Rubrica
Per la critica del capitalismo

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Luciano Vasapollo
Articoli pubblicati
per Proteo (48)

Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Argomenti correlati

Marxismo

Teoria del valore

Nella stessa rubrica

Ritorno al futuro
Luciano Vasapollo

Politiche Keynesiane, crisi finanziarie e guerre
Guglielmo Carchedi

Le regole della società e la società regolata
Flávio Bezerra de Farias

Dalle crisi dell’America Latina un insegnamento di Josè Martì: Agricoltura con procedimenti scientifici ed istruzione, risorse essenziali per uno sviluppo indipendente
Hortensia Pichardo

 

Tutti gli articoli della rubrica "Per la critica del capitalismo"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Ritorno al futuro

Luciano Vasapollo

Il terreno di una possibile alternativa al capitalismo ripartendo dal conflitto capitale-lavoro

Formato per la stampa
Stampa

1. Marx prova su base rigorosamente scientifica, partendo dalle conseguenze della sua analisi della teoria del valore che, a differenza di tutte le altre merci, il valore della forza-lavoro è composto di due elementi incorporando in sé il plusvalore.

Dopo aver sviluppato, quindi, la teoria del plusvalore, Marx rivela, per la prima volta nella storia della scienza economica, il meccanismo dello sfruttamento capitalistico in maniera rigorosamente scientifica, partendo dall’analisi del capitale come lavoro appropriato, non pagato alla classe operaia.

Ma Marx andò ancora oltre, mostrando che l’appropriazione da parte dei capitalisti del lavoro non pagato degli operai era conforme alle leggi interne del capitalismo.

La teoria economica di Marx, come del resto la dottrina marxista nel suo insieme, è caratterizzata da una sua chiara natura sociale, da una sua tendenza all’azione, alla pratica, da un intimo legame fra teoria e prassi. Conoscere il mondo ha sempre significato per i marxisti trasformarlo. Le leggi economiche oggettive della società capitalista si manifestano nel corso della lotta di classe per il superamento del capitalismo.

Davanti ad un volto fortemente aggressivo della competizione globale, che si esprime come offensiva dell’imperialismo nelle sue diverse configurazioni attuative, non rimane certo fuori l’attacco diretto ai marxisti, ai comunisti anche con il tentativo di demolirne i riferimenti teorici basilari. Sembra di vivere in un periodo in cui si sta realizzando un vero e proprio “apartheid politico-culturale” contro il pensiero marxista, arrivando addirittura al punto di proclamare la fuoriuscita delle teorie marxiane dalla “cittadinanza” scientifica ed accademica, e con essa estromettendo gli studiosi marxisti dalla scienza ufficiale.

Al grido “fuori Marx dalla scienza”, “fuori gli studiosi marxisti dalla cittadinanza scientifica e accademica” si porta avanti un disegno per la sconfitta globale dei comunisti e del loro pensiero-azione. Ciò non avviene soltanto da parte dei mass-media e degli intellettuali del regime neo-liberista, ma l’attacco parte anche da sinistra, dai “pentiti” del marxismo.

Ecco perché è stato molto importante il convegno che il Laboratorio per la Critica Sociale ha tenuto il 21 maggio u.s. all’Università di Roma “La Sapienza” in occasione della presentazione del libro “Un vecchio falso problema . La trasformazione dei valori in prezzi nel Capitale di Marx” (curato da chi scrive e con saggi di Carchedi, Freeman, Kliman, Giussani e Ramos, Ed. Mediaprint, 2002).

L’importanza è prima di tutto nel luogo: l’Università pubblica deve rimanere il luogo del sapere critico, luogo di battaglia contro l’oscurantismo culturale e di costruzione del pensiero critico, in cui gli intellettuali marxisti hanno dato e continuano a dare molto per la costruzione della democrazia reale, e non solo culturale, contro ogni forma di omologazione socio-politico-culturale.

Inoltre è stato importante mettere a confronto marxisti di diversa provenienza universitaria internazionale e anche con diverse linee culturali- interpretative. Erano infatti presenti, oltre a chi scrive, altri studiosi di università italiane (Screpanti, Mazzetti, Petri), Carchedi (Olanda), Freeman e De Angelis (Inghilterra), Ramos (Costa Rica), Kliman, Mongiovi, Foley e Callari (USA), a cui vanno aggiunti gli interventi al dibattito di Tortorella e Di Siena (dell’Associazione Rinnovamento della Sinistra) e di A.Gianni di Rifondazione Comunista.

Uno dei principali obiettivi , sicuramente riuscito, di tale giornata di studio è stato quello di riattivare un circuito internazionale di studiosi che anche nelle loro diversità di impostazione ed interpretazione, hanno scelto di mantenere la teoria e l’analisi marxiana al centro dell’azione politica (non a caso il giorno prima molti degli stessi studiosi hanno dato vita ad un interessante dibattito sempre all’Università “La Sapienza” dal titolo : “Afghanistan, Argentina, Palestina.... E dopo!? Il ruolo dei movimenti internazionali di opposizione).

L’argomento chiave in cui si è snodato il convegno-presentazione del 21 maggio ha riguardato la critica della teoria classica del valore, il superamento delle interpretazioni mistificanti della teoria del plusvalore, la ricostruzione scientifica (fondata sul metodo dialettico) del modo in cui la contraddizione capitale-lavoro si configura nelle condizioni attuali e l’utilizzo di questa nella prassi.

2. L’ “economia politica” classica se da un lato poneva in modo rivoluzionario il lavoro alla base del progresso umano, dall’altro però, identificava il sistema capitalistico, fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul lavoro salariato, come l’unico sistema economico razionale e quindi naturale.

Su tali presupposti teorici e ideologici si innesta lo studio e la crescita del pensiero di Marx.

La prima e fondamentale mistificazione dell’ “economia politica” è, secondo Marx, di far passare un certo tipo di economia, una particolare forma sociale della riproduzione umana, per “l’economia” e “la società”. L’economia politica non vede il capitalismo come una realizzazione storica, che in quanto tale se ha avuto un inizio avrà sicuramente una fine.

Per mettere in luce questa contraddizione, Marx nei suoi “Manoscritti economico-filosofici” usa i risultati della spietata analisi cui la stessa “economia politica” sottopone la società industriale moderna. I teorici dell’ “economia politica” affermano che il valore di una merce è dato dal lavoro socialmente necessario per produrla, ma allo stesso modo dimostrano che con il salario all’operaio giunge soltanto una piccolissima parte del prodotto del lavoro. Al contempo, il salario è il prezzo della vendita di se stesso che il lavoratore è costretto a fare, accettando, così, sotto la maschera di un libero contratto una schiavitù simile nei contenuti, se non nella forma, a quella antica della società schiavistica.

Se tutto ciò è vero, allora la società capitalistica non è assolutamente un mondo di rapporti armonici, ma è in realtà il luogo di una guerra generale.

Anche se i teorici dell’economia politica classica riconoscono talvolta questi conflitti, tuttavia, secondo Marx, non comprendono che l’elemento conflittuale è la sostanza stessa del sistema capitalistico; ma tutti i forti contrasti che oppongono i gruppi sociali componenti la società civile trovano la loro motivazione centrale, reale, nel conflitto fondamentale fra capitale e lavoro salariato. E’ proprio e solo questa, secondo la dialettica hegeliana, la “contraddizione” che spinge in continuazione verso il suo “superamento”.

3. Sembra si tratti di elementi ormai acquisiti da chiunque abbia affrontato lo studio di questi argomenti. Ma così non è! Grande è la confusione sotto il cielo dell’analisi del post-fordismo... e la situazione non è certo eccellente.

In effetti da quando uscì postumo il III Libro del Capitale si è aperta la corsa di economisti di varie scuole, anche marxiste che mettono in evidenza una supposta contraddizione nella teoria di Marx che sarebbe tale da invalidare del tutto le fondamenta della stessa. Va precisato che le critiche sono partite addirittura dal problema di che cosa è il valore e di come si misura, fino ad arrivare alla critica cosiddetta della “circolarità”. Si tratta della critica più dura verso l’analisi di Marx e proposta originariamente da Böhm-Bawerk, da von Bortkiewicz e diffusa anche dall’economista marxista Paul Sweezy. In effetti tali argomentazioni sono anche quelle che ho sentito a questa giornata di studio del Laboratorio per la Critica Sociale.

E’ proprio sulla teoria del valore sul supposto problema della trasformazione del valore in prezzi, fino ad arrivare all’attuale analisi della forma del lavoro salariato e della sua consistenza quantitativa e qualitativa e quindi sull’approccio scientifico alla teoria dello sfruttamento, si gioca la partita teorica sulle possibilità della trasformazione politico-economico-sociale e del superamento del capitalismo.

Soffermiamoci su alcuni passaggi di forte attualità.

Il valore dei mezzi vitali indispensabili alla sussistenza di un operaio forma soltanto il limite inferiore del valore della forza-lavoro, il suo minimo fisico puro di sopravvivenza. Il valore della forza-lavoro è influenzato, inoltre dai fattori culturali, storici, sociali, dal livello di vita tradizionale in un dato paese, dalle mode ecc. Il limite di sopravvivenza inferiore del valore della forza-lavoro ha tendenza ad abbassarsi (in seguito all’innovazione tecnologica e degli aumenti della produttività del lavoro e quindi alla diminuzione della quota di valore incorporato nei mezzi di sussistenza dell’operaio) , mentre il suo limite sociale, viceversa, aumenta al crescere del livello tecnologico, socio-culturale e complessivamente sociale della classe operaia, e ciò man mano che il lavoro diventa più complesso e che il suo grado di specializzazione e la sua qualifica cresce. Con la rivoluzione tecnico-scientifica il crescere dell’apporto intellettuale, delle conoscenze e delle capacità immateriali dei lavoratori diventa un bisogno sociale della cui necessità la classe prende gradualmente coscienza, mentre i capitalisti si sforzano in tutti i modi per ostacolarne il soddisfacimento.

4. Ma già spettò proprio a Engels e a Marx trovare una teoria economica e politica che scardinasse i vecchi schemi; una teoria capace di adattarsi e di dialettizzare in ogni momento con la realtà di classe. E questo ci riporta all’attualità di Marx nell’analisi del presente conflitto capitale-lavoro a partire dalla composizione di classe dell’oggi.

Per comprendere l’attuale fase della competizione globale è determinante, come sempre, connetterla con l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro struttura economica, degli interessi complessivi di dominio ed espansione che determinano il conflitto interimperialistico. Tutte problematiche fortemente connesse, spesso anzi dipendenti dall’epocale passaggio dall’era fordista a quella cosiddetta postfordista.

Ripercorrendo molto schematicamente le ultime fasi politico-economiche risulta che già a partire dall’inizio degli anni ‘70 comincia a venir meno quel connubio fra sistema produttivo fordista e modelli keynesiani attraverso i quali lo Stato realizzava un contesto complessivo di mediazione, regolazione e compressione del conflitto sociale.

Si parla a tal proposito di messa in discussione della rigidità dei processi di accumulazione proprio perché la crisi fordista è identificata dalla rigidità degli investimenti e dell’innovazione tecnologica, da una rigidità dei mercati di incetta e dei mercati di consumo; a ciò si aggiunge la rigidità del mercato del lavoro, grazie anche alla forza espressa dal movimento operaio tra la seconda metà degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70.

Tali “rigidità” del sistema produttivo facevano sì che non fosse più possibile il sostenimento della domanda attraverso la spesa pubblica a causa di un restringimento della base fiscale; l’unica risposta fu allora quella della politica monetaria caratterizzata da linee inflattive. Si interrompevano, così, i processi di crescita del dopoguerra in un contesto di sviluppo economico che vedeva nuovi processi di concorrenza internazionale e il venir meno del ruolo dello Stato keynesiano. L’intenso processo di industrializzazione fordista si sposta, allora, verso nuovi mercati, specialmente del Sud-Est asiatico e dell’Europa Centro-Orientale, aumentando la competizione internazionale e mettendo in discussione la leadership statunitense.

Nel 1973 l’innalzamento dei prezzi del petrolio, il primo shock petrolifero e le politiche di controllo dell’inflazione evidenziano difficoltà finanziarie e un’eccedenza di capacità produttiva nei paesi a capitalismo avanzato; tutto ciò metteva fortemente in crisi i processi di accumulazione capitalistica dell’era fordista.

Si delineano di conseguenza strategie di sopravvivenza aziendale e capitalistica in una situazione di forte deflazione (1973-75); l’uscita dalla stagflazione identifica processi che mettono fortemente in discussione il compromesso fordista-keynesiano. Da allora iniziano le innovazioni nell’organizzazione industriale, l’intensificazione dell’innovazione tecnologica e dei modelli di automazione, i processi di delocalizzazione produttiva, i grandi piani di acquisizioni e fusioni, la nuova progettualità complessiva per l’accelerazione dei tempi di rotazione del capitale. Insomma forti innovazioni di processo e di prodotto che si accompagnano ad un diverso sistema statuale-istituzionale di mediazione politico-sociale che ha come obiettivo il controllo estremo della conflittualità dei lavoratori e dell’antagonismo sociale in genere.

Tali processi hanno bisogno di un diverso modo di realizzare il ciclo produttivo, di un diverso modo di rapportarsi alla forza-lavoro, di un diverso modo di interpretare le dinamiche spaziali della produzione, e tutto ciò è possibile attraverso un ruolo diverso dello Stato nel veicolare complessivamente la nuova ideologia per l’accumulazione. E’ così che le rigidità dell’ultima fase fordista debbono trasformarsi in flessibilità dei processi produttivi, flessibilità dei mercati del lavoro, flessibilità della domanda. Tutto ciò in funzione tale che le minacce da parte dei movimenti dei lavoratori all’ordine sociale capitalista, e i periodi di crisi dovuti a processi di sovraccumulazione, potessero essere assorbiti o perlomeno contenuti e gestiti.

Negli anni ‘80 si è verificato un sostanziale cambiamento nella durata dei cicli economici; si rileva infatti che , mentre nel periodo seguito alla seconda guerra mondiale il ciclo economico si caratterizzava per una durata di circa cinque anni, dal 1980 in poi la distanza tra due periodi di recessione si è allungata a oltre 10 anni anche se la ripresa economica ha poi stentato a realizzarsi.

Si è cercato così di “snellire le imprese pubbliche e private” per attuare una “produzione snella”: “Produzione snella, dunque, ed esternalizzazione dei costi sociali attraverso l’appalto.....si parla di produzione Just in time (in tempo reale), ossia di una produzione che, per evitare di accumulare scorte eccessive (cioè merci invendute, destinate a deprezzarsi nel tempo), organizza il lavoro interno nel modo più flessibile possibile..... Se nel fordismo tempi e modi di produzione erano ferramente programmati, nell’epoca post-fordista in cui viviamo tutto è molto meno programmabile, sempre più occorre affidarsi alle occasioni che il mercato offre....”.2

La mancata ripresa dell’economia soprattutto dagli anni ‘90 in poi è anche dovuta alla sempre più estrema disuguaglianza, allargando la forbice di condizioni tra ricchi e poveri; si tratta di una ulteriore prova del fallimento del mercato che, lasciato libero a se stesso, accentua sempre più le distanze esistenti tra le classi sociali.

E’ in tale quadro storico politico-economico che vanno interpretate le caratteristiche principali del postfordismo incentrato sul paradigma dell’accumulazione flessibile che comunque si possono schematizzare con : una specializzazione flessibile, la volatilità dei mercati, la riduzione sostanziale della funzione di regolazione economica dello Stato-nazione e l’individualizzazione rapporti di lavoro.

L’intenso processo di industrializzazione fordista si sposta, così, verso nuovi mercati, specialmente del Sud-Est asiatico e dell’Europa Centro-Orientale, aumentando la competizione internazionale e mettendo in discussione la leadership statunitense.

Negli ultimi venticinque anni il modello consolidato di democrazia capitalistica, nato negli USA con il fordismo, in tutti i suoi diversi modi di presentarsi, si è dissolto cancellando quel concetto di società civile e di civiltà che aveva inaugurato l’ingresso nella modernità capitalistica, causando lo sbriciolamento della intera struttura produttiva preesistente e distruggendo le stesse forme di convivenza civile determinate dal modello di mediazione sociale di forma keynesiana.

Il crollo del modello fordista ha portato alla nascita dei nuovi modelli di accumulazione flessibile. Il principio che guida questo modello è basato sul fatto che essendo la domanda a fissare la produzione in relazione a modelli di competizione globale e sfrenata concorrenza, anche se spesso imperfetta, ne segue che la competizione si basa sempre più sulla qualità del prodotto, la qualità del lavoro, in un modello sempre più caratterizzato da risorse immateriali del capitale intangibile; una strutturazione del capitale che si accompagna al lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non regolamentato e a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie che ne permettono l’uso, e non più sulle connessioni fra quantità prodotta e prezzo (elementi tipici del fordismo).

La crisi del sistema, dovuta al processo di trasformazione del lavoro nella società post-fordista, può anche essere spiegata da questo contesto di sviluppo del lavoro a prevalente contenuto immateriale. Infatti questo tipo di lavoro si caratterizza: estensivamente mediante la forma di cooptazione sociale che va oltre la fabbrica e il lavoro produttivo, ed intensamente attraverso la comunicazione e l’informazione, risorse del capitale dell’astrazione o intangibile. Il lavoro immateriale viene inteso come un lavoro che produce il “contenuto informativo e culturale della merce”, che modifica il lavoro operaio nell’industria e nel terziario, dove le mansioni vengono subordinate alle capacità di trattamento dell’informazione, della comunicazione, orizzontale e verticale.

Si viene definendo un nuovo ciclo produttivo legato alla produzione immateriale che mostra come l’impresa e l’economia post-industriale e postfordista siano fondate sul trattamento del capitale informazione. Questo provoca una profonda modificazione dell’impresa ormai strutturata sulle strategie di vendita e sul rapporto con il consumatore, che porta a considerare il prodotto prima sotto l’aspetto della vendita e poi sotto quello della produzione. Tale strategia si basa sulla produzione e consumo di capitale informazione, utilizzando la comunicazione deviante e il marketing sociale per raccogliere e far circolare informazione per un complessivo condizionamento sociale.

Il concetto classico di lavoro viene messo in crisi dall’economia del capitale informazione, che rappresenta il fondamento del capitalismo post-moderno. Infatti la creazione di valore non si fonda più sullo sfruttamento dell’operaio della fabbrica fordista, ma esso viene estratto da ogni attività nella fabbrica sociale generalizzata. L’economia dell’informazione controlla e sviluppa la potenza dell’accumulazione flessibile sottomettendo le soggettività sociali alla potenza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che adesso dominano non più soltanto il tempo di lavoro, ma il tempo del vivere sociale nella sua interezza.

Non si tratta, quindi, di un semplice processo di deindustrializzazione, di una delle tante crisi del capitalismo, ma di una sua radicale trasformazione che investe l’intera società, che crea nuovi bisogni, di una concezione della qualità dello sviluppo, della qualità della vita che induce a diversi comportamenti socio-economici della collettività, imposti dalla flessibilità dell’impresa diffusa nel tessuto sociale rispetto a quelli della società industrialista basata sulla centralità di fabbrica.

In particolare, dai risultati di diverse analisi che abbiamo realizzato come CESTES3, emerge un terziario che sempre più interagisce e si integra con le altre attività produttive, specialmente con quelle industriali. Si determina, quindi, un nuovo modello localizzativo di sviluppo che può definirsi come tessuto a multilivello di irradiazione terziaria che si associa al modello di flessibilizzazione del vivere sociale imposto da un’impresa diffusa socialmente nel sistema territoriale. Si tratta, cioè, di un terziario che si accompagna ad esternalizzazioni del ciclo produttivo e ad un modello di flessibilità generale che è venuto assumendo un ruolo sempre più trainante del modello di sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici processi di deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione industriale, ma dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione complessiva del modello di capitalismo.

Da queste analisi emerge che ci troviamo in una fase di transizione ancora in via di definizione ma che presenta comunque dei connotati ben chiari. Si ha un aumento della produzione dei servizi su quella dei beni materiali, ma ciò avviene soprattutto con processi di esternalizzazione dei servizi e di fasi del processo produttivo a basso valore aggiunto basati su un supersfruttamento del lavoro; un lavoro spesso attinto attraverso processi di delocalizzazione internazionali alla ricerca di forme di lavoro a scarso contenuto di diritti e a bassissimo salario; a ciò si accompagnata una forte presenza di lavori intellettuali e tecnico professionali spesso precarizzati come quelli manuali e ripetitivi.

E’ infatti in atto un intenso processo di territorializzazione dell’economia spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico. Si afferma una diversa logica economico-produttiva, quella di una nuova fabbrica sociale generalizzata nel territorio, sempre più diversificata rispetto ai precedenti processi produttivi, in particolare quelli di tipo industriale. Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una diversa concezione della qualità dello sviluppo, della nascita di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario e precario, che generano, e forzano nello stesso tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della società e di accumulazione del capitale.

5. La minaccia sempre incombente e in aumento della disoccupazione, in particolare l’attuale convivere della disoccupazione congiunturale con la strutturale, il paradigma dell’accumulazione flessibile della cosiddetta era post-fordista dovuta all’automazione della produzione e all’intensificazione del lavoro, tutto ciò esercita un’influenza sostanziale sul generale peggioramento della situazione complessiva mondiale della classe lavoratrice. L’ “incertezza dell’esistenza”, di cui parlò Engels, continua ad accentuarsi. Questi fatti oggettivi sono una conferma convincente della validità della teoria marxiana dell’impoverimento assoluto e relativo. E quindi lo sviluppo stesso del capitalismo contemporaneo ribadisce interamente un’altra tesi fondamentale di Marx, quella cioè dell’intensificazione del processo di proletarizzazione in seno alla società capitalistica, dell’incremento, seppur in forme diverse e articolate, del lavoro subordinato, del lavoro salariato.

L’attuale questione economico-sociale del lavoro non è solamente connessa alla disoccupazione sempre più a carattere strutturale, bensì riguarda una serie di problemi di carattere quanti/qualitativo e quindi delle nuove figure del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro, figure comunque tutte interne a sempre lo stesso modo di produzione capitalistico. Il problema lavoro esiste ormai anche per coloro che ne possiedono uno, dato che si lavora sempre di più ed in condizioni sempre più precarie, non tutelate, con salario sociale assoluto, e anche relativo al singolo lavoratore, sempre minore e con alti livelli di mobilità e intermittenza.

L’analisi che effettuiamo sull’attuale crisi del capitalismo, crisi anche di sovrapproduzione, di accumulazione e di domanda a causa anche della tendenza alla contrazione complessiva del salario sociale dell’intera classe lavoratrice, è crisi dovuta anche al passaggio dall’accumulazione materiale a forme di accumulazione su capitale immateriale. I nuovi processi di accumulazione sono anche collegati ai forti incrementi di produttività non redistribuita e ai processi di terziarizzazione, cui si accompagnano significativi spostamenti sulla rendita finanziaria. Tutto ciò serve ad evidenziare che il cosiddetto ciclo post-fordista della fabbrica sociale generalizzata realizza oltre a disoccupazione strutturale, anche le mille forme del lavoro atipico e flessibile, comunque catalogabili fra il lavoro salariato, dipendente,eterodiretto.

Oggi, la maggioranza schiacciante della popolazione dei paesi capitalistici è sempre composta da lavoratori salariati; il lavoro salariato costituisce la base del capitalismo, su scala molto più grande che ai tempi di Marx, all’interno dei processi e delle dinamiche di funzionamento del modo di produzione capitalistico di sempre.

I cambiamenti più recenti nella struttura della classe lavoratrice stessa indicano l’estrema importanza della categoria dell’operaio “collettivo”, introdotta e analizzata nel Capitale. Tale categoria comprende gli operatori del lavoro fisico e intellettuale che partecipano direttamente alla fabbricazione di un prodotto e sono comunque, rispetto al capitale, dei lavoratori salariati, lavoratori subordinati

E’ così che si giunge ad una fase in cui si stanno velocemente affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità, nuove povertà e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di ricomposizione e organizzazione del conflitto capitale-lavoro a partire da un’offensiva da parte dei lavoratori tutti.

Si tratta di forzare l’orizzonte a partire dal superamento dei confini sociali fra classe operaia propriamente detta, gli intellettuali, nuove figure del lavoro, del lavoro negato, del non lavoro, e accomunare questi gruppi sociali nella loro lotta per l’emancipazione sociale; ritrovandosi nei fatti nel conflitto capitale-lavoro,superandonellalotta gli schemi dell’ormai, decretata da alcuni studiosi anche di origine marxista, fine del lavoro.