalla scienza”, “fuori gli
studiosi marxisti dalla cittadinanza scientifica e accademica” si porta avanti
un disegno per la sconfitta globale dei comunisti e del loro pensiero-azione.
Ciò non avviene soltanto da parte dei mass-media e degli intellettuali del
regime neo-liberista, ma l’attacco parte anche da sinistra, dai “pentiti”
del marxismo.
Ecco perché è stato molto importante il convegno che il
Laboratorio per la Critica Sociale ha tenuto il 21 maggio u.s. all’Università
di Roma “La Sapienza” in occasione della presentazione del libro “Un
vecchio falso problema . La trasformazione dei valori in prezzi nel Capitale di
Marx” (curato da chi scrive e con saggi di Carchedi, Freeman, Kliman, Giussani
e Ramos, Ed. Mediaprint, 2002).
L’importanza è prima di tutto nel luogo: l’Università
pubblica deve rimanere il luogo del sapere critico, luogo di battaglia contro l’oscurantismo
culturale e di costruzione del pensiero critico, in cui gli intellettuali
marxisti hanno dato e continuano a dare molto per la costruzione della
democrazia reale, e non solo culturale, contro ogni forma di omologazione
socio-politico-culturale.
Inoltre è stato importante mettere a confronto marxisti di
diversa provenienza universitaria internazionale e anche con diverse linee
culturali- interpretative. Erano infatti presenti, oltre a chi scrive, altri
studiosi di università italiane (Screpanti, Mazzetti, Petri), Carchedi
(Olanda), Freeman e De Angelis (Inghilterra), Ramos (Costa Rica), Kliman,
Mongiovi, Foley e Callari (USA), a cui vanno aggiunti gli interventi al
dibattito di Tortorella e Di Siena (dell’Associazione Rinnovamento della
Sinistra) e di A.Gianni di Rifondazione Comunista.
Uno dei principali obiettivi , sicuramente riuscito, di tale
giornata di studio è stato quello di riattivare un circuito internazionale di
studiosi che anche nelle loro diversità di impostazione ed interpretazione,
hanno scelto di mantenere la teoria e l’analisi marxiana al centro dell’azione
politica (non a caso il giorno prima molti degli stessi studiosi hanno dato vita
ad un interessante dibattito sempre all’Università “La Sapienza” dal
titolo : “Afghanistan, Argentina, Palestina.... E dopo!? Il ruolo dei
movimenti internazionali di opposizione).
L’argomento chiave in cui si è snodato il
convegno-presentazione del 21 maggio ha riguardato la critica della teoria
classica del valore, il superamento delle interpretazioni mistificanti della
teoria del plusvalore, la ricostruzione scientifica (fondata sul metodo
dialettico) del modo in cui la contraddizione capitale-lavoro si configura nelle
condizioni attuali e l’utilizzo di questa nella prassi.
2. L’ “economia politica” classica se da un lato
poneva in modo rivoluzionario il lavoro alla base del progresso umano, dall’altro
però, identificava il sistema capitalistico, fondato sulla proprietà privata
dei mezzi di produzione e sul lavoro salariato, come l’unico sistema economico
razionale e quindi naturale.
Su tali presupposti teorici e ideologici si innesta lo studio
e la crescita del pensiero di Marx.
La prima e fondamentale mistificazione dell’ “economia
politica” è, secondo Marx, di far passare un certo tipo di economia, una
particolare forma sociale della riproduzione umana, per “l’economia” e “la
società”. L’economia politica non vede il capitalismo come una
realizzazione storica, che in quanto tale se ha avuto un inizio avrà
sicuramente una fine.
Per mettere in luce questa contraddizione, Marx nei suoi “Manoscritti
economico-filosofici” usa i risultati della spietata analisi cui la stessa “economia
politica” sottopone la società industriale moderna. I teorici dell’ “economia
politica” affermano che il valore di una merce è dato dal lavoro socialmente
necessario per produrla, ma allo stesso modo dimostrano che con il salario all’operaio
giunge soltanto una piccolissima parte del prodotto del lavoro. Al contempo, il
salario è il prezzo della vendita di se stesso che il lavoratore è costretto a
fare, accettando, così, sotto la maschera di un libero contratto una schiavitù
simile nei contenuti, se non nella forma, a quella antica della società
schiavistica.
Se tutto ciò è vero, allora la società capitalistica non
è assolutamente un mondo di rapporti armonici, ma è in realtà il luogo di una
guerra generale.
Anche se i teorici dell’economia politica classica
riconoscono talvolta questi conflitti, tuttavia, secondo Marx, non comprendono
che l’elemento conflittuale è la sostanza stessa del sistema capitalistico;
ma tutti i forti contrasti che oppongono i gruppi sociali componenti la società
civile trovano la loro motivazione centrale, reale, nel conflitto fondamentale
fra capitale e lavoro salariato. E’ proprio e solo questa, secondo la
dialettica hegeliana, la “contraddizione” che spinge in continuazione verso
il suo “superamento”.
3. Sembra si tratti di elementi ormai acquisiti da
chiunque abbia affrontato lo studio di questi argomenti. Ma così non è! Grande
è la confusione sotto il cielo dell’analisi del post-fordismo... e la
situazione non è certo eccellente.
In effetti da quando uscì postumo il III Libro del Capitale
si è aperta la corsa di economisti di varie scuole, anche marxiste che mettono
in evidenza una supposta contraddizione nella teoria di Marx che sarebbe tale da
invalidare del tutto le fondamenta della stessa. Va precisato che le critiche
sono partite addirittura dal problema di che cosa è il valore e di come si
misura, fino ad arrivare alla critica cosiddetta della “circolarità”. Si
tratta della critica più dura verso l’analisi di Marx e proposta
originariamente da Böhm-Bawerk, da von Bortkiewicz e diffusa anche dall’economista
marxista Paul Sweezy. In effetti tali argomentazioni sono anche quelle che ho
sentito a questa giornata di studio del Laboratorio per la Critica Sociale.
E’ proprio sulla teoria del valore sul supposto problema
della trasformazione del valore in prezzi, fino ad arrivare all’attuale
analisi della forma del lavoro salariato e della sua consistenza quantitativa e
qualitativa e quindi sull’approccio scientifico alla teoria dello
sfruttamento, si gioca la partita teorica sulle possibilità della
trasformazione politico-economico-sociale e del superamento del capitalismo.
Soffermiamoci su alcuni passaggi di forte attualità.
Il valore dei mezzi vitali indispensabili alla sussistenza di
un operaio forma soltanto il limite inferiore del valore della forza-lavoro, il
suo minimo fisico puro di sopravvivenza. Il valore della forza-lavoro è
influenzato, inoltre dai fattori culturali, storici, sociali, dal livello di
vita tradizionale in un dato paese, dalle mode ecc. Il limite di sopravvivenza
inferiore del valore della forza-lavoro ha tendenza ad abbassarsi (in seguito
all’innovazione tecnologica e degli aumenti della produttività del lavoro e
quindi alla diminuzione della quota di valore incorporato nei mezzi di
sussistenza dell’operaio) , mentre il suo limite sociale, viceversa, aumenta
al crescere del livello tecnologico, socio-culturale e complessivamente sociale
della classe operaia, e ciò man mano che il lavoro diventa più complesso e che
il suo grado di specializzazione e la sua qualifica cresce. Con la rivoluzione
tecnico-scientifica il crescere dell’apporto intellettuale, delle conoscenze e
delle capacità immateriali dei lavoratori diventa un bisogno sociale della cui
necessità la classe prende gradualmente coscienza, mentre i capitalisti si
sforzano in tutti i modi per ostacolarne il soddisfacimento.
4. Ma già spettò proprio a Engels e a Marx trovare una
teoria economica e politica che scardinasse i vecchi schemi; una teoria capace
di adattarsi e di dialettizzare in ogni momento con la realtà di classe. E
questo ci riporta all’attualità di Marx nell’analisi del presente conflitto
capitale-lavoro a partire dalla composizione di classe dell’oggi.
Per comprendere l’attuale fase della competizione globale
è determinante, come sempre, connetterla con l’analisi dell’organizzazione
del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale,
del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro
struttura economica, degli interessi complessivi di dominio ed espansione che
determinano il conflitto interimperialistico. Tutte problematiche fortemente
connesse, spesso anzi dipendenti dall’epocale passaggio dall’era fordista a
quella cosiddetta postfordista.
Ripercorrendo molto schematicamente le ultime fasi
politico-economiche risulta che già a partire dall’inizio degli anni ‘70
comincia a venir meno quel connubio fra sistema produttivo fordista e modelli
keynesiani attraverso i quali lo Stato realizzava un contesto complessivo di
mediazione, regolazione e compressione del conflitto sociale.
Si parla a tal proposito di messa in discussione della
rigidità dei processi di accumulazione proprio perché la crisi fordista è
identificata dalla rigidità degli investimenti e dell’innovazione
tecnologica, da una rigidità dei mercati di incetta e dei mercati di consumo; a
ciò si aggiunge la rigidità del mercato del lavoro, grazie anche alla forza
espressa dal movimento operaio tra la seconda metà degli anni ‘60 e l’inizio
degli anni ‘70.
Tali “rigidità” del sistema produttivo facevano sì che
non fosse più possibile il sostenimento della domanda attraverso la spesa
pubblica a causa di un restringimento della base fiscale; l’unica risposta fu
allora quella della politica monetaria caratterizzata da linee inflattive. Si
interrompevano, così, i processi di crescita del dopoguerra in un contesto di
sviluppo economico che vedeva nuovi processi di concorrenza internazionale e il
venir meno del ruolo dello Stato keynesiano. L’intenso processo di
industrializzazione fordista si sposta, allora, verso nuovi mercati,
specialmente del Sud-Est asiatico e dell’Europa Centro-Orientale, aumentando
la competizione internazionale e mettendo in discussione la leadership
statunitense.
Nel 1973 l’innalzamento dei prezzi del petrolio, il primo
shock petrolifero e le politiche di controllo dell’inflazione evidenziano
difficoltà finanziarie e un’eccedenza di capacità produttiva nei paesi a
capitalismo avanzato; tutto ciò metteva fortemente in crisi i processi di
accumulazione capitalistica dell’era fordista.
Si delineano di conseguenza strategie di sopravvivenza
aziendale e capitalistica in una situazione di forte deflazione (1973-75); l’uscita
dalla stagflazione identifica processi che mettono fortemente in discussione il
compromesso fordista-keynesiano. Da allora iniziano le innovazioni nell’organizzazione
industriale, l’intensificazione dell’innovazione tecnologica e dei modelli
di automazione, i processi di delocalizzazione produttiva, i grandi piani di
acquisizioni e fusioni, la nuova progettualità complessiva per l’accelerazione
dei tempi di rotazione del capitale. Insomma forti innovazioni di processo e di
prodotto che si accompagnano ad un diverso sistema statuale-istituzionale di
mediazione politico-sociale che ha come obiettivo il controllo estremo della
conflittualità dei lavoratori e dell’antagonismo sociale in genere.
Tali processi hanno bisogno di un diverso modo di realizzare
il ciclo produttivo, di un diverso modo di rapportarsi alla forza-lavoro, di un
diverso modo di interpretare le dinamiche spaziali della produzione, e tutto
ciò è possibile attraverso un ruolo diverso dello Stato nel veicolare
complessivamente la nuova ideologia per l’accumulazione. E’ così che le
rigidità dell’ultima fase fordista debbono trasformarsi in flessibilità dei
processi produttivi, flessibilità dei mercati del lavoro, flessibilità della
domanda. Tutto ciò in funzione tale che le minacce da parte dei movimenti dei
lavoratori all’ordine sociale capitalista, e i periodi di crisi dovuti a
processi di sovraccumulazione, potessero essere assorbiti o perlomeno contenuti
e gestiti.
Negli anni ‘80 si è verificato un sostanziale cambiamento
nella durata dei cicli economici; si rileva infatti che , mentre nel periodo
seguito alla seconda guerra mondiale il ciclo economico si caratterizzava per
una durata di circa cinque anni, dal 1980 in poi la distanza tra due periodi di
recessione si è allungata a oltre 10 anni anche se la ripresa economica ha poi
stentato a realizzarsi.
Si è cercato così di “snellire le imprese pubbliche e
private” per attuare una “produzione snella”: “Produzione snella,
dunque, ed esternalizzazione dei costi sociali attraverso l’appalto.....si
parla di produzione Just in time (in tempo reale), ossia di una produzione che,
per evitare di accumulare scorte eccessive (cioè merci invendute, destinate a
deprezzarsi nel tempo), organizza il lavoro interno nel modo più flessibile
possibile..... Se nel fordismo tempi e modi di produzione erano ferramente
programmati, nell’epoca post-fordista in cui viviamo tutto è molto meno
programmabile, sempre più occorre affidarsi alle occasioni che il mercato offre....”.2
La mancata ripresa dell’economia soprattutto dagli anni ‘90
in poi è anche dovuta alla sempre più estrema disuguaglianza, allargando la
forbice di condizioni tra ricchi e poveri; si tratta di una ulteriore prova del
fallimento del mercato che, lasciato libero a se stesso, accentua sempre più le
distanze esistenti tra le classi sociali.
E’ in tale quadro storico politico-economico che vanno
interpretate le caratteristiche principali del postfordismo incentrato sul
paradigma dell’accumulazione flessibile che comunque si possono schematizzare
con : una specializzazione flessibile, la volatilità dei mercati, la riduzione
sostanziale della funzione di regolazione economica dello Stato-nazione e l’individualizzazione
rapporti di lavoro.
L’intenso processo di industrializzazione fordista si
sposta, così, verso nuovi mercati, specialmente del Sud-Est asiatico e dell’Europa
Centro-Orientale, aumentando la competizione internazionale e mettendo in
discussione la leadership statunitense.
Negli ultimi venticinque anni il modello consolidato di
democrazia capitalistica, nato negli USA con il fordismo, in tutti i suoi
diversi modi di presentarsi, si è dissolto cancellando quel concetto di
società civile e di civiltà che aveva inaugurato l’ingresso nella modernità
capitalistica, causando lo sbriciolamento della intera struttura produttiva
preesistente e distruggendo le stesse forme di convivenza civile determinate dal
modello di mediazione sociale di forma keynesiana.
Il crollo del modello fordista ha portato alla nascita dei
nuovi modelli di accumulazione flessibile. Il principio che guida questo modello
è basato sul fatto che essendo la domanda a fissare la produzione in relazione
a modelli di competizione globale e sfrenata concorrenza, anche se spesso
imperfetta, ne segue che la competizione si basa sempre più sulla qualità del
prodotto, la qualità del lavoro, in un modello sempre più caratterizzato da
risorse immateriali del capitale intangibile; una strutturazione del capitale
che si accompagna al lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più
spesso non regolamentato e a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di
garanzie che ne permettono l’uso, e non più sulle connessioni fra quantità
prodotta e prezzo (elementi tipici del fordismo).
La crisi del sistema, dovuta al processo di trasformazione
del lavoro nella società post-fordista, può anche essere spiegata da questo
contesto di sviluppo del lavoro a prevalente contenuto immateriale. Infatti
questo tipo di lavoro si caratterizza: estensivamente mediante la forma di
cooptazione sociale che va oltre la fabbrica e il lavoro produttivo, ed
intensamente attraverso la comunicazione e l’informazione, risorse del
capitale dell’astrazione o intangibile. Il lavoro immateriale viene inteso
come un lavoro che produce il “contenuto informativo e culturale della merce”,
che modifica il lavoro operaio nell’industria e nel terziario, dove le
mansioni vengono subordinate alle capacità di trattamento dell’informazione,
della comunicazione, orizzontale e verticale.
Si viene definendo un nuovo ciclo produttivo legato alla
produzione immateriale che mostra come l’impresa e l’economia
post-industriale e postfordista siano fondate sul trattamento del capitale
informazione. Questo provoca una profonda modificazione dell’impresa ormai
strutturata sulle strategie di vendita e sul rapporto con il consumatore, che
porta a considerare il prodotto prima sotto l’aspetto della vendita e poi
sotto quello della produzione. Tale strategia si basa sulla produzione e consumo
di capitale informazione, utilizzando la comunicazione deviante e il marketing
sociale per raccogliere e far circolare informazione per un complessivo
condizionamento sociale.
Il concetto classico di lavoro viene messo in crisi dall’economia
del capitale informazione, che rappresenta il fondamento del capitalismo
post-moderno. Infatti la creazione di valore non si fonda più sullo
sfruttamento dell’operaio della fabbrica fordista, ma esso viene estratto da
ogni attività nella fabbrica sociale generalizzata. L’economia dell’informazione
controlla e sviluppa la potenza dell’accumulazione flessibile sottomettendo le
soggettività sociali alla potenza delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione che adesso dominano non più soltanto il tempo di lavoro, ma il
tempo del vivere sociale nella sua interezza.
Non si tratta, quindi, di un semplice processo di
deindustrializzazione, di una delle tante crisi del capitalismo, ma di una sua
radicale trasformazione che investe l’intera società, che crea nuovi bisogni,
di una concezione della qualità dello sviluppo, della qualità della vita che
induce a diversi comportamenti socio-economici della collettività, imposti
dalla flessibilità dell’impresa diffusa nel tessuto sociale rispetto a quelli
della società industrialista basata sulla centralità di fabbrica.
In particolare, dai risultati di diverse analisi che abbiamo
realizzato come CESTES3, emerge un terziario che sempre più interagisce e si
integra con le altre attività produttive, specialmente con quelle industriali.
Si determina, quindi, un nuovo modello localizzativo di sviluppo che può
definirsi come tessuto a multilivello di irradiazione terziaria che si associa
al modello di flessibilizzazione del vivere sociale imposto da un’impresa
diffusa socialmente nel sistema territoriale. Si tratta, cioè, di un terziario
che si accompagna ad esternalizzazioni del ciclo produttivo e ad un modello di
flessibilità generale che è venuto assumendo un ruolo sempre più trainante
del modello di sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici processi
di deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione industriale, ma
dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione complessiva del modello di
capitalismo.
Da queste analisi emerge che ci troviamo in una fase di
transizione ancora in via di definizione ma che presenta comunque dei connotati
ben chiari. Si ha un aumento della produzione dei servizi su quella dei beni
materiali, ma ciò avviene soprattutto con processi di esternalizzazione dei
servizi e di fasi del processo produttivo a basso valore aggiunto basati su un
supersfruttamento del lavoro; un lavoro spesso attinto attraverso processi di
delocalizzazione internazionali alla ricerca di forme di lavoro a scarso
contenuto di diritti e a bassissimo salario; a ciò si accompagnata una forte
presenza di lavori intellettuali e tecnico professionali spesso precarizzati
come quelli manuali e ripetitivi.
E’ infatti in atto un intenso processo di
territorializzazione dell’economia spiegabile non soltanto da fenomeni di
ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta
mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico. Si
afferma una diversa logica economico-produttiva, quella di una nuova fabbrica
sociale generalizzata nel territorio, sempre più diversificata rispetto ai
precedenti processi produttivi, in particolare quelli di tipo industriale. Non
si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una
trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una diversa concezione
della qualità dello sviluppo, della nascita di nuove attività, la maggior
parte delle quali a carattere terziario e precario, che generano, e forzano
nello stesso tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della
società e di accumulazione del capitale.
5. La minaccia sempre incombente e in aumento della
disoccupazione, in particolare l’attuale convivere della disoccupazione
congiunturale con la strutturale, il paradigma dell’accumulazione flessibile
della cosiddetta era post-fordista dovuta all’automazione della produzione e
all’intensificazione del lavoro, tutto ciò esercita un’influenza
sostanziale sul generale peggioramento della situazione complessiva mondiale
della classe lavoratrice. L’ “incertezza dell’esistenza”, di cui parlò
Engels, continua ad accentuarsi. Questi fatti oggettivi sono una conferma
convincente della validità della teoria marxiana dell’impoverimento assoluto
e relativo. E quindi lo sviluppo stesso del capitalismo contemporaneo ribadisce
interamente un’altra tesi fondamentale di Marx, quella cioè dell’intensificazione
del processo di proletarizzazione in seno alla società capitalistica, dell’incremento,
seppur in forme diverse e articolate, del lavoro subordinato, del lavoro
salariato.
L’attuale questione economico-sociale del lavoro non è
solamente connessa alla disoccupazione sempre più a carattere strutturale,
bensì riguarda una serie di problemi di carattere quanti/qualitativo e quindi
delle nuove figure del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro, figure
comunque tutte interne a sempre lo stesso modo di produzione capitalistico. Il
problema lavoro esiste ormai anche per coloro che ne possiedono uno, dato che si
lavora sempre di più ed in condizioni sempre più precarie, non tutelate, con
salario sociale assoluto, e anche relativo al singolo lavoratore, sempre minore
e con alti livelli di mobilità e intermittenza.
L’analisi che effettuiamo sull’attuale crisi del
capitalismo, crisi anche di sovrapproduzione, di accumulazione e di domanda a
causa anche della tendenza alla contrazione complessiva del salario sociale dell’intera
classe lavoratrice, è crisi dovuta anche al passaggio dall’accumulazione
materiale a forme di accumulazione su capitale immateriale. I nuovi processi di
accumulazione sono anche collegati ai forti incrementi di produttività non
redistribuita e ai processi di terziarizzazione, cui si accompagnano
significativi spostamenti sulla rendita finanziaria. Tutto ciò serve ad
evidenziare che il cosiddetto ciclo post-fordista della fabbrica sociale
generalizzata realizza oltre a disoccupazione strutturale, anche le mille forme
del lavoro atipico e flessibile, comunque catalogabili fra il lavoro salariato,
dipendente,eterodiretto.
Oggi, la maggioranza schiacciante della popolazione dei paesi
capitalistici è sempre composta da lavoratori salariati; il lavoro salariato
costituisce la base del capitalismo, su scala molto più grande che ai tempi di
Marx, all’interno dei processi e delle dinamiche di funzionamento del modo di
produzione capitalistico di sempre.
I cambiamenti più recenti nella struttura della classe
lavoratrice stessa indicano l’estrema importanza della categoria dell’operaio
“collettivo”, introdotta e analizzata nel Capitale. Tale categoria comprende
gli operatori del lavoro fisico e intellettuale che partecipano direttamente
alla fabbricazione di un prodotto e sono comunque, rispetto al capitale, dei
lavoratori salariati, lavoratori subordinati
E’ così che si giunge ad una fase in cui si stanno
velocemente affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità,
nuove povertà e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di
ricomposizione e organizzazione del conflitto capitale-lavoro a partire da un’offensiva
da parte dei lavoratori tutti.
Si tratta di forzare l’orizzonte a partire dal superamento
dei confini sociali fra classe operaia propriamente detta, gli intellettuali,
nuove figure del lavoro, del lavoro negato, del non lavoro, e accomunare questi
gruppi sociali nella loro lotta per l’emancipazione sociale; ritrovandosi nei
fatti nel conflitto capitale-lavoro,superandonellalotta gli schemi dell’ormai,
decretata da alcuni studiosi anche di origine marxista, fine del lavoro.